Applicazione dell'art. 18 in caso di insussistenza del fatto contestato

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Lavoro e Previdenza Oggi, n.1-2, 2016

USI AZIENDALI, DICHIARAZIONI CONFESSORIE RESE IN SEDE DISCIPLINARE E PRINCIPIO DI PROPORZIONALITÀ DELLA SANZIONE CON RIFERIMENTO AL CCNL: APPLICAZIONE DELL’ART. 18 DELLO STATUTO DEI LAVORATORI IN CASO DI INSUSSISTENZA DEL FATTO CONTESTATO 

Corte di Appello di Roma, 7 aprile 2015, Sezione lavoro e previdenza, n. 3161, pres. Cambria, rel. Michelini, Ospedale Israelitico (avv.ti Troiano e Ciranna) c. B.A. (avv.ti Chilosi e Calamita). Riforma Tribunale di Roma n. 7986 del 14 luglio 2014 Deve escludersi che le giustificazioni rese in sede disciplinare abbiano valenza confessoria quando le stesse sono rilasciate dal lavoratore in mancanza di assistenza tecnica–giuridica e senza la consapevolezza della oggettiva incidenza delle stesse in ordine alle conseguenze giuridiche.
E’ quindi illegittimo il licenziamento per giusta causa del dirigente medico motivato dalla mancata timbratura del badge durante la pausa pranzo, quando invece esiste una prassi aziendale che richiede al primario una prestazione di risultato in termini di gestione del reparto, svincolata dall’osservanza di rigidi orari.
Il licenziamento risulta peraltro illegittimo quando per l’addebito contestato al lavoratore la contrattazione collettiva preveda una sanzione di tipo conservativo e non espulsivo, ciò concretizzando una mancanza del requisito della proporzionalità del recesso, in considerazione della natura formale della contestazione, a fronte della elevata anzianità di servizio del lavoratore, della responsabilità professionale assegnatagli e dell’assenza di precedenti rilievi riguardanti sia la gestione dell’orario di lavoro sia la prestazione professionale sino a quel momento esercitata.
Il licenziamento quindi deve essere annullato trattandosi di ipotesi di fatto che rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, con diritto del lavoratore alla reintegra nel posto di lavoro e al risarcimento del danno.
Lavoro subordinato (Rapporto di) – Licenziamento disciplinare – Proporzionalità della sanzione – giustificazioni rese in sede disciplinare – natura confessoria – esclusione – qualificazione giuridica fatto contestato e rilievo prassi aziendale – applicazione articolo 18 Legge n. 300 / 1970 ai dirigenti medici per estensione contenuta nel CCNL ARIS ANMRIS – illegittimità del licenziamento – sanzione reintegratoria poiché il fatto contestato rientra tra fattispecie contrattuale relativa a sanzione conservativa
La sentenza della Corte di appello in annotazione tratta il caso del licenziamento per giusta causa intimato a un dirigente medico da parte di una struttura ospedaliera (avente natura privatistica) giustificato dalla omessa timbratura del badge di rilevazione delle presenze in uscita ed in entrata durante la pausa pranzo.
Preliminarmente, occorre evidenziare che il dirigente, a fronte della contestazione disciplinare, aveva reso personalmente le proprie giustificazioni in modo atecnico e senza l’assistenza di nessun rappresentante sindacale, non avendo quindi quella piena consapevolezza del quadro complessivo del cosiddetto “fatto materiale” contestato e delle conseguenze giuridiche delle proprie ammissioni. In tale contesto, il lavoratore aveva sì ammesso le condotte addebitategli giustificandole, tuttavia, in ragione del suo ruolo di primario e di una normale prassi aziendale concernente una certa flessibilità nel rispetto degli orari di servizio. Sul punto il medico osservava infatti che le prestazioni rese giornalmente, in termini di effettivo orario di lavoro prestato e di responsabilità professionali qualificate e significative, compensavano ampiamente la presunta mancata timbratura del badge durante la pausa pranzo, circostanza questa avvenuta peraltro solo in alcune occasioni (in tutto meno di dieci giornate su un servizio ultratrentennale). Sempre secondo la ricostruzione del lavoratore, tale condotta era ben conosciuta dal datore di lavoro che la “tollerava” proprio in virtù del ruolo dirigenziale ricoperto dal medesimo in qualità di primario. Il ricorrente poi, sempre nel procedimento disciplinare, chiedeva all’Ospedale di tenere conto, ai fini della valutazione dell’addebito contestato, sia di tale uso aziendale sia della propria diligenza manifestata nella trentennale attività di servizio, ciò anche in considerazione dell’assenza, fino a quel momento, di altri provvedimenti disciplinari. Nonostante ciò, l’Ospedale, nel ritenere leso il rapporto fiduciario, intimava il licenziamento per giusta causa.
I giudici della fase sommaria e di opposizione, con due provvedimenti sostanzialmente analoghi, ritenevano legittimo il licenziamento sostenendo, da una parte, che le dichiarazioni rese dal lavoratore nella lettera di giustificazioni degli addebiti avessero una determinante valenza confessoria ex art. 2730 c.c., dall’altra, che la flessibilità d’orario riconosciuta ai dirigenti medici a tempo pieno non escludeva l’obbligo di timbratura in entrata ed in uscita nelle pause pranzo, finalizzato proprio al controllo dell’esatta osservanza dell’orario di lavoro. Sulla base di tale assunto i giudici delle precedenti fasi ritenevano che il comportamento tenuto dal dirigente era da considerarsi tanto grave da ledere il rapporto fiduciario con il datore.
La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale, in prima battuta, ha escluso che le dichiarazioni rese dal medico in sede disciplinare costituissero confessione con valenza negoziale di accettazione del licenziamento, in quanto dovevano esser lette nello specifico contesto emerso dall’istruttoria di “una sostanziale tolleranza del datore di lavoro ad una prassi in forza della quale ai responsabili dei reparti veniva richiesta essenzialmente una prestazione di risultato in termini di gestione del reparto stesso, in larga parte svincolata dal rispetto di rigidi orari”.
La Corte capitolina ha poi ritenuto non proporzionata la sanzione del licenziamento, in ragione del fatto che – anche con riferimento ad un ordine di servizio del 1996 che precisava il dovere di rispettare gli orari contrattuali – assumeva specifico rilievo, ai fini disciplinari, la circostanza per cui in passato al lavoratore non era stato mosso alcun addebito rispetto sia all’osservanza degli stessi sia sulle sue competenze mediche o alla responsabilità del reparto, “così ingenerando nel medesimo e nel personale la convinzione che l’interesse sostanziale di parte datoriale fosse da collegarsi principalmente alla corretta gestione del reparto, al di fuori degli esatti orari risultanti dalle timbrature magnetiche, tanto che né al medesimo né ad altri primari erano mai stati pagati o autorizzati straordinari”.
La Corte di Appello ha inoltre osservato che la condotta tenuta dal medico, in ogni caso, non era da considerarsi così grave da prevedere il licenziamento in quanto mancava, a livello di contrattazione collettiva di settore, una previsione contrattuale che disciplinasse la sanzione espulsiva per l’addebito oggetto di causa. Il fatto contestato rientrava invece tra le condotte punibili con la sola sanzione conservativa del rimprovero e della multa, ciò determinando la mancanza del requisito della proporzionalità del recesso. In concreto, secondo i giudici di appello, il licenziamento non è proporzionato, in considerazione della natura formale della contestazione, a fronte della elevata anzianità di servizio del lavoratore, della responsabilità professionale assegnatagli e, soprattutto, dell’assenza di precedenti rilievi riguardanti sia la gestione dell’orario di lavoro sia la prestazione professionale sino a quel momento esercitata.
I giudici di merito hanno poi applicato la tutela reale in quanto la stessa non solo è espressamente stabilita dal contratto collettivo di settore, ma anche perché il dirigente medico, in qualità di primario, non può considerarsi c.d. dirigente apicale.
La Corte ha quindi applicato l’art. 18, comma 4, st. lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, L. 92/2012, trattandosi di ipotesi di fatto che rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, condannando il datore di lavoro alla reintegra del lavoratore ed al pagamento di un’indennità commisurata a 12 mensilità.
La Corte di appello, riassumendo, ha fondato il proprio ragionamento decisorio sia sull’esistenza della prassi aziendale che non imponeva la timbratura del badge in entrata e in uscita durante la pausa pranzo, sia sulla circostanza che per le condotte contestate al lavoratore la contrattazione collettiva prevedeva una sanzione di tipo conservativo e non espulsivo, ciò concretizzando anche una mancanza di proporzionalità del recesso rispetto al fatto contestato. In base a tale ragionamento interpretativo è stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento stante l’insussistenza della giusta causa, con la conseguente sanzione della reintegra e dell’obbligo di risarcimento del danno previsto per legge.