Il controllo giudiziale sull’effettività del licenziamento per motivo oggettivo

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale n. 4/2015

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CASSAZIONE CIVILE n. 5173, 16 marzo 2015, Sez. lav. – Pres. Macioce – Est. Buffa – P.M. Fresa (Conf.), Assitur s.r.l. (avv. Pessi) c. T.M. (avv. Agosto).
Conf. Corte di Appello di Catanzaro del 30 agosto 2011.


Lavoro (Rapporto di) – Licenziamento individuale - Giustificato motivo oggettivo – art. 3,
legge 15 luglio 1966, n. 604 – Controllo giudiziale sull’effettività delle ragioni – Calo di
commesse – Soppressione posto di lavoro – Attività affidata in appalto - Obbligo di repechage – Onere della prova – Illegittimità del licenziamento.


Non costituiscono idonea giustificazione al licenziamento per giustificato motivo oggettivo le ragioni addotte dal datore di lavoro ove tali ragioni richiamino a un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale che non può essere meramente strumentale ad un incremento del profitto, ma devono essere dirette a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti. Il lavoratore ha quindi il diritto che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale ad iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo organizzativo, e non ad un mero incremento di profitti, e che dimostri, inoltre, l'impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale


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CASSAZIONE CIVILE n. 12242, 12 giugno 2015, Sez. lav. – Pres. Lamorgese – Est. Ghinoy –
P.M. Celeste (Conc. rigetto) Dolce e salato di Baucia Giovanni & C. s.n.c. (avv.ti Luponio e
Porrati) c. C.F. (avv.ti Spinoso e Grattarola).

Conf. Corte di Appello di Torino del 13 gennaio 2012.


Lavoro (Rapporto di) – Licenziamento individuale - Giustificato motivo oggettivo – art. 3,
legge 15 luglio 1966, n. 604 – Controllo giudiziale sull’effettività delle ragioni – Soppressione
posto di lavoro – Ingresso nuovi soci - Obbligo di repechage – Onere della prova –
Illegittimità del licenziamento.


Non costituisce giustificato motivo oggettivo, idoneo, in quanto tale, a giustificare il licenziamento del lavoratore per soppressione del posto di lavoro conseguente alla riorganizzazione aziendale, il subingresso nella società datoriale di nuovi soci lavoratori adibiti allo svolgimento delle mansioni prima assegnate al lavoratore licenziato. La circostanza che i predetti soggetti, a prescindere dalla configurabilità o meno in capo ad essi della qualifica di soci-lavoratori, siano impiegati nello svolgimento delle mansioni in precedenza svolte dal prestatore licenziato, invero, esclude chiaramente che il riassetto organizzativo, posto dal datore di lavoro alla base dell'intimato licenziamento, sia diretto a fronteggiare situazioni sfavorevoli e non contingenti, idonee ad influire sulla normale attività produttiva, imponendo una effettiva riduzione dei costi (1-3)


(*) il testo delle sentenze è pubblicato in www.ediesseonline.it/riviste/rgl

Il controllo giudiziale sull’effettività del licenziamento per motivo oggettivo (1-3)


Sommario: 1. Le ragioni poste a giustificazione dei licenziamenti: calo di commesse e soppressione del posto di lavoro per attività affidata in appalto (sentenza n. 5173/2015) e soppressione del posto di lavoro per ingresso di nuovi soci (sentenza n. 12242/2015). – 2. La nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo tra dottrina e giurisprudenza: i concetti di costo contabile e costo- opportunità. – 3. L’ambito e i limiti del controllo giudiziale sull’effettività della ragione del recesso che non può mai essere ricondotta a mere esigenze di profitto.

 (1) Le ragioni poste a giustificazione dei licenziamenti: calo di commesse e soppressione del
posto di lavoro per attività affidata in appalto (sentenza n. 5173/2015) e soppressione del
posto di lavoro per ingresso di nuovi soci (sentenza n. 12242/2015).


Le sentenze in commento trattano il caso di due licenziamenti intimati per giustificato motivo
oggettivo dichiarando, entrambe, l’illegittimità degli stessi in quanto le ragioni poste a fondamento
del recesso sono riconducibili, principalmente, ad un ridimensionamento dell’attività imprenditoriale
meramente strumentale ad un incremento di profitto. La vicenda risulta di particolare interesse in
quanto la Suprema Corte, con due decisioni ravvicinate nel tempo, conferma il proprio orientamento
sulla rilevanza del controllo giudiziale sull’effettività della ragione posta alla base del recesso.
Sul punto, si evidenzia infatti che la prima sentenza dichiara illegittimo il licenziamento sia poiché
ritiene inesistente il calo di commesse sia per mancanza di nesso di causalità tra la soppressione del
posto di lavoro e il contratto di appalto stipulato molto prima del recesso. La seconda decisione
accerta l’illegittimità del provvedimento espulsivo non ritenendo, quale valido motivo del recesso,
un riassetto organizzativo posto in essere con l’attribuzione a nuovi soci delle mansioni
precedentemente svolte dalla lavoratrice licenziata.
Per chiarezza espositiva, riteniamo utile ricostruire brevemente e separatamente i fatti che hanno
portato alle decisioni della Suprema Corte in commento, iniziando da quelli che hanno interessato la
sentenza emessa dalla sezione Lavoro il 16 marzo 2015.
In tale occasione, i giudici di legittimità si sono trovati a dover decidere sulle censure avanzate alla
sentenza della Corte di Appello di Catanzaro che, nel confermare la pronuncia del Giudice di primo
grado, aveva ribadito l’illegittimità del licenziamento di un lavoratore intimato in ragione del
presunto calo delle commesse e per aver, l’azienda stessa, stipulato un contratto di appalto per lo
svolgimento dell’attività cui era addetto il lavoratore licenziato. Orbene, la Suprema Corte, ha
ritenuto insussistenti e irrilevanti le motivazioni poste a fondamento del ricorso: da un lato, perché il
presunto calo delle commesse era risalente nel tempo e, anzi, l’impresa aveva chiuso il bilancio con
un utile e, dall’altro, perché il contratto di appalto era stato stipulato ben sei mesi prima del
licenziamento del lavoratore. Con tale pronuncia la Cassazione ha confermato un orientamento più
volte espresso in materia ribadendo che “il licenziamento individuale per giustificato motivo
oggettivo, della L. 15 luglio 1996, n. 604, ex art. 3, è determinato non da un generico
ridimensionamento dell’attività imprenditoriale ma dalla necessità di procedere alla soppressione
del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere
meramente strumentale ad un incremento del profitto ma deve essere diretta a fronteggiare
situazione sfavorevoli non contingenti”.
La Suprema Corte ha aggiunto, inoltre, che il licenziamento poteva essere ritenuto legittimo solo nel
caso in cui l’imprenditore avesse dimostrato di non poter adibire il lavoratore ad altre mansioni;
circostanza, questa, non verificatasi.
Altro caso, invece, è quello trattato dalla sentenza del 12 giugno 2015, n. 12242, nella quale viene
esaminata la vicenda di una prestatrice di lavoro, assunta con contratto di apprendistato della durata
di due anni, con qualifica di commessa, e licenziata prima del termine per giustificato motivo
oggettivo. La lavoratrice è stata licenziata a seguito all’ingresso in società di un nuovo socio a cui
sono state attribuite le mansioni da questa precedentemente svolte; la medesima, impugnato il
licenziamento, ha visto riconoscersi, sia in primo grado sia in appello, l’illegittimità del recesso
datoriale per giustificato motivo oggettivo. I giudici di legittimità, nel confermare le decisioni
precedenti, hanno stabilito che non può ritenersi legittimo un licenziamento irrogato per giustificato
motivo oggettivo allorquando il datore di lavoro non abbia nè provato nè indicato le ragioni che
hanno determinato il riassetto societario; nella lettera di licenziamento si è fatto un generico
riferimento all’“ingresso in società di una nuova socia”, senza alcuna giustificazione, neppure di
ordine economico, che creasse un nesso di causalità tra l’operazione di riorganizzazione societaria e
il licenziamento dell’apprendista. I giudici della Suprema Corte hanno ritenuto che l’attribuzione a un nuovi soci delle mansioni svolte dalla dipendente licenziata non costituisce una ragione inerente “ all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, risultando, pertanto, tale motivazione inidonea a legittimare il recesso datoriale per giustificato motivo oggettivo ai sensi della L. 604/66.


(2) La nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo tra dottrina e
giurisprudenza: i concetti di costo contabile e costo-opportunità.


La comprensione delle sentenze in esame non può prescindere da una breve analisi dell’istituto del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Per questioni di brevità espositiva, ci soffermeremo
sulla definizione e le caratteristiche del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, previsto
dalla seconda parte dall’art. 3 della L. 604/66 e di cui si discorre nella presente nota. Tale forma di
licenziamento sussiste allorquando siano presenti fatti relativi “all’attività produttiva, all’
organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. 1
La definizione che la legge dà di giustificato motivo oggettivo è risultata essere piuttosto lacunosa
per cui giurisprudenza e dottrina hanno cercato, nel tempo, di definire ambiti più circoscritti nei
quali collocare tale istituto, confrontandosi alla ricerca di parametri certi per la definizione e la
delimitazione ontologica del “giustificato motivo oggettivo”, così come descritto dall’art. 3 della
citata L. 604/66. Ciò anche al fine di colmare quella eccessiva genericità di tale disposizione
normativa e, soprattutto, con l’obiettivo di addivenire ad una costruzione teorico – interpretativa che
risulti solida in fase di applicazione giurisprudenziale.
In primo luogo, il problema ha riguardato la qualificazione e quantificazione dell’evento di carattere
produttivo-organizzativo in base al quale il datore di lavoro può disporre il licenziamento; in altre
parole, se il licenziamento per giustificato motivo oggettivo possa ritenersi legittimo in presenza di
qualsiasi ragione di convenienza economica e organizzativa unilateralmente individuata dall’
imprenditore-datore di lavoro. 2


In linea generale, sarebbe legittimamente configurabile tale fattispecie di recesso ogniqualvolta sia
riscontrabile un nesso di causalità tra le esigenze tecnico-produttive dell’azienda e l’impossibilità di
utilizzare, in altri ambiti produttivi, quel lavoratore.
Nella valutazione di tale nesso di causalità, tuttavia, potrebbe risultare utile procedere con un
approccio esegetico interdisciplinare; per tale motivo c’è stato lo sforzo di parte della dottrina nel
fornire al giudice del lavoro strumenti estranei alle logiche prettamente giuridiche facendo entrare
in gioco, inevitabilmente, elementi e nozioni mutuati dalla dottrina economica e volti ad individuare
concetti quali quello di “costo contabile” e “costo-opportunità”. 3

Per completezza espositiva, occorre, seppur brevemente, delineare l’evoluzione di tali criteri di
origine economica nella elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria.
Il costo contabile indica semplicemente l’esborso monetario rispetto alla scelta effettuata mentre il
costo-opportunità rappresenta la rinuncia all’utilità associata ad un’alternativa praticabile rispetto alla scelta compiuta. 4


Il costo-opportunità rappresenterebbe, pertanto, il criterio in base al quale l’imprenditore, nell’
esercizio della libertà di iniziativa economica garantitagli dall’art. 41 della Carta Costituzionale, assume la decisione di licenziare un lavoratore per motivo organizzativo; il risultato negativo della comparazione di costi e benefici produrrebbe pertanto il convincimento del datore sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo. 5

Il compito del giudice consisterebbe nel verificare, ex post, la sussistenza della reale motivazione di economicità della scelta datoriale.
Secondo quindi una parte della dottrina, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non risulta legittimo ogni qualvolta si riscontri un indice di convenienza economica per l’imprenditore, ma solo nel caso in cui tale “convenienza” superi una certa soglia, auspicabilmente individuabile dal legislatore. 6
Volendo sintetizzare tale prospettiva è necessario premettere che tale costruzione interpretativa prende le mosse dal presupposto per cui in ciascun contratto di lavoro è implicita una clausola “assicurativa” che impone al datore di lavoro di proseguire con il rapporto contrattuale fintanto che non venga superato il c.d. “massimale assicurato” e cioè quando risulti in perdita il bilancio preventivo della prosecuzione del rapporto stesso; si potrà, pertanto, porre in essere un licenziamento per giustificato motivo oggettivo quando sia ragionevolmente prevedibile una perdita
superiore al “massimale assicurato”. 7


Un approccio esegetico interdisciplinare ha trovato una prima applicazione in giurisprudenza con la sentenza del Tribunale di Palermo del 10 dicembre 2003 ove, tuttavia, il giudice ha autolimitato il proprio ruolo di giudizio all’accertamento della sussistenza di una perdita attesa permanente, senza spingersi a valutarne l’entità dal momento che il solo fatto della prevedibilità della prosecuzione del rapporto in perdita giustificherebbe il licenziamento. 8

D’altra parte, tale impostazione giurisprudenziale tiene debitamente da conto il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità che impedisce al giudice di interferire nelle scelte imprenditoriali sia nel rispetto della libertà di iniziativa economica sancita dall’art. 41 Cost., sia in ragione del fatto che eventuali giudizi di “opportunità” sulle scelte economiche operate dal legislatore richiederebbero al giudice l’applicazione di conoscenze teorico-pratiche di carattere economico e aziendalistico che non gli competono.
Oltretutto, anche dalla lettura della innovativa sentenza di Palermo del dicembre 2003 emerge un’
estrema difficoltà per l’organo giudicante di addivenire ad una valutazione del costo-opportunità che avrebbe indirizzato l’imprenditore alla scelta del licenziamento; invero, nel caso di specie, persino il consulente tecnico cui era stato affidato il ruolo di valutare il costo-opportunità derivante dal licenziamento si era limitato ad effettuare una valutazione sul costo-contabile sostenendo che, in assenza dei licenziamenti effettuati dall’imprenditore, il bilancio d’esercizio sarebbe stato gravato da ulteriori perdite, costituite dagli stipendi dei lavoratori licenziati; tale affermazione risulta
palesemente priva di ogni valutazione del reale costo-opportunità che tenga conto non solo dell’
esborso economico del pagamento degli stipendi ai lavoratori ma anche degli eventuali apporti di utilità dei lavoratori stessi nelle complesse dinamiche aziendali. 9

Sicuramente una valutazione di prognosi difficilmente giustificabile da un punto di vista oggettivo e che rappresenta anche il limite di tale impostazione.
Risulta estremamente semplicistico, tuttavia, definire legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo tutte le volte in cui allo stesso si sia ricorso per ragioni economiche. Se così fosse, non sussisterebbe la fattispecie in parola, in quanto tutte le decisioni imprenditoriali di licenziamento sarebbero dovute a giustificato motivo soggettivo, risultando così legittime le scelte comunque assunte e tracciando la strada per l’affermazione di un presunto – quanto mai pericoloso – principio di insindacabilità tout court delle scelte imprenditoriali. Dove, allora, tracciare il solco? Dove porre il limite alle scelte imprenditoriali? Sicuramente, la libertà di iniziativa economica, sancita dall’art. 41 Cost., risulta essere il confine entro cui il giudice deve muoversi nel verificare la legittimità del licenziamento; un confine invalicabile che ne traccia anche la strada interpretativa. 10 In merito, si evidenzia ancora che risulta irrilevante, secondo giurisprudenza consolidata 11, se l’ attuazione di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo sia dovuta o meno a ragioni inerenti l’ attività produttiva; in altre parole, non rileva se la scelta datoriale sia dettata da un’esigenza di limitazione delle perdite o da una necessità di incremento dei profitti. Gli unici due requisiti richiesti sono la sussistenza delle esigenze addotte a giustificazione del licenziamento e la non pretestuosità delle stesse. 12

Probabilmente il reale strumento offerto al giudice del lavoro – e che ci aiuta anche nella definizione della nozione di giustificato motivo – è la possibilità di controllare sia l’oggettività e l’ effettività del licenziamento rispetto all’attività aziendale sia il nesso di causalità tra la scelta imprenditoriale e la reale esigenza economico-organizzativa; il giudice del lavoro deve essere messo in grado di constatare l’eventuale pretestuosità della modifica organizzativa per ragioni economiche, consentendogli anche di accertare comportamenti che nascondano, dietro l’atto del licenziamento, ragioni diverse e ulteriori rispetto a quelle economico-organizzative. Questo, in sintesi, appare il nodo essenziale dell’interpretazione rimessa al giudice su cui far vertere l’intera attività di verifica e che consente al magistrato di valutare, ex post, la genuinità della scelta imprenditoriale. La giurisprudenza, infatti, esige che il datore di lavoro dimostri in giudizio, in modo rigoroso, il nesso causale tra la contingenza imprenditoriale che ha determinato l’ estromissione e la posizione del lavoratore licenziato.13

Da quanto fin qui esposto, emerge che sia la giurisprudenza che la dottrina hanno elaborato una nozione di giustificato motivo oggettivo “integrata” da diverse discipline e sicuramente qualificata in maniera più rigorosa rispetto alla nozione genericamente descritta dalla norma che la disciplina. Rientrano, pertanto, nella nozione di giustificato motivo oggettivo tutte le ipotesi di riassetto organizzativo dell’azienda attuato in vista di una gestione più economica dell’impresa e deciso dall’ imprenditore non solo e semplicemente per un incremento del profitto ma per far fronte a situazioni sfavorevoli.
Il motivo oggettivo di licenziamento è rimesso alla valutazione del datore di lavoro senza che il giudice di merito possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, in quanto espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., ma sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato. 14 

Il giudice effettuerà controlli di coerenza, adeguatezza (attraverso la sussistenza del c.d. nesso di
causalità), necessità (con la verifica dell’avvenuto tentativo di repêchage) e proporzionalità del
sacrificio imposto dall’atto per la realizzazione del fine tutelato 15. Il tutto sempre tenendo conto
della ponderazione, per via giudiziale, degli interessi in gioco in funzione esplicativa del principio
di solidarietà sociale. 16

(3) L’ambito e i limiti del controllo giudiziale sull’effettività della ragione del recesso che non può mai essere ricondotta a mere esigenze di profitto.

Le sentenze in commento appaiono di particolare interesse poiché offrono alcuni spunti di riflessione
in un periodo molto particolare per il diritto del lavoro, ove le recenti riforme legislative sembrano prefigurare un vero e proprio capovolgimento della regola della tutela del contraente più debole, ossia il prestatore di lavoro, attraverso una serie di norme, ci sia consentito, a dir poco “blindate”, il cui principale scopo pare quello di limitare al minimo il cosiddetto controllo giurisdizionale.
Il recente impianto normativo 17 appare interamente teso a “ribilanciare” quella diseguaglianza nelle tutele tra le parti che una volta sembrava pregiudicare il solo lavoratore, quale contraente debole, per consentire invece un bilanciamento rispetto al mutato quadro sociale ed economico, in favore del datore. Quest’ultimo, infatti, sembra esser diventato la parte debole del rapporto, in quanto, secondo alcuni commentatori, costretto a confrontarsi con l’attuale sistema economico internazionale, connotato da una forte competitività frutto della globalizzazione e della generalizzata crisi mondiale. Si potrebbe affermare che siamo di fronte ad una vera e propria “rivoluzione tolemaica” del diritto del lavoro (ovviamente parafrasando quella “copernicana”) dove, rispetto al passato, oggi non sembra più esserci il lavoratore al centro della tutela del legislatore ma l’imprenditore e comunque l’
azienda.
Visto che le recenti riforme sembrano, almeno ad una prima impressione, aver eliminato la diseguaglianza tra questi due contraenti (datore e prestatore) che, invece, aveva giustificato le precedenti riforme del diritto del lavoro, allora la presente vicenda appare di notevole interesse per comprendere quale sia, ad oggi, secondo il giudici di legittimità, il limite del controllo giudiziale sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Ancora prima di entrare nello stretto merito delle questioni affrontate dalle decisioni in commento, occorre sin da subito evidenziare che il denominatore comune di entrambe le sentenze riguarda l’
opzione interpretativa, ricavata dalla lettura combinata dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 e dell’
art. 41, 2° comma, Cost., secondo cui la risoluzione aziendale che determina il recesso non può mai essere motivata da mere esigenze di profitto.18
A questo punto, occorre comprendere quali sia l’ambito e i limiti del controllo giudiziale al fine di
verificare l’effettività della ragione posta alla base del provvedimento espulsivo per motivo oggettivo. In concreto, secondo l’interpretazione maggioritaria della giurisprudenza, la “verifica giudiziale sulle ragioni organizzative giustificatrici del licenziamento investe soltanto il profilo dell’
effettività dei motivi addotti dal datore di lavoro, sul qual grava anche l’onere di provare l’
inesistenza di posizioni lavorative analoghe a quella soppressa”.19

Vi sono allora vere e proprie condizioni di legittimità del recesso per le quali il datore di lavoro ha l’
onere della prova, come l’obiettività delle ragioni datoriali addotte a giustificazione del recesso e,
quindi, la reale soppressione del posto conseguente alla scelta aziendale. Occorre accertare, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, di cui si darà conto nel prosieguo della presente nota, che le ragioni addotte a giustificazione del recesso siano realmente funzionali a fronteggiare situazioni sfavorevoli sopravvenute e non contingenti; è necessario, inoltre, constatare che tali motivazioni influiscano sulla normale attività produttiva, sì da doversene escludere il carattere
pretestuoso ed occasionale o una finalità meramente strumentale all’incremento del profitto.
Ma soprattutto, il controllo giudiziale si deve incentrare, principalmente, sull’esistenza di un preciso
nesso di causalità tra tali ragioni ed il licenziamento del lavoratore. Senza tralasciare, tuttavia, il controllo della impossibilità di reimpiego del prestatore (cd. obbligo di “repechage”), cosicché il licenziamento deve costituire l’“extrema ratio”.
In altri termini “il giudice ha il potere dovere di verificare se le circostanze di fatto allegate come
determinative della decisione di porre termine al rapporto di lavoro siano state provate e non siano
pretestuose e strumentali. In mancanza di tale prova il licenziamento deve ritenersi illegittimo”. 20

La questione sul controllo giudiziale della effettività della ragione del recesso non è di poco conto in
quanto, secondo un’autorevole dottrina 21, la prima sentenza oggetto di commento, ossia la Cassazione n. 5173 del 2015, avrebbe disatteso “platealmente il principio di costituzionalità della insindacabilità delle scelte gestionali dell’imprenditore”.
Tale autore critica in maniera molto severa il principio espresso dai giudici di legittimità, 22
ritenendolo fortemente lesivo della libertà imprenditoriale, affermando in merito che aderendo all’
interpretazione offerta dalla Cassazione, “all’imprenditore è inibito persino di compiere le scelte
necessarie per prevenire una crisi economica della propria azienda”; osserva ancora sul punto la citata dottrina che i giudici sia di merito sia di legittimità “sembrano non rendersi conto che la possibilità di aggiustamento degli organici deve essere assicurata all’impresa in tempo utile per
prevenire la crisi”. 23
Ebbene, la tesi di tale autore non è condivisibile, in quanto non tiene conto non solo del consolidato
orientamento giurisprudenziale formatosi nel tempo sul punto, ma travisa lo stesso ragionamento
della Suprema Corte che, in realtà, leggendo integralmente la sentenza, in alcun modo entra nel
merito della scelta organizzativa imprenditoriale, limitandosi invece ad effettuare, in maniera del
tutto legittima, il controllo di effettività su tale scelta. 24

Affermano, infatti, i giudici della Cassazione, nella decisione del marzo 2015, che già la Corte di
appello aveva ritenuto che il recesso era giustificato da due motivi contraddittori, ossia il calo di
commesse e l’esternalizzazione dell’attività a cui era addetta il prestatore. Nel merito era stato infatti
accertato sia che la perdita delle commesse era risalente nel tempo, circostanza ovviamente in
contrasto con un utile di bilancio, sia che il licenziamento del dipendente era avvenuto dopo sei mesi
dal contratto di appalto stipulato invece per lo svolgimento dell’attività del reparto a cui era addetto
il dipendente. Senza contare poi, che parte datoriale non aveva dimostrato l’impossibilità di utilizzare aliunde il dipendente licenziato.
Proprio sulla base di tali elementi, la Suprema Corte ha affermato che “tale valutazione,
congruamente ed ampiamente motivata, non è volta in alcun modo a sindacare le scelte
discrezionali ed insindacabili dell’imprenditore, limitandosi correttamente a verificare la veridicità delle scelte invocate da datore di lavoro e la effettività dei riflessi di quelle scelte sulla necessità di licenziamento del dipendente: al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo
addotto dall’imprenditore”. E’ apparso opportuno richiamare, per intero, tale importante passaggio del ragionamento decisorio, al fine di evidenziarne la totale coerenza sia con il consolidato orientamento della Cassazione sia con i principi generali dell’ordinamento (articolo 3 della legge
604/66) e, in particolare, con quelli di valore costituzionale (art. 41 della Costituzione).
Occorre, altresì, evidenziare che la ratio della 3 l. n. 604 del 1966 è quella di consentire il recesso
dal rapporto ogni qual volta l’imprenditore, nell’esercizio dell’iniziativa economica ed in base ad
una valutazione di natura strettamente economico-produttiva, ritenga che la permanenza del vincolo contrattuale sia inutile. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo si configura ogni qual volta
vi sia un caso di inutilità sopravvenuta di una certa funzione aziendale o di un complesso di
mansioni che non sono più necessarie per il buon andamento aziendale.
Il provvedimento espulsivo non è tuttavia totalmente libero, altrimenti si lascerebbe il lavoratore
esposto all’arbitrio datoriale.
Il ragionamento sin qui esposto trova conferma anche nella seconda sentenza oggetto di esame, ossia
la n. 12242 del 12 giugno 2015. Anche in questa decisione la Suprema Corte afferma che costituisce
un principio consolidato quello secondo il quale il motivo oggettivo del licenziamento determinato
da ragioni inerenti l’attività produttiva, tra cui rientra anche il caso di un riassetto organizzativo
attuato per una più economica gestione di impresa, è rimesso alla valutazione discrezionale del
datore di lavoro, mentre al giudice spetta “il controllo della reale sussistenza del motivo addotto
dall’imprenditore”.
Secondo i giudici di legittimità, quindi, non è in alcun modo sindacabile la scelta imprenditoriale che
abbia determinato la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il dipendente licenziato “
sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato”, il cui onere
della prova incombe sul datore di lavoro. Tuttavia, a parere dei giudici di legittimità “l’operazione del riassetto costituisce la conclusione del processo organizzativo, ma non la ragione dello stesso, che, per imporsi sull’esigenza di stabilità, deve essere seria, oggettiva e non convenientemente
eludibile (Cass. n. 7474 del 14/05/2012, Cass. n. 15157 del 11/07/2011)”. Pertanto, a parere del
la seconda decisione in commento, rimane insindacabile la scelta effettuata dal datore di
lavoro, ma deve essere necessariamente verificabile il fondamento giustificativo delle ragioni che
hanno determinato il riassetto organizzativo. Ebbene, nel caso in esame, nella lettera di
licenziamento veniva comunicato che il recesso era stato disposto per soppressione del posto di
lavoro, in seguito all’ingresso nella società di una nuova socia. Nel corso del giudizio la società si era difesa limitandosi ad affermare che al posto della lavoratrice erano subentrati due nuovi soci
lavoratori che erano andati a svolgere le sue stesse mansioni, ciò determinando la soppressione del
posto di lavoro. I giudici della Suprema Corte asseriscono in merito che “nessun fondamento
obiettivo, neppure di ordine economico, è stato quindi prospettato al fine di giustificare l’operazione di riassetto che ha comportato la sostituzione di un socio (o due) alla lavoratrice nello svolgimento delle mansioni che costituivano il suo “posto di lavoro”, sicché non può ritenersi sussistente il
giustificato motivo oggettivo”.
A parere di chi scrive, quindi, i principi espressi dalle sentenze in esame non disattendono né il principio costituzionale della insindacabilità delle scelte imprenditoriali, né si discostano dalla ratio
della norma (articolo 3 della legge 604/66), che disciplina, seppur apoditticamente, le ragioni che
legittimano detta scelta. In realtà, entrambe le sentenza in commento si limitano, in maniera del tutto
legittima, a controllare l’effettiva sussistenza della motivazione addotta per il recesso e che vi sia un
nesso di causalità tra la stessa e il licenziamento. Tale convinzione è suffragata dalle stessa lettura
della prima decisione in commento (la n. 5173 del 2015) ove i giudici osservano, richiamando sul
punto un consolidato orientamento della Suprema Corte, che il licenziamento individuale per
giustificato motivo non può essere determinato da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, 25 ma da una necessità di precedere alla soppressione del posto di lavoro “che non può essere meramente strumentale ad un incremento del profitto, ma deve essere diretta a
fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti. Il lavoratore ha quindi il diritto che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento
individuale ad iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo organizzativo, e non ad
un mero incremento di profitti, e che dimostri, inoltre, l'impossibilità di utilizzare il lavoratore
stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale”.26

Premesso, infatti, che la riduzione dei costi è un obiettivo legittimo per ogni imprenditore, tuttavia è
invece illegittimo il licenziamento volto solo al conseguimento di un maggior profitto
imprenditoriale, perché sicuramente l’estromissione di un lavoratore riduce i costi salariali.
La Cassazione al riguardo, ha affermato non solo che la ristrutturazione societaria debba essere
motivata e strettamente connessa con situazioni di tipo duraturo ed effettive, ma anche che dette
ragioni debbano essere adeguatamente spiegate ed articolate, tanto è vero che “il licenziamento
intimato in ragione di una ristrutturazione resasi necessaria a causa del costante peggioramento
della situazione economica societaria e della sensibile diminuzione delle commesse degli ultimi anni
finanziari, era da considerare sproporzionato in quanto dai dati rilevati non era stato dimostrato
alcun calo del fatturato o altro elemento che evidenziava la effettiva soppressione del posto di
lavoro”.27

Sul punto appare opportuno richiamare i principi della consolidata giurisprudenza delle Sezioni
Unite della Cassazione, secondo cui sono illegittimi i licenziamenti intimati per giustificato motivo
oggettivo che mirino solo ad una maggior redditività attraverso la sostituzione di lavoratori più costosi con lavoratori meno costosi, precari, interinali, in stage.28

Per completezza del ragionamento sin qui svolto, appare opportuno riportare un passo significativo
della sentenza delle Sezioni Unite del 11 aprile 1994 n. 3353: “è stato altresì ritenuto che rientra
nella previsione dell’art. 3, 2ª parte, l. 15 luglio 1966 n. 604 l’ipotesi di un riassetto organizzativo
dell’azienda, attuato al fine di una più economica gestione di essa, e deciso dall’imprenditore, non
pretestuosamente e non semplicemente per un incremento del profitto, bensì per far fronte a
sfavorevoli situazioni - non meramente contingenti – ininfluenti in modo decisivo sulla normale
attività produttiva (Cass. 18 aprile 1991, n. 4164, id. Rep, 1991, voce cit., n. 1541; 10 maggio 1986,
n. 3127, id. Rep. 1986, voce cit., n. 2082; 2 febbraio 1983, id. Rep. 1983, voce cit., n. 2299)”. 29
Tale passaggio, conferma la correttezza del ragionamento delle sentenze in commento che trovano supporto nei principi affermati addirittura dalla Sezioni Unite.
In definitiva, la nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo va intesa come estrema
ratio nel conflitto d’interessi tra datore di lavoro e lavoratore ed a vantaggio di quest’ultimo, nel
senso che le ragioni di ordine produttivo ed organizzativo devono essere tali nella loro oggettività e senza alcun margine di arbitrarietà datoriale, da determinare conseguentemente l’inutilizzabilità della prestazione lavorativa.30

1 Sulla funzione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è interessante riportare la considerazione di parte della dottrina che individua in tale istituto una deroga al regine di stabilità del rapporto a causa della sopravvenienza di eventi o di vicende che impediscano di utilizzare la prestazione del lavoratore per la realizzazione degli obiettivi cui è destinata. Cosicché consente al datore di lavoro di sciogliersi dal rapporto che non può continuare solo per gli oneri che ne discendono, come se debba assolvere ad un fine previdenziale e/assistenziale che non appartiene, e deve restare estraneo, alla sua natura. Così, R. Scognamiglio, Diritto del lavoro, Jovene, Napoli, p. 537.


2 Sulla base della corretta interpretazione del dato normativo, il giustificato motivo oggettivo deve identificarsi nelle vicende e/o negli eventi che, per la incidenza immediata sulla realtà aziendale in cui il lavoratore è inserito, cagionano l’effettiva esigenza del datore di porre fine al rapporto di lavoro. in tal senso, R. Scognamiglio, op. ult. cit., Jovene, Napoli, p. 538.


3 La prima applicazione in giurisprudenza, a quanto consta, di tale costruzione interpretativa, mutata dalla dottrina economica, si riscontra nella sentenza del Dott. Cavallaro, Giudice del Lavoro del Tribunale di Palermo, emessa in data 10 dicembre 2003, con nota di V. Ponte, La valutazione dei costi nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo: apertura alla teoria della “perdita attesa” e valutazione giudiziale della sua sostenibilità, in LavoroPrevidenza.com, 7 ottobre 2004: Tale decisione è stata commentata da F. Stolfa, Riv. it. dir. Lav., Giustificato motivo oggettivo di licenziamento: i primi frutti di un dialogo tra giurisprudenza e dottrina, III, p. 630 e ss., 2004. Sul punto si veda anche Cass. 10 maggio 2007, n. 10672, con nota di M. Novella, "I concetti di costo contabile, di costo-opportunità e di costo sociale nella problematica costruzione gius-economica del giustificato motivo oggettivo di licenziamento", e con nota di Pietro Ichino, "Il costo sociale del licenziamento e la perdita aziendale attesa per la prosecuzione del rapporto come oggetto del bilanciamento giudiziale", 989, in Riv. it. dir. lav. 2007, che afferma “ai fini della sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ferma restando la prova dell'effettività e della non pretestuosità del riassetto organizzativo operato, le ragioni inerenti all'attività produttiva possono sorgere, oltre che da esigenze di mercato, anche da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali che ne siano le finalità, quindi anche quelle dirette a un risparmio dei costi o all'incremento dei profitti, quale che ne sia l'entità”..

4 Sul punto M. Novella “I concetti di costo contabile, di costo-opportunità e di costo sociale nella problematica costruzione gius-economica del giustificato motivo oggettivo di licenziamento” in op. cit., 4, pp. 990, Ottobre-Dicembre, 2007.

5 Cfr. P. Ichino “Il contratto di lavoro”, III, Tratt. CM, 2003, pagg. 439 e ss

6 In tal senso, P. Ichino, Riv. it. dir. lav., III, p. 5, 1999, che afferma ancora sul punto “secondo la legge oggi vigente il lavoratore può essere licenziato quando dalla prosecuzione del rapporto derivi per l’impresa, in termini di valore atteso, una perdita (derivante da costi contabili o da costi opportunità) superiore ad una soglia di sopportabilità….la soglia di sopportabilità della perdita attesa conseguente alla prosecuzione del rapporto, che definisce il giustificato motivo oggettivo di licenziamento di cui all’art. 3 della legge del 1966, è una grandezza di natura esclusivamente patrimoniale, sempre suscettibile di essere espressa in termini monetari”.

7 Si veda in merito, P. Ichino, Il contratto di lavoro”, op. cit., pagg. 439 e ss.

8 Si legge nella sentenza palermitana del 10 dicembre 2003, op. cit., che “deve escludersi che il rapporto di lavoro alle dipendenze di un’impresa abbia ancora ragion d’essere allorché il datore di lavoro non ha più motivo di attendersi dal lavoratore impiegato la stessa utilitas che l’aveva indotto ad assumerlo, vale a dire lo stesso flusso di redditi che gli permette la valorizzazione del capitale investito”, richiamando l’orientamento per cui anche una modesta entità di risparmio raggiunta attraverso il licenziamento sia di per sé sufficiente a giustificarne la legittimità.

9 In tal senso, Tribunale di Palermo, 10 dicembre 2003, est, Cavallaro, con nota di V. Ponte, La valutazione dei costi nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo: apertura alla teoria della “perdita attesa” e valutazione giudiziale della sua sostenibilità, op. cit., 2004. Nonché si veda sulla medesima sentenza, nota di F. Stolfa, op. cit., III, p. 630 e ss., 2004.

10 Secondo un opinione, che si ispira ai principi della socialità e si muove nel quadro della concezione dirigistica dell’economia, il datore di lavoro è tenuto ad effettuare, nella gestione dell’azienda, scelte socialmente opportune e, soltanto se tale suo impegno rimanda infruttuoso, può procedere al
licenziamento dei dipendenti, la cui opera risulti di conseguenza inutilizzabile, Ma il disposto dell’art. 3 non offre alcun argomento a sostegno di una
concezione del giustificato motivo di licenziamento così restrittiva da vincolare i programmi e le iniziative dell’imprenditore garantite dalla Costituzione. R. Scognamiglio, Diritto del lavoro, Jovene editore, Napoli, p. 538.


11 Si veda, in proposito, Cass. 10 maggio 2007, n. 10672, inedita a quanto consta, che afferma “ai fini della sussistenza del giustificato motivo
oggettivo di licenziamento, ferma restando la prova dell’effettività e della non pretestuosità del riassetto organizzativo operato, le ragioni inerenti
all’attività produttiva possono sorgere, oltre che da esigenze di mercato, anche da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali che ne siano le finalità, quindi anche quelle dirette a un risparmio di costi o all’incremento dei profitti, quale che ne sia l’entità.”

12 Così anche M.T. Carinci, “Il giustificato motivo oggettivo nel rapporto di lavoro subordinato”, Padova, 2005.


13 Sul punto si riscontra un indirizzo consolidato nell’orientamento giurisprudenziale, tra cui, ex plurimis: Cass. 6 settembre 2003, n. 13058, in Mass.
giur. lav., 2004, 94; Cass. 20 agosto 2003, n. 12270, in Rep. Foro it., 2003, voce Lavoro (rapporto) [3890] n. 1576; Cass., 14 dicembre 2002, n. 17928, in Riv. crit. dir. lav., 2003, 402; Cass. 24 giugno 1994, n. 6067, in Not. giur. lav., 1995, 87.


14 In questo senso, Cass. n. 23222 del 17 novembre 2010, con nota di M.F. Ferrari, in Diritto e Giustizia, 2010; il motivo oggettivo è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa atteso che tale scelta è espressione
della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione, mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo
addotto dall’imprenditore, con la conseguenza che non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato (cfr. ex plurimis, Cass., nn. 13021/2004, 2121/2004, 21282/2006).


15 A. Perulli, Razionalità e proporzionalità nel diritto del lavoro, Dir. lav. rel. ind., 1, 2005.


16 A. Andreoni, Razionalità e proporzionalità nei licenziamenti “oggettivi”, Riv. giur. lav., 2006.


17 Si vedano in merito il d.lgs. n 23 del 2015, il d.lgs. n. 81 del 2015 e, da ultimo, l’art. 23 del d.lgs. n. 151 del 2015.

18 In tal senso, Cass. 2 ottobre 2006, n. 21282, in Giust. Civ, 2006, 10, secondo cui “nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento è
riconducibile anche l’ipotesi del riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall’imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto”.


19 Cass. 23 ottobre 2013, n. 24037, con nota di Russo M., Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo tra tradizione e innovazione, q. Rivista, I, 2014, p. 46. 

20 Si veda in tal senso Cass. 14 aprile 2008, n. 9799, consultabile su www.dejure.it

21 In merito si veda un recente articolo di P. Ichino, Se il giudice del lavoro impedisce all’impresa di prevenire la propria crisi, Il Garantista, p.1, 2015.


22 Afferma sempre sul punto P. Ichino: “in realtà, per fortuna, molti giudici del lavoro non applicano il principio enunciato da quest’ultima sentenza dalla Cassazione. Ma proprio il fatto che su di una disposizione di importanza così cruciale possano registrarsi degli sbandamenti così rilevanti della giurisprudenza spiega perché finora l’articolo 18 dello Statuto abbia avuto, almeno fino alla legge Fornero, del 2012 che ne ha attenuato il rigore, l’ effetto di rendere quasi impraticabile il licenziamento per l’aggiustamento degli organici…”, op. cit., p.2.

23 Sostiene altresì in merito P. Ichino che costringere l’azienda “ a tenersi il personale eccedentario in attesa che la situazione peggiori, fino a diventare critica, non ha soltanto l’effetto di indebolire la sua capacità di reagire agli shock economici o tecnologici, ma anche quello di ridurre la produttività media del lavoro..” op. cit., p.2.


24 In tal senso, afferma la giurisprudenza di legittimità che “il motivo oggettivo di licenziamento è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore”, sicchè “non è sindacabile nei suoi profili di congruità e opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempreché risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato”. Cfr. Cass. 29 marzo 2001, n. 4670, in Not. giurispr. lav., 2001.

25 I giudici di legittimità della sentenza n. 5173 del 16 marzo 2015, a supporto delle proprie argomentazione decisorie, richiamano le seguenti sentenze della Suprema Corte: Cass. del 26 settembre 2011, n. 19619, Cass. del 25 marzo 2011, n. 7006; Cass. del 2 ottobre 2006, n. 21282

26 Con riferimento a tale principio, la Suprema Corte, con orientamento consolidato, ha osservato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve essere determinato non da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale “ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore; soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti” il lavoratore ha quindi il diritto che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale a iniziative collegate a effettive ragioni di carattere produttivo e organizzativo, e che dimostri, inoltre, l’impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione”. In tal senso, Cass. 18 aprile 2012, n. 6026, Lav. nella giur. 2012, 721. Si vedano anche in senso conforme: Cass. 7 luglio 2004, n. 12514, consultabile su www.dejure.it; Cass. 20 agosto 2003, n. 12270; Cass. 17 maggio 2003, n. 7750; Cass. 23 ottobre 2001, n. 13021; Cass. 5 aprile 1990, n. 2824 in RGL, 1991, II 306; Sul punto, si richiama anche altra importante decisione dei giudici di legittimità per cui “l’esigenza di riduzione dei costi deve essere imposta non da un generico ed astratto timore di conseguenze sfavorevoli, ma da una concreta e seria ragione (non occasionale, perché la stabilità del rapporto come fatto tendenzialmente permanente non può essere vinta da difficoltà contingenti) relativa all’utile gestione dell’azienda - nell’ambito dell’economia di mercato - e non di per sé all’accrescimento dei profitti”. In tal senso, Cass. 18 aprile 1991, n. 4164.

27 Cass. 24 ottobre 2014, n. 22696, consultabile su www.dejure.it.

28 Si veda Cass., Ss. Uu., 11 aprile 1994, n. 3353 secondo cui “il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’articolo 3 della legge numero 604 del 1966, non può essere determinato da finalità di mero risparmio, come quelle che si raggiungerebbero mediante il licenziamento di un lavoratore più anziano e più costoso e la sua sostituzione con altro più giovane e meno costoso oppure mediante il licenziamento di un lavoratore particolarmente qualificato e la sua sostituzione con altro meno qualificato ma ugualmente idoneo presupponendo, invece, una ristrutturazione aziendale, che comporti la soppressione di determinati posti di lavoro, e la dimostrazione, da parte del datore di lavoro, ch e il lavoratore licenziato non può essere utilizzato nello stesso o in altri settori dell’attività produttiva. È, pertanto, da escludere la configurabilità della sussistenza di un giustificato motivo oggettivo, ai sensi della disposizione citata, allorché, come nella specie, risulti che il dipendente licenziato sia stato immediatamente sostituito con altro lavoratore, anche se apprendista e godente quindi un salario inferiore a quello corrisposto al dipendente prima occupato, che venga adibito allo svolgimento delle medesime prestazioni, e ciò in quanto in una tale evenienza il recesso non si inserisce in una diversa organizzazione aziendale intesa al mantenimento o di competitività della azienda, essendo invece unico obiettivo dell’imprenditore quello di conseguire un risparmio sulle retribuzioni al personale dipendente attraverso la sostanziale elusione degli obblighi contrattuali assunti nei confronti di questo…”.


29 Cass. S.U. 11 aprile 1994, n. 3353, in Notiziario Giurisprudenza del Lavoro, 1994, 374.

30 In merito si veda Cass. 3 luglio 2003, n. 10554, consultabile su www.dejure.it.