Questioni in tema di qualificazione del rapporto di lavoro e onere della prova in caso di asserite dimissioni

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Rivista Giuridica del Lavoro n.4/2012

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TRIBUNALE DI ROMA, 12 ottobre 2011 – Est. Armone – P.P.S. (avv. Aiello) c. Compagnia di navigazione Ponte S. Angelo in liquidazione (avv. Napoletano).

Contratto di lavoro occasionale – Natura subordinata della prestazione - Contratto a termine di lavoro marittimo – Utilizzo abusivo del contratto a termine – Nullità del termine – Trasformazione in contratto a tempo indeterminato – Nullità del licenziamento orale – Dimissioni – Ripartizione onere della prova .

 Nel caso di successione consecutiva di un rapporto di lavoro di tipo occasionale e di un rapporto di lavoro subordinato a termine di lavoro marittimo, l’accertamento della subordinazione sin dal primo rapporto, formalmente qualificato come autonomo, travolge il successivo contratto a tempo determinato e la relativa apposizione del termine, con la conseguenza che il rapporto di lavoro deve considerarsi unico ed a tempo indeterminato sin dall’origine. Ove si controverta sulle modalità di risoluzione del rapporto con affermazioni contrapposte (licenziamento orale o dimissioni), sul lavoratore grava esclusivamente la prova della cessazione del rapporto lavorativo, mentre la controdeduzione del datore di lavoro riguardante le dimissioni ha valore di eccezione ed il relativo onere della prova incombe sullo stesso eccipiente.

(1 – 5) Questioni interpretative sulla qualificazione di un rapporto di lavoro disciplinato dapprima con lavoro occasionale e successivamente con rapporto a termine di lavoro marittimo: onere della prova in caso di contrapposte modalità di risoluzione del rapporto.    

 

SOMMARIO: 1. – Il caso di specie. La successione consecutiva di due diverse tipologie contrattuali di tipo autonomo occasionale e subordinata a tempo determinato – 2. – L’individuazione del momento costitutivo del rapporto di lavoro subordinato: presunzioni e onere della prova – 3. Il contratto a termine di lavoro marittimo. Cenni.- 4.- Gli elementi sussidiari della subordinazione nel caso in cui non risulti evidente l’eterodirezione. – 5. - Licenziamento verbale e dimissioni: ripartizione dell’onere della prova.

 

- Il caso di specie. La successione consecutiva di due diverse tipologie contrattuali di tipo autonomo occasionale e subordinata a tempo determinato. - La sentenza del Tribunale di Roma che si annota offre lo spunto per svolgere alcune riflessioni su una vicenda lavorativa particolarmente complessa sia nel suo momento genetico che in quello conclusivo. La fattispecie in commento, peraltro, risulta interessante in quanto incentrata su un caso singolare che riguarda la qualificazione di un rapporto di lavoro subordinato con una Compagnia di Navigazione che opera a Roma sul fiume Tevere. Queste, in breve, le diverse tematiche dedotte in tale giudizio: la prima, relativa al riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato per un periodo di lavoro formalmente disciplinato da alcuni contratti di lavoro occasionale (per un arco temporale consecutivo di circa cinque mesi) ma con le modalità e le caratteristiche della subordinazione; la seconda, riguardante la conversione a tempo indeterminato di un contratto di lavoro marittimo a termine avente la durata di un anno e nove mesi, denominato “contratto di arruolamento” (posto in essere senza soluzione di continuità rispetto al precedente rapporto “occasionale”), ove il lavoratore è stato assunto con mansioni di mozzo continuando però, in concreto, a svolgere i medesimi compiti espletati in precedenza durante il periodo non regolarizzato. L’ultima tematica concerne poi il momento conclusivo del rapporto interrotto prima deldel termine naturale (circa tre mesi prima dalla scadenza indicata nel contratto). Su ques’ultimo punto, le parti hanno prospettato una diversa ricostruzione dei fatti: il lavoratore, ha dedotto di essere stato posto, in un primo momento, in ferie forzate in quanto il datore aveva la necessità di sospendere l’attività di navigazione a causa di una piena del Tevere e, successivamente, di essere stato allontanato verbalmente in maniera definitiva, in quanto il responsabile della società gli aveva comunicato, oralmente, che le condizioni del fiume non consentivano la navigazione. In merito la società ha invece eccepito che il rapporto si sarebbe risolto a causa delle dimissioni del lavoratore, avvenute per fatti concludenti, poiché quest’ultimo, senza alcuna giustificazione, non si sarebbe più presentato al lavoro. Per completezza di trattazione, occorre evidenziare che, nonostante la naturale scadenza del contratto a termine fosse prevista per il 21 aprile 2009 ed il rapporto sia cessato concretamente i primi giorni di gennaio dello stesso anno in tale lasso di tempo (di oltre tre mesi), nessuna contestazione o sanzione disciplinare è stata irrogata al lavoratore per l’assenza dal lavoro, né la società ha intimato al medesimo un licenziamento per giusta causa o giustificato motivo oggettivo, né ha dedotto alcuna impossibilità sopravvenuta della prestazione.                

 

– L’individuazione del momento costitutivo del rapporto di lavoro subordinato: presunzioni e onere della prova – Innanzitutto, con riferimento al momento genetico del rapporto di lavoro, il lavoratore, come sopra anticipato, ha lamentato l’illegittimità sia della prestazione di tipo occasionale ex art. 61, comma 2, D.Lgs. 276 del 2003 sia dell’apposizione del termine al contratto di lavoro di arruolamento, chiedendo il riconoscimento della subordinazione sin dal primo contratto. Con particolare riferimento alla questione oggetto di commento, appare utile analizzare l’impostazione datoriale, in ordine alla diversa individuazione delle tipologie di prestazione rese prima e dopo la formalizzazione contrattuale. Ciò anche al fine di comprendere quale sia la ripartizione dell’onere della prova in materia di subordinazione nei casi in cui il rapporto tra le parti sia stato regolato da un contratto che disciplina una prestazione avente natura autonoma. In particolare, la società ha sostenuto che il lavoratore, prima della stipula del contratto di lavoro a termine, aveva reso la propria prestazione d’opera autonoma, in via occasionale e senza vincolo di subordinazione.

In ordine alla qualificazione del primo rapporto lavorativo, si evidenzia che, in base all’istruttoria svolta, il rapporto cosiddetto “occasionale” aveva avuto in realtà una durata continuativa di quasi cinque mesi. Il giudice, alla luce delle risultanze istruttorie e documentali, ha affermato che la società si “era portata fuori dalla fattispecie del lavoro occasionale, che può avere una durata complessiva massima di trenta giorni nel corso dell’anno solare”. Il principio è importante poiché, quantomeno indirettamente, impone al datore di lavoro l’onere di dimostrare la genuinità del rapporto autonomo (occasionale), creando quasi una presunzione de iure nel caso in cui, come è avvenuto nella presente vicenda, il rapporto si protragga in maniera continuativa e senza interruzione oltre il termine legale di trenta giorni. Tale argomentazione potrebbe trovare, in via analogica, una valido collegamento funzionale di tipo normativo nella fattispecie della presunzione assoluta ex art. 69, comma 1, D.Lgs. 276 del 2003, ove il legislatore ha stabilito che le collaborazioni a progetto, prive dello specifico progetto o programma di lavoro, sono considerate rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto. Il legislatore prevede in tal caso una presunzione tout court che presuppone la subordinazione poiché manca un requisito essenziale del contratto (il progetto e/o il programma di lavoro) che qualifica appunto il rapporto come autonomo; e ciò a prescindere dalla prova da parte del lavoratore della subordinazione. In sostanza nel nostro ordinamento, soprattutto a seguito della Riforma Biagi (la cui ratio è proprio quella di prevenire ed eliminare forme elusive del rapporto di lavoro subordinato) una prestazione di lavoro può avere natura subordinata o autonoma. Se, tuttavia, la prestazione formalmente di tipo autonomo (come ad esempio quella occasionale o a progetto ex art. 61, 1 e 2 comma, D.Lgs. 276/03) non rispetta i requisiti legali previsti dalla disciplina che la regolamenta, si realizza una presunzione, quantomeno relativa, che qualifica quel rapporto come subordinato. Se la fattispecie contrattuale non rispetta i requisiti del rapporto di lavoro autonomo, come espressamente stabiliti dal legislatore, l’unica conseguenza possibile è quella di qualificare il rapporto come subordinato: tertium non datur.               

Il giudice, conseguentemente, una volta accertata la natura subordinata del rapporto di lavoro sin dalla prestazione di tipo occasionale, ha affermato il principio secondo cui l’apposizione sul contratto di lavoro di una data successiva all’instaurazione effettiva del rapporto - e cioè la formalizzazione contrattuale in corso d’opera - determina il riconoscimento della subordinazione a tempo indeterminato sin dall’inizio della prestazione, a nulla rilevando il termine anche “fittiziamente” apposto ex post sul contratto.

Nel caso in esame, la prestazione lavorativa era stata resa già in un momento precedente alla formalizzazione del rapporto (a termine) e quindi non è stato rispettato il requisito della forma né antecedentemente né contestualmente la contrattualizzazione a tempo determinato (il lavoratore marittimo aveva infatti prestato la propria opera per oltre 4 mesi, prima della stipula del contratto di arruolamento). Il contratto di lavoro a tempo determinato è stato redatto per iscritto tra le parti solo successivamente al reale inizio dell’attività lavorativa, determinando ciò la trasformazione del rapporto lavorativo a termine in rapporto a tempo indeterminato.

Ai sensi dell’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 368/2001 l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni (DE CHE???). La forma scritta - che riguarda non l’intero contratto ma solo la clausola che appone il termine - è richiesta ad substantiam e la sua mancanza fa sì che il contratto si reputi a tempo indeterminato.[1]

La ratio sottesa alla forma scritta del contratto di lavoro va individuata nello sfavore che il legislatore ha sempre mostrato verso il contratto di lavoro a termine, non di rado utilizzato per eludere le disposizioni di legge poste a garanzia del lavoratore, e nell’esigenza che attraverso l’imposizione di detta forma le parti contrattuali prendano piena coscienza dei reciproci obblighi e diritti.[2] In questo assetto normativo, volto a conferire certezza al contenuto del contratto, trova la sua logica collocazione la disposizione in base alla quale una copia dell’atto deve essere consegnata dal datore di lavoro al lavoratore (ex art 1, comma 3, D.Lgs. n. 368/2001).

Per ciò che attiene, nello specifico, al rapporto di lavoro a tempo determinato, sussiste invero un orientamento univoco dei giudici di legittimità che è volto ad affermare il principio per cui l’apposizione del termine al contratto di lavoro, oltre che risultare da atto scritto, deve essere coeva o anteriore all’inizio del rapporto lavorativo.[3]

 

Il contratto a termine di lavoro marittimo. Cenni - Il contratto individuale di lavoro marittimo, denominato “contratto di arruolamento”, è una fattispecie speciale di lavoro subordinato regolata sia dalla comune legislazione del lavoro sia dalla normativa speciale per il personale navigante. L’elemento che distingue il rapporto di lavoro marittimo da un rapporto ordinario di lavoro subordinato, e che giustifica pertanto l’applicazione di una particolare disciplina è la circostanza che nel contratto di arruolamento, al normale scambio tra prestazione di lavoro e retribuzione, si aggiunge l’esigenza di garantire la sicurezza della navigazione. Al riguardo, si osserva che l’art. 325 titolo IV del Codice della Navigazione stabilisce che il contratto di arruolamento può essere stipulato: a) per un dato viaggio o per più viaggi; b) a tempo determinato; c) a tempo indeterminato. L’ipotesi di assunzione con contratto occasionale non è quindi contemplata da tale disposizione. Quanto al contratto a tempo determinato, l’art. 326 titolo IV del Codice della Navigazione, stabilisce che il contratto a tempo determinato non può essere stipulato per una durata superiore ad un anno, con la conseguenza che se il rapporto prevede una durata superiore a tale termine, esso si considerano a tempo indeterminato.[4]

Tale norma deve essere interpretata anche alla luce del Contratto Collettivo dei Marittimi che stabilisce come regola del lavoro marittimo l’assunzione a tempo indeterminato, salvo che il rapporto sia diversamente regolato nel contratto di imbarco.[5]

In merito poi alla durata del cosiddetto contratto di arruolamento deve evidenziarsi che l’accordo di rinnovo 5/6/2007 del CCNL Marittimi ha ridotto la durata massima del contratto a termine per un periodo massimo di 4 mesi. La norma collettiva individua, quindi, un periodo addirittura inferiore rispetto a quello previsto dall’art. 326 del Codice della Navigazione, con la conseguenza che il superamento di tale periodo comporta la trasformazione del contratto a tempo indeterminato.[6]

Nel caso di specie il contratto a termine di lavoro marittimo risultava aver superato detto periodo in quanto posto in essere per un periodo di quasi due anni. In base alle summenzionate disposizioni l’apposizione del termine risultava illegittima con il diritto del lavoratore alla trasformazione del rapporto a tempo indeterminato. Tuttavia, visto che il rapporto, come sopra evidenziato, è stato ritenuto di tipo subordinato sin dal periodo relativo alla prestazione occasionale, tale profilo è stato ritenuto assorbito.

4 -Gli elementi sussidiari della subordinazione nel caso in cui non risulti evidente l’eterodirezione - Altra questione di rilievo nel presente commento attiene la determinazione degli elementi che individuano la qualificazione della prestazione lavorativa, autonoma o subordinata, e quelli che differenziano una fattispecie dall’altra. In merito, si evidenzia che la Suprema Corte, nel ribadire che ogni attività umana, rilevante da un punto di vista economico, può essere tanto oggetto di un rapporto di lavoro di natura autonoma quanto subordinata, afferma che l’elemento distintivo tra una fattispecie e l’altra deve rinvenirsi nella “disponibilità del prestatore nei confronti del datore, con assoggettamento del prestatore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, ed al conseguente inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale con prestazione delle sole energie lavorative corrispondenti all’attività d’impresa”.[7]

In merito si evidenzia che la dottrina e la giurisprudenza, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro subordinato, individuano i seguenti criteri sussidiari per superare la concezione “classica” della eterodirezione, quali, a titolo esemplificativo: il compenso fisso mensile, l’orario di lavoro fisso e determinato, l’obbligo di giustificazione delle assenze e delle ferie, la mancanza di autonomia e di rischio nell’espletamento della prestazione.

Nel caso di specie, invero, la questione interessante verte, sulla possibilità di ricorrere a tali elementi sussidiari al fine di distinguere e qualificare un rapporto di lavoro autonomo da uno subordinato, qualora manchi la prova evidente della sussistenza della eterodirezione.[8]

Nel corso del processo l’istruttoria ha dimostrato che il rapporto di lavoro è stato caratterizzato da mansioni semplici e ripetitive, seppur poste in essere in assenza di responsabili durante l’esecuzione della prestazione. A tal proposito, il giudice ha osservato che per il riconoscimento della subordinazione non rileva la circostanza per cui durante il proprio orario di lavoro al lavoratore non fossero impartite esplicitamente direttive od ordini, essendo gli stessi stati attribuiti all’inizio del rapporto, una volta per tutte e ciò in considerazione della ripetività e semplicità di esecuzione delle mansioni espletate dallo stesso.

Pertanto, il solo criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore di lavoro all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro può non risultare utile a qualificare il rapporto come autonomo o subordinato, nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione. Occorre allora far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza o meno di una pur minima organizzazione imprenditoriale e la sussistenza o meno di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore.[9]

A nulla è valso, quindi – nel caso del lavoratore della Compagnia di navigazione – il mutamento artificioso della qualificazione giuridica del rapporto in quanto è stata provata la perduranza della presenza di elementi caratterizzanti la subordinazione sin dall’inizio del rapporto occasionale. Prima e dopo il contratto di lavoro a termine le mansioni del lavoratore non erano cambiate e il rapporto doveva intendersi “ab initio” come unico rapporto lavorativo subordinato e a tempo indeterminato.

 

5 – Licenziamento verbale e dimissioni: ripartizione dell’onere della prova – Nella vicenda de qua la questione della cessazione del rapporto di lavoro pone dubbi interpretativi sia con riferimento alla causa del recesso sia con riferimento alla forma adottata per interrompere il rapporto. Quanto al motivo del presunto recesso da parte datoriale, il giudice prende posizione su quanto emerso dall’istruttoria che aveva confermato la circostanza per cui la barca era stata portata in cantiere a causa della piena del Tevere che appunto impediva la navigazione. Sul punto il Tribunale di Roma ha affermato il principio per cui in caso di “soppressione della postazione lavorativa, il datore di lavoro ha davanti a sé un’alternativa: o procede al licenziamento del lavoratore per giustificato motivo oggettivo nelle forme prescritte dalla legge o lo riassegna ad altra postazione lavorativa, dandogli indicazioni sulla data e sul luogo di esecuzione della nuova prestazione. Qualora non faccia nessuna delle due cose, deve ritenersi che il rapporto prosegua e che l’eventuale licenziamento sia stato disposto in forma orale e sia dunque nullo”.[10]

Alla luce di quanto sopra affermato, parte resistente avrebbe, forse, potuto invocare la sussistenza di una causa di impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa,[11] sebbene potrebbe risultare superflua la precisazione che il semplice rimessaggio temporaneo di un battello in una compagnia di navigazione non possa considerarsi quale causa impediente nella prosecuzione di un rapporto lavorativo in essere.

La dottrina si è sforzata di ricondurre l’impossibilità della prestazione lavorativa tra i casi civilisticamente individuati dall’art. 1218 c.c. – impossibilità della prestazione – in tema di responsabilità contrattuale, nonché dall’art. 1464 c.c. in relazione all’impossibilità sopravvenuta della prestazione: la sussistenza di tali motivi può determinare il recesso della controparte che non abbia più interesse alla prosecuzione del rapporto.[12]

Gli sforzi che dottrina e giurisprudenza hanno compiuto nella ricerca del parametro di misura della impossibilità sopravvenuta nel rapporto di lavoro hanno consentito di aderire alla tesi dell’impossibilità sopravvenuta affrancata dal vincolo dell’assolutezza e questo nel tentativo di ricondurre fattispecie concrete nell’alea dell’impossibilità sopravvenuta anche quando, a causa di circostanze sopravvenute, il raggiungimento del risultato richiederebbe l’utilizzo di mezzi sproporzionati rispetto all’adempimento dell’obbligazione tanto da far considerare come inesigibile la controprestazione lavorativa. In altre parole, per ritenere non più esigibile una prestazione lavorativa, il rapporto sinallagmatico tra la prestazione del lavoratore e quella datoriale deve risultare compromesso da elementi di eccessiva onerosità di una parte verso l’altra.

Nel caso in esame, innanzitutto, viene in rilievo che l’eventuale impossibilità della prestazione – oltretutto non dedotta in causa da parte della Compagnia di navigazione – non dipende da eventi attinenti la persona del lavoratore ma dalla circostanza della necessità di manutenzione della motonave, su cui il lavoratore svolgeva le proprie mansioni, a seguito della piena del fiume Tevere; il datore di lavoro, invero, avrebbe potuto utilizzare la prestazione lavorativa dello stesso in altro modo, in costanza di un rapporto di lavoro valido ed efficace. E ciò non è stato fatto.

Deve, pertanto, ritenersi nullo il licenziamento nel caso in cui il datore di lavoro non abbia osservato le prescrizioni di forma stabilite in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo – ove ne ricorrano i presupposti – o non abbia assegnato il lavoratore ad altra posizione lavorativa (c.d. onere di repêchage). Il repêchage rappresenta lo strumento ulteriore di verifica della correttezza delle scelte imprenditoriali; pone a carico del datore di lavoro che irroga il licenziamento per giustificato motivo oggettivo l’obbligo di cercare di collocare il lavoratore, altrimenti licenziato, in una diversa e proficua posizione all’interno dell’azienda. In altre parole, il licenziamento deve risultare come extrema ratio rispetto alle circostanze economico-organizzative verificatesi.

In tal senso, il datore di lavoro, prima di adottare il provvedimento espulsivo deve dar prova del fatto che il lavoratore licenziando non è altrimenti utilizzabile nel contesto aziendale in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell’attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito.

Nel caso in esame non è stata fornita alcuna prova da parte del datore di lavoro di aver cercato di utilizzare in altro modo la prestazione lavorativa a causa della dedotta sospensione della attività dopo la piena del Tevere adducendo invece la società che il rapporto si fosse risolto per dimissioni del lavoratore, avvenute per facta concludentia, in quanto lo stesso non era presentato più al lavoro.

Appare fuori di dubbio che ricade esclusivamente sul datore di lavoro l’onere di provare le avvenute dimissioni del lavoratore. Nella circostanza in esame, la Compagnia di navigazione si è limitata ad affermare che il lavoratore – a seguito della messa in cantiere della nave – non ha più offerto la propria prestazione senza però addurre prove idonee a confermare le asserite dimissioni orali. Sulla questione il giudice di merito ha richiamato un consolidato orientamento della Cassazione, la quale si è ripetutamente espressa in ordine all’attribuzione dell’onere della prova qualora non sia facilmente desumibile dalle situazioni di fatto la concreta modalità della risoluzione del rapporto (licenziamento orale o dimissioni). I giudici di legittimità hanno affermato che, in mancanza di una prova certa delle dimissioni del lavoratore, l’onere della prova concernente il requisito della forma scritta del licenziamento resta a carico del datore di lavoro.[13]

Invero il giudice di merito ha rilevato che la società resistente si è limitata ad affermare di non aver più visto il lavoratore dopo la messa in cantiere della nave ma non ha fornito alcuna prova sulla mancata offerta lavorativa da parte del ricorrente; non ha dimostrato, quindi, né le sue dimissioni né altra causa estintiva del rapporto.

Sul punto la Suprema Corte ha più volte affermato che “nell’ipotesi di controversia in ordine al “quomodo” della risoluzione del rapporto (licenziamento orale o dimissioni) si impone una indagine accurata da parte del giudice di merito, che tenga adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie, in relazione anche all’esigenza di rispettare non solo l’art. 2697 cod. civ., comma 1 relativo alla prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere dall’attore, ma anche il comma 2, che pone a carico dell’eccipiente la prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere dalla controparte. Sicché, in mancanza di prova delle dimissioni, l’onere della prova concernente il requisito della forma scritta del licenziamento (prescritta "ex lege" a pena di nullità) resta a carico del datore di lavoro, in quanto nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo, mentre la prova della controdeduzione del datore di lavoro - avente valore di una eccezione - ricade sull’eccipiente - datore di lavoro ex art. 2697 cod. civ.”. [14]

Non appare condivisibile l’impostazione che pone in capo al lavoratore, in costanza di rapporto, l’onere di offrire la propria prestazione lavorativa; è il datore di lavoro che, nell’organizzazione del lavoro, deve impiegare la risorsa all’interno del processo produttivo.

L’inefficacia del licenziamento verificata dal Tribunale – nel caso di specie – ha comportato la condanna alla riammissione al servizio del ricorrente e al pagamento delle retribuzioni sino alla riammissione.

                                  

[1] Cfr. in tal senso: Cass. 12 novembre 1993 n. 1173; Cass. 8 luglio 1995 n. 7507; Cass. 27 febbraio 1998 n. 2211.

[2] In tal senso si veda Cass. 11 dicembre 2002 n. 17674, in Giust. Civ. Mass. 2002, 2177.

[3] Cfr. ex plurimis: Cass. 27 febbraio 1998 n. 2211; Cass. 12 novembre 1992 n. 12166; Cass. 17 novembre 1987 n. 8421; Cass. 28 gennaio 1987 n. 832; Cass. Sez. Unite, 5 ottobre 1984 n. 4979. Si veda sul punto anche Cass. 11 dicembre 2002 n. 17674, cit.,  secondo cui non risultano idonei a surrogare la forma scritta una lettera di assunzione dal datore di lavoro che non contenga anche la sottoscrizione del lavoratore apposta anteriormente o contemporaneamente all’inizio del rapporto.

 

[4] Si riporta per comodità di lettura il testo integrale dell’art. 326 titolo IV del Codice della Navigazione: “Il contratto a tempo determinato e quello per più viaggi non possono essere stipulati per una durata superiore ad un anno; se sono stipulati per una durata superiore, si considerano a tempo indeterminato.” . Se, in forza di più contratti a viaggio, o di più contratti a tempo determinato, ovvero di più contratti dell' uno e dell'altro tipo, l'arruolato presta ininterrottamente servizio alle dipendenze dello stesso armatore per un tempo superiore ad un anno, il rapporto di arruolamento è regolato dalle norme concernenti il contratto a tempo indeterminato. Agli effetti del comma precedente, la prestazione del servizio è considerata ininterrotta quando fra la cessazione di un contratto e la stipulazione del contratto successivo intercorre un periodo non superiore ai sessanta giorni.”

[5] In merito si veda l’art. 2 CCNL Marittimi del 31.12.98 secondo cui “il personale il cui rapporto di lavoro è regolato dal presente contratto si intende normalmente assunto a tempo indeterminato salvo diversa indicazione nel contratto di imbarco”.

[6] L’accordo di rinnovo 5/6/2007 del CCNL Marittimi in merito alla durata del contratto a termine nel lavoro marittimo stabilisce che “ferma restando la disciplina di cui all'art. 326 del codice della navigazione 1°, 2° e 3° comma, il singolo contratto di arruolamento a tempo determinato può avere una durata non superiore a 4 (quattro) mesi. In relazione alla minor durata sopra specificata, si conviene che, in caso di intervallo tra successivi contratti di arruolamento a tempo determinato inferiore a sessanta giorni, il contratto di arruolamento si considera a tempo indeterminato solo nel caso in cui complessivamente, in virtù della sua durata e delle singole interruzioni inferiori a 60 (sessanta) giorni, si raggiunga l'arco temporale superiore ad un anno.”

 

[7] Tra le numerose decisioni, si vedano: Cass. 3 aprile 2000, n. 4036; Cass. 9 gennaio 2001, n. 224; Cass. 29 novembre 2002, n. 16697; Cass. 1 marzo 2001, n. 2970.

[8] Cfr. Cass 08 maggio 2009, n. 10629, in Dir. Relaz. Ind. 2010, 1, 176, con nota di M. Di Francesco, Mansioni elementari e subordinazione, in ordine al principio giurisprudenziale secondo cui si ha un’attenuazione del potere direttivo e disciplinare per le mansioni estremamente ripetitive ed elementari che, per loro natura, non richiedono un esercizio stringente di tali poteri. Si veda in tal senso anche:  Cass., 1 agosto 2008, n. 21031, Cass., 7 agosto 2008, n. 21380 e Cass., 21 gennaio 2009, n. 1536, con nota con nota di M. Salvagni, Il lavoro umano nell’impresa: la subordinazione di tipo economico funzionale nell’esegesi giurisprudenziale , in q. Rivista, 2009, II, p.323 e segg.; si segnala altresì Cass. 5 maggio 2004 n. 8569, con nota di R. Muggia, Le Frontiere mobili della subordinazione, in D&L, 2004, II, pagg. 333 e segg..

[9] Si vedano: Cass. 5 maggio 2004, n. 8569; Cass. 21 gennaio 2009, n. 1536.

[10] In tal senso, si veda anche Cass. 06 ottobre 2009, n. 21311, citata dal Tribunale di Roma nella propria motivazione.

[11] G. Osti, Revisione critica della teoria dell’impossibilità della prestazione, RDC, 1918, pag. 241 per cui si definisce “obiettiva” quell’impossibilità costituita da un impedimento che si opponga all’eseguimento della prestazione in sé e per sé e considerata, astrazion fatta da ogni impedimento estrinseco alla medesima e […] dalle condizioni particolari del soggetto obbligato e “subiettiva” quella che dipenda da condizioni particolari del debitore, da un impedimento insorto nella sua persona o ella sfera della sua economia individuale, senza essere necessariamente collegato al contenuto della prestazione. Quanto alla distinzione tra impossibilità “assoluta” e “relativa”, per la prima rileva l’intensità dell’impedimento che non può in nessun modo essere vinto dalle forze umane, a questo equiparando quello che non sia suscettibile di essere vinto se non on un’attività illecita, o se no col sacrificio dell’integrità personale o di un altro attributo della personalità dell’agente. L’impossibilità relativa, invece, è costituita da un impedimento che non può essere vinto se non con una intensità di sforzo, di sacrificio, di diligenza, superiore a un certo grado considerato come tipico, come medio, o come appropriato alla particolare obbligazione di cui si tratta.

[12] Appare opportuno precisare che l’utilizzo interpretativo di norme e principi civilistici in tema di responsabilità contrattuale in ambito giuslavoristico deve fungere da argine entro cui muoversi per interpretare il concetto di impossibilità, considerando che l’impossibilità estintiva del contratto è la stessa che estingue l’obbligazione ed esclude la responsabilità del debitore

[13] Si vedano, a riguardo, Cass. 20 maggio 2005 n. 10651, in Riv. It. dir. lav., 2006, II, 454, con nota di Girardi, L’onere della prova sul fatto che sia stato il datore di lavoro a recedere unilateralmente dal rapporto; nonché si veda anche Cass. 18 marzo 2005 n. 5918 e Cass. 13 aprile 2005 n. 7614.

[14] Cfr. nello specifico Cass. 27 agosto 2007 n. 18087.