Prassi aziendale, dichiarazioni confessorie rese in sede disciplinare e principio di proporzionalità della sanzione con riferimento al ccnl: applicazione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori in caso di insussistenza del fatto contestato

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Lavoro e Previdenza Oggi 1-2/2016

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Corte d'Appello di Roma, Sez. Lav., sentenza 7 aprile 2015, n. 3161 - Pres. Cambria - Rel. Michelini - B. A. (Avv. R. Chilosi e T. Calamita) c. O. I. (Avv. R. Troiano e A. Ciranna)*

Ragioni in fatto e diritto della decisione

Con ricorso ex art. 1, comma 48, L. n. 92/2012 depositato in data 5/3/2013 al Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro, A. B., medico dipendente dell'O. I. dal 1982 e dal 2001 primario responsabile del reparto cardiologia quale dirigente medico di II livello, conveniva in giudizio l'O. I. chiedendo accertarsi la nullità o l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli il 8/8/2012 a seguito di contestazione disciplinare del 23/7/2012 relativa a fatti, accertati mediante incarico conferito ad agenzia investigativa, di omessa timbratura del badge di rilevazione delle presenze in uscita ed in entrata durante la pausa pranzo in una serie di giorni lavorativi tra giugno e luglio 2012, qualificati da parte datoriale come abbandono del posto di lavoro e mancato rispetto dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale prescritto dal CCNL (38 ore), con conseguente ingiusto profitto consistito nella percezione dell’intera retribuzione nonostante la mancata prestazione dell'attività lavorativa.

In contradittorio con l’ospedale convenuto, con ordinanza 21.5 - 10.6.2013 il Tribunale respingeva il ricorso e condannava il ricorrente alla rifusione delle spese processuali, rilevando in particolare che la flessibilità d'orario riconosciuta ai dirigenti medici a tempo pieno non esclude l’obbligo di timbratura in entrata ed in uscita finalizzato al controllo dell'esatta osservanza dell'orario di lavoro e che la gravità del comportamento accertato rientrava tra le ipotesi tali da ledere definitivamente il vincolo fiduciario previste dal codice disciplinare.

Avverso tale provvedimento proponeva ricorso in opposizione ai sensi dell’art. 1, comma 51, L. n. 92/2012 il dott. B..

In contraddittorio con 1’ O. I., il Tribunale, con la sentenza impugnata in questa sede, respingeva l'opposizione, con condanna alle spese secondo soccombenza, osservando in particolare che nelle giustificazioni rese nel procedimento disciplinare il medico aveva reso piena confessione dell’inosservanza dei doveri previsti dal ruolo e dalle norme che disciplinano il contratto di lavoro, e ritenendo non applicabile la tutela di cui all’art. 18 St. Lav. trattandosi di dirigente.

Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per reclamo ex art. 1, comma 58, L. n. 92/2012 l’originario ricorrente, concludendo come riportato in epigrafe.

Radicatosi il contraddittorio con la costituzione in giudizio dell’ospedale, che ha concluso come sopra riportato, è stata ammessa ed esperita dalla Corte prova testimoniale ad integrazione della documentazione in atti riversata dalle parti.

In esito alla discussione orale, la causa è stata trattenuta in decisione.

Il reclamo è fondato. Preliminarmente la Corte osserva che non è più oggetto di controversia la questione della discriminatorietà o meno del licenziamento impugnato e che non sono fondate le censure di inammissibilità per genericità del reclamo (atto, al contrario, provvisto dei requisiti di specificità ed analiticità previsti dalla legge). Nel merito, deve in primo luogo escludersi, in accoglimento del primo motivo di impugnazione, che le dichiarazioni rese dal medico incolpato in sede disciplinare relative all’effettiva assenza dall'ospedale negli orari individuati nelle relazioni degli investigatori privati assoldati da parte datoriale costituiscano confessione con valenza negoziale di accettazione del licenziamento per giusta causa.

Si tratta infatti di dichiarazioni in risposta alla specifica contestazione di omessa timbratura nel corso della pausa pranzo che debbono essere lette nel loro specifico contesto, quale emerso dall'istruttoria, di una sostanziale tolleranza del datore di lavoro ad una prassi in forza della quale ai responsabili dei reparti veniva richiesta essenzialmente una prestazione di risultato in termini di gestione del reparto stesso, in larga parte svincolata dal rispetto di rigidi orari, anche in considerazione della tempistica relativa a visite mediche ed effettuazione e lettura di esami clinici ed alla disponibilità a trattenersi anche in orari serali e talvolta nelle giornate del sabato o festive.

È infatti emerso dall'istruttoria che all'attuale reclamante non era stato in passato mosso alcun addebito relativo alle sue competenze mediche od alla responsabilità del reparto e che, nonostante l’ordine di servizio del 1996 che precisava il dovere di tutto il personale al rispetto degli orari contrattuali, non gli era mai stato mosso alcun rilievo in proposito, così ingenerando nel medesimo e nel personale la convinzione che l'interesse sostanziale di parte datoriale fosse da collegarsi principalmente alla corretta gestione del reparto, al di fuori degli esatti orari risultanti dalle timbrature magnetiche, tanto che nè al medesimo né ad altri primari erano mai stati pagati o autorizzati straordinari.

Deve quindi essere assegnato specifico rilievo ai fini disciplinari al costante e pluriennale comportamento datoriale di accettazione o tolleranza di una timbratura magnetica formale da parte del medico licenziato, quantunque in contrasto con l'ordine di servizio, perché mai oggetto in precedenza di rilievi od osservazioni e perché compensata dalla disponibilità anche in orari straordinari e prefestivi o festivi alla gestione del reparto e dei pazienti, orientata al risultato.

Sebbene il datore di lavoro sia legittimato a pretendere il rispetto integrale dell'orario di lavoro ed a modificare la propria prassi precedente e pluriennale in materia, non è conforme a buona fede l'improvviso mutamento della valutazione del rispetto dell'orario, da una visione sostanzialistica ad una formale, senza alcun preavviso e senza alcun richiamo nei confronti di dipendente con anzianità di servizio ultra-trentennale e responsabilità professionali significative e delicate, realizzato con modalità segrete e speciose, in assenza di rilievi di natura sostanziale.

In tale contesto ed in accoglimento del secondo motivo di gravame, la condotta di omessa timbratura nei termini contestati ed accertati non costituisce giusta causa di recesso nel caso concreto, per i seguenti motivi:a) esistenza di una prassi, emersa dalle testimonianze raccolte, come sopra evidenziato, nel senso dell’accettazione da parte del datore di lavoro, sino alla intervenuta contestazione disciplinare, di una gestione sostanzialistica dell'orario di lavoro da parte quantomeno dell'attuale reclamante, svincolata dal rispetto della timbratura magnetica ed orientata al risultato della gestione del reparto di cardiologia di cui era responsabile, con disponibilità a prestazioni anche in orari serali, prefestivi e festivi senza registrazione e/o corresponsione di compenso per lavoro straordinario;b) mancata previsione nei contratti collettivi della sanzione espulsiva per il comportamento contestato; invero, a norma dell'art. 63 del CCL dell'O. I. è prevista la sanzione disciplinare tra rimprovero verbale e multa per inosservanza delle disposizioni di servizio in tema di orario di lavoro, ed è prevista la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione sino a 10 giorni per assenza ingiustificata dal servizio sino a 10 giorni di arbitrario abbandono dello stesso. Le contestazioni mosse al dott. B. riguardano il mancato rispetto dell'ordine di servizio relativo alla registrazione degli orari di lavoro, ed erano perciò punibili con rimprovero o multa; anche qualora, in astratto, dovessero considerarsi assenza ingiustificata dal servizio, poiché la contestazione riguarda comunque complessivamente un orario di assenza non timbrata inferiore a 10 giorni, tale assenza non rientra comunque in ipotesi punibile con sanzione disciplinare espulsiva;c) il recesso intimato è comunque privo del requisito della proporzionalità, in considerazione della natura formale della contestazione, a fronte di elevata anzianità di servizio e responsabilità professionale, in assenza di precedenti rilievi riguardanti la gestione dell'orario di lavoro ovvero di rilievi di natura professionale. E’ infine fondato il terzo motivo di impugnazione, relativo all’invocata applicabilità della c.d. tutela reale quale conseguenza della declaratoria di illegittimità del licenziamento in questione.

            In proposito la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che la tutela reale deve essere esclusa per i dirigenti c.d. apicali, in posizione verticistica, tale da influenzare l'andamento e le scelte dell'attività aziendale.

            Nel caso di specie, invece, è lo stesso O. I. che nella propria memoria difensiva precisa che il dott. B. era responsabile di struttura semplice e non complessa.

            D'altra parte il CCNL ARIS - ANMR1S chiarisce che al rapporto dei dirigenti medici della sanità privata si applicano tutte le tutele della Legge n. 300/1970 ivi compresa la tutela del posto di lavoro prevista dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (art. 3, comma 3, CCNL 1994, la cui continuità di applicazione è ribadita dall'art. 3, comma 3, CCNL 1998).

Deve pertanto essere annullato il licenziamento intimato al dott. B. dall'O. I. in data 8/8/2012, con applicazione ratione temporis dell'art. 18, comma 4, St. Lav. come modificato dall'art. 1, comma 42, L. n. 92/2012, trattandosi di ipotesi di fatto che rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata a 12 mensilità (viste l’anzianità di servizio del lavoratore e le dimensioni del datore di lavoro) dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori a norma dell’art. 429 c.p.c., e, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione. Sotto il profilo del rito, osserva infine la Corte che l'art. 1, comma 60, L. n. 92/ 2012 stabilisce, così come il comma 57, che “la sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall'udienza di discussione. Tale indicazione esprime una modalità di pronuncia della sentenza diversa da quella di cui all'art. 429 c.p.c. (“... il giudice ... pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo").

            Benché la modalità di pronuncia della sentenza ex art. 1, comma 60, L. n. 92/2012 si discosti dai principi di oralità ed immediatezza che informano la disciplina del processo del lavoro e la sua fase decisoria, deve rilevarsi che la regola secondo la quale la causa è decisa (non con lettura del dispositivo all'udienza di discussione, ma) con sentenza da depositare nei successivi 10 giorni risponde alla volontà di costruzione di un modello di procedimento distinto dal rito ordinario del lavoro, la cui disciplina è integralmente contenuta nella L. n. 92/2012, salvo richiami espressi alle disposizioni del codice di rito.

Assorbita ogni ulteriore questione, tenuto conto dell'esito complessivo della lite, segnatamente del passaggio in giudicato del rigetto della domanda di accertamento della discriminatorietà del licenziamento e della soccombenza nel resto dell'ospedale resistente, quest’ultimo deve essere condannato alla rifusione in favore del reclamante di 3/4 delle spese di lite di primo grado, liquidate per l'intero, ivi compresa la fase cautelare, in complessivi € 8.670, ed alla rifusione per intero delle spese del presente grado di giudizio, liquidate in € 9.480.

 

P.Q.M.

 

La Corte, ogni diversa domanda, eccezione e deduzione respinta:

-           in riforma della sentenza impugnata, dichiara l’illegittimità del licenziamento intimato ad A. B. in data 8/8/2012;

-           ordina la reintegrazione di A. B. nel posto di lavoro;

-           condanna l'O. I. al pagamento in favore dello stesso di un’indennità risarcitoria commisurata a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalle singole scadenze al saldo, ed al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione;

-           condanna l’O. I. alla rifusione in favore di A. B. delle spese di lite di primo grado, che liquida per l’intero in € 8.670, con compensazione del residuo, ed alla rifusione delle spese di lite del presente grado, che liquida in € 9.480.


Nota a Corte di Appello di Roma, Sez. Lav., sentenza 7 aprile 2015, n. 3161

Deve escludersi che le giustificazioni rese in sede disciplinare abbiano valenza confessoria quando le stesse sono rilasciate dal lavoratore in mancanza di assistenza tecnica–giuridica e senza la consapevolezza della oggettiva incidenza delle stesse in ordine alle conseguenze giuridiche.

E’ quindi illegittimo il licenziamento per giusta causa del dirigente medico motivato dalla mancata timbratura del badge durante la pausa pranzo, quando invece esiste una prassi aziendale che richiede al primario una prestazione di risultato in termini di gestione del reparto, svincolata dall’osservanza di rigidi orari.

Il licenziamento risulta peraltro illegittimo quando per l’addebito contestato al lavoratore la contrattazione collettiva preveda una sanzione di tipo conservativo e non espulsivo, ciò concretizzando una mancanza del requisito della proporzionalità del recesso, in considerazione della natura formale della contestazione, a fronte della elevata anzianità di servizio del lavoratore, della responsabilità professionale assegnatagli e dell’assenza di precedenti rilievi riguardanti sia la gestione dell’orario di lavoro sia la prestazione professionale sino a quel momento esercitata.

Il licenziamento quindi deve essere annullato trattandosi di ipotesi di fatto che rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, con diritto del lavoratore alla reintegra nel posto di lavoro e al risarcimento del danno.

 

Lavoro subordinato (Rapporto di) – Licenziamento disciplinare – Proporzionalità della sanzione – giustificazioni rese in sede disciplinare - natura confessoria – esclusione - qualificazione giuridica fatto contestato e rilievo prassi aziendale – applicazione articolo 18 Legge n. 300 / 1970 ai dirigenti medici per estensione contenuta nel CCNL ARIS ANMRIS – illegittimità del licenziamento – sanzione reintegratoria poiché il fatto contestato rientra tra fattispecie contrattuale relativa a sanzione conservativa

 

Sommario: 1. Considerazioni preliminari – 2. I fatti di causa: la fase sommaria e di opposizione – 3. Il giudizio di reclamo. La valutazione complessiva delle dichiarazioni confessorie funzionalmente connesse alla prassi aziendale e la condotta datoriale contraria ai principi di buona fede - 4. La valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e licenziamento - 5. Considerazioni finali

Considerazioni preliminari.

 La sentenza in commento stabilisce diversi importanti principi in merito ad una vicenda, a dire il vero di notevole interesse per la complessità degli argomenti trattati, ove i giudici capitolini hanno dovuto esaminare diverse questioni ai fini della decisione della controversia tra cui: (i) gli usi e/o prassi aziendali, al fine di valutare la legittimità della condotta contestata; (ii) la valenza confessoria delle giustificazioni rese in sede di procedura disciplinare ex art. 7. L. n. 300/70; (iii) la proporzionalità della sanzione espulsiva, soprattutto in considerazione del fatto che il presunto inadempimento non era considerato dalla contrattazione collettiva così grave da prevedere il recesso; infine, (iv) la tematica della reintegra nel posto di lavoro a fronte della circostanza che il fatto contestato era effettivamente sussistente (anche se infine ritenuto non giuridicamente rilevante dai giudici della Corte di appello).

La sentenza appare ancor più di maggiore interesse in quanto, nelle precedenti fasi del rito cosiddetto Fornero, sommaria e di opposizione, il recesso era stato ritenuto legittimo. Nel giudizio di reclamo, invece, la Corte di appello ha adottato delle soluzioni interpretative che capovolgono completamente il ragionamento decisorio attuato dal Tribunale di Roma.

 

I fatti di causa: la fase sommaria e di opposizione.

Fatta tale breve premessa di ordine sistematico, occorre analizzare le circostanze oggetto di causa. La vicenda in esame tratta il caso di un licenziamento per giusta causa intimato a un dirigente medico da parte di una struttura ospedaliera (avente natura privatistica) giustificato dalla omessa timbratura del badge di rilevazione delle presenze in uscita ed in entrata durante la pausa pranzo.

Preliminarmente, occorre evidenziare che il dirigente, a fronte della contestazione disciplinare, aveva reso personalmente le proprie giustificazioni in modo atecnico e senza l’assistenza di un rappresentante sindacale, non avendo quindi quella piena consapevolezza del quadro complessivo del cosiddetto “fatto materiale” contestato e delle conseguenze giuridiche delle proprie ammissioni. In tale contesto, il lavoratore aveva sì ammesso le condotte addebitategli giustificandole, tuttavia, in ragione del suo ruolo di primario e di una consolidata prassi aziendale concernente una certa flessibilità nel rispetto degli orari di servizio. Sul punto il medico osservava infatti che le prestazioni rese giornalmente, in termini di effettivo orario di lavoro prestato e di responsabilità professionali qualificate e significative, compensavano ampiamente la presunta mancata timbratura del badge durante la pausa pranzo, circostanza questa avvenuta peraltro solo in alcune occasioni (in tutto meno di dieci giornate su un rapporto di lavoro ultratrentennale). Sempre secondo la ricostruzione del lavoratore, tale condotta era ben conosciuta dal datore di lavoro che la “tollerava” proprio in virtù del ruolo dirigenziale ricoperto dal medesimo in qualità di primario. Il ricorrente poi, sempre nel procedimento disciplinare, chiedeva all’Ospedale di tenere conto, ai fini della valutazione dell’addebito contestato, sia dell’uso aziendale in parola sia della propria diligenza manifestata nella trentennale attività di servizio, ciò anche in considerazione dell’assenza, fino a quel momento, di altri provvedimenti disciplinari. Nonostante ciò, l’Ospedale, nel ritenere leso il rapporto fiduciario, intimava il licenziamento per giusta causa.

I giudici del Tribunale di Roma della fase sommaria e di opposizione, con due provvedimenti sostanzialmente analoghi, ritenevano legittimo il licenziamento sostenendo, da una parte, che le dichiarazioni rese dal lavoratore nella lettera di giustificazioni degli addebiti avessero una determinante valenza confessoria ex art. 2730 c.c.,[1] dall’altra, che la flessibilità d’orario riconosciuta ai dirigenti medici a tempo pieno non escludeva l’obbligo di timbratura in entrata ed in uscita nelle pause pranzo, adempimento finalizzato proprio al controllo dell’esatta osservanza dell’orario di lavoro. Sulla base di tale assunto entrambi i giudici affermavano che il comportamento tenuto dal dirigente era da considerarsi tanto grave da ledere il rapporto fiduciario con il datore.

 

 

Il giudizio di reclamo. La valutazione complessiva delle dichiarazioni confessorie funzionalmente connesse alla prassi aziendale e la condotta datoriale contraria ai principi di buona fede.

 

La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale, in prima battuta, ha escluso che le dichiarazioni rese dal medico in sede disciplinare costituissero confessione con valenza negoziale di accettazione del licenziamento, in quanto dovevano esser lette nello specifico contesto emerso dall’istruttoria di “una sostanziale tolleranza del datore di lavoro ad una prassi in forza della quale ai responsabili dei reparti veniva richiesta essenzialmente una prestazione di risultato in termini di gestione del reparto stesso, in larga parte svincolata dal rispetto di rigidi orari”.

Sul punto, occorre puntualizzare come l’orientamento giurisprudenziale prevalente stabilisce che l’elemento soggettivo della confessione previsto dall’art. 2730 c.c., ossia l’animus confitendi, consiste nella consapevolezza e nella volontà di ammettere un determinato fatto a vantaggio di un’altra parte.[2]Afferma in merito sempre la Suprema Corte che la dichiarazione di fatti pregiudizievoli per la parte che la esprime deve essere compiuta in modo palese e non può desumersi da elementi solo implicitamente o indirettamente ammissivi.[3] Occorre peraltro evidenziare, anche ai fini di una migliore comprensione della presente questione, che le dichiarazioni confessorie devono essere valutate anche con riferimento a quanto previsto dall’art. 2734 c.c.; tale norma infatti obbliga il giudice a valutarle nel loro complesso “nel senso di considerare ricomprese nella relativa sfera di applicazione tanto l'ipotesi della c.d. "confessione complessa" (che sussiste qualora le aggiunte si riferiscano a fatti diversi da quello confessato, tali da modificarne o estinguerne gli effetti "ab estrinseco"), quanto a quella della confessione c.d. "qualificata" (che ricorre tutte le volte in cui i vari fatti dichiarati siano strettamente connessi - tanto che l'uno si profila come la necessaria conseguenza dell'altro -, ovvero incidano sulla sua essenza e si riflettano sulla sua efficacia, come per il negozio condizionato).[4]

In concreto, secondo la giurisprudenza, l’ipotesi di confessione complessa si distingue da quella qualificata in ragione del fatto che, nella prima, alla confessione si accompagna la dichiarazione di altri fatti tendenti ad indebolire l’efficacia del fatto confessato, ovvero a modificarne o estinguerne gli effetti, mentre la seconda ipotesi si configura nel momento in cui i fatti dichiarati sono così strettamente connessi che gli uni appaiono la conseguenza degli altri.[5]

In ragione di tali principi, si può affermare che le dichiarazioni rese dai lavoratori in sede di giustificazioni non possono essere considerate, tout court, quale ammissione confessoria, né fanno piena prova delle circostanze riferite, essendo le stesse suscettibili, invece, del libero convincimento del giudice che dovrà indagare su tutte le circostanze connesse ai fatti dichiarati che, appunto, sono inscindibilmente collegati ai fatti oggetto di addebito.

La Corte capitolina ha pertanto valutato non proporzionata la sanzione del licenziamento, in ragione del fatto che – anche con riferimento ad un ordine di servizio del 1996 che precisava il dovere di rispettare gli orari contrattuali - assumeva specifico rilievo, ai fini disciplinari, la circostanza per cui in passato al lavoratore non era stato mosso alcun addebito rispetto sia all’osservanza degli stessi sia sulle sue competenze mediche o alla responsabilità del reparto, “così ingenerando nel medesimo e nel personale la convinzione che l’interesse sostanziale di parte datoriale fosse da collegarsi principalmente alla corretta gestione del reparto, al di fuori degli esatti orari risultanti dalle timbrature magnetiche, tanto che né al medesimo né ad altri primari erano mai stati pagati o autorizzati straordinari”.

Alla luce di quanto sopra evidenziato, la questione giuridica che rende di particolare interesse la presente vicenda riguarda, in sostanza, la violazione dei principi di correttezza e buona fede che ispirano ogni rapporto contrattuale. I giudici di appello hanno affermato al riguardo che sebbene il datore di lavoro sia pienamente legittimato a pretendere sia il rispetto degli orari che a modificare le proprie prassi precedenti, tuttavia, ciò non può essere richiesto improvvisamente senza alcuna comunicazione preventiva nei confronti del dipendente che si è conformato a detto uso, anche in ragione della mancanza di qualsivoglia precedente richiamo disciplinare in merito allo stesso. In concreto, il punto nodale per la risoluzione della odierna tematica è proprio questo, in quanto all’interpretazione fornita al caso di specie da parte dei giudici di appello deve essere riconosciuto l’indubbio merito di aver analizzato l’intera vicenda senza limitarsi ad una formale valutazione degli addebiti disciplinari e delle dichiarazioni confessorie, riconoscendo invece una valenza decisiva alla prassi aziendale che in verità da sempre “tollerava” la condotta oggetto di sanzione espulsiva. Una diversa soluzione interpretativa avrebbe di contro legittimato il licenziamento di un dipendente mediante l’utilizzo di modalità del tutto speciose e pretestuose. Non risulta infatti conforme a buona fede la condotta datoriale che, usando le stesse parole della Corte di appello, muta radicalmente la propria organizzazione “da una visione sostanzialistica ad una formale”, senza alcuna preventiva informazione al dipendente, pretendendo che il medesimo si conformi alle nuove disposizioni tuttavia mai comunicategli.

 

 

La valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e licenziamento.

 

La Corte di Appello ha inoltre osservato che il comportamento tenuto dal medico, in ogni caso, non era da considerarsi così grave da prevedere il licenziamento in quanto mancava, a livello di contrattazione collettiva di settore, una previsione contrattuale che disciplinasse la sanzione espulsiva per l’addebito oggetto di causa. Il fatto contestato rientrava invece tra le condotte punibili con la sola sanzione conservativa del rimprovero e della multa, ciò determinando la mancanza del requisito della proporzionalità del recesso. In concreto, secondo i giudici di appello, il licenziamento non risultava proporzionato, in considerazione della natura formale della contestazione, a fronte della elevata anzianità di servizio del lavoratore, della responsabilità professionale assegnatagli e, soprattutto, dell’assenza di precedenti rilievi riguardanti sia la gestione dell’orario di lavoro sia la prestazione professionale sino a quel momento esercitata. I giudici di merito, conseguentemente, nella valutazione dei fatti oggetto di addebito applicano il principio di proporzionalità ex art. 2106 c. c..

Al riguardo, pare opportuno richiamare quanto stabilito dalla ormai nota sentenza di Cassazione del 6 novembre 2014, n. 23669, secondo cui, ai fini della legittimità o meno del recesso, deve essere valutato il solo fatto materiale, senza che si debba procedere alla valutazione della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento contestato. In sostanza, secondo la sopra richiamata sentenza della Cassazione “esula dalla fattispecie che è a base della reintegrazione, ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento”.[6]

La sentenza della Cassazione del 2014 sembrava aver messo un punto definitivo al dibattito, registratosi sia in dottrina che in giurisprudenza, ove sono state espresse alterne opinioni sull’applicabilità o meno del principio di proporzionalità ex art. 2106 c.c. alla nuova disciplina del licenziamento ex lege Fornero.[7]

Parte della dottrina, infatti, aveva affermato che l’art. 2106 c.c. “non solo non è stato abrogato, ma soprattutto esso esprime nel campo del contratto di lavoro la necessità di conservazione dell’equilibrio sinallagmatico”, richiamando in merito le regole del diritto comune e, in particolare, l’art. 1455 c.c., secondo cui la risoluzione del contratto non è ammessa per un inadempimento di scarsa importanza.[8] Sul punto, qualche autore ha osservato che se il nuovo comma 4, dell’art. 18, prevede che innanzi a un fatto che sussista ma è punito in forma lieve dalla contrattazione collettiva (ad es. con la multa o la sospensione) il giudice debba applicare la reintegra, ciò confermerebbe come “il giudizio di proporzionalità abbia ancora mantenuto il suo valore essenziale nella scelta della stessa tutela”.[9] Tale assunto, sempre secondo il medesimo autore, trova maggior forza dal fatto che molti contratti collettivi prevedono una tipizzazione delle previsioni disciplinari spesso generiche, ove quindi il ruolo del magistrato diventa determinante al fine di valutare l’infrazione, con il principio della proporzionalità, e applicare così lo stesso metro di giudizio per un fatto che esiste ma che non sia così grave da giustificare il recesso, anche se non espressamente tipizzato dal contratto collettivo.[10] Di contro, sempre in dottrina c’è chi, da un lato, ha invece negato che nella nuova normativa (art. 18, comma 4, disciplina Fornero) fosse rinvenibile una interpretazione estensiva del principio di proporzionalità, in quanto la reintegra potrebbe applicarsi solo quando la condotta di minor gravità è tipizzata dalla contrattazione collettiva[11] e chi, dall’altro, ha affermato, prendendo in considerazione le prime interpretazioni giurisprudenziali in materia, che il criterio che consente una maggior certezza sulle cosiddette infrazioni disciplinari meritevoli di sanzioni conservative sia esclusivamente quello che trova la propria fonte nella contrattazione collettiva, che così fornisce parametri certi.[12] E chi, per altro verso, ha ritenuto che le uniche previsioni dei contratti collettivi utilizzabili per comprendere se il fatto posto alla base del recesso sia punibile con una sanzione conservativa sono solo quelle che hanno il requisito della specificità.[13]

Per concludere sul punto, occorre segnalare che recentemente la Cassazione con sentenza n. 21017 del 6 ottobre 2015,[14] con riferimento ad un licenziamento disciplinare che la Corte di appello di Roma aveva ritenuto legittimo - basandosi sul presupposto che a nulla rilevava che la condotta contestata non rientrasse tra quelle previste dalla contrattazione collettiva, la cui elencazione doveva ritenersi “meramente esemplificativa” - ha invece cassato la sentenza, rinviando al giudice del merito. Al riguardo, la Suprema Corte ha osservato che per stabilire l’esistenza di una giusta causa di licenziamento occorre valutare la gravità di fatti addebitati al lavoratore in relazione non solo alla portata degli stessi e alla intenzionalità della condotta, ma anche con riferimento “alla proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta”. I giudici di legittimità hanno inoltre affermato che nel giudizio di proporzionalità si deve valutare il tipo di inadempimento rispetto alla regola generale della non scarsa importanza di cui all’art. 1455 c.c. “sicché l’irrogazione della sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali”.

Anche in virtù di questo ultimo indirizzo della Suprema Corte appare quindi ancora non risolta la problematica della valutazione del principio di proporzionalità della sanzione posta alla base del recesso, quando l’infrazione non sia espressamente tipizzata dalla contrattazione collettiva, tematica che, come sin qui argomentato, registra infatti orientamenti difformi non solo in dottrina ma anche in giurisprudenza.[15]

 

 

Considerazioni finali.

 

La Corte di appello, riassumendo, con la sentenza in commento ha fondato il proprio ragionamento decisorio sia sull’esistenza della prassi aziendale che non imponeva la timbratura del badge in entrata e in uscita durante la pausa pranzo, sia sulla circostanza che per le condotte contestate al lavoratore la contrattazione collettiva prevedeva una sanzione di tipo conservativo e non espulsivo, ciò concretizzando anche una mancanza di proporzionalità del recesso rispetto al fatto contestato. In base a tale ragionamento interpretativo è stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento stante l’insussistenza della giusta causa, con la conseguente sanzione della reintegra e l’obbligo di risarcimento del danno previsto per legge.

Per ragioni di brevità espositiva, non verrà trattata nella presente annotazione la ulteriore questione dell’applicabilità della tutela reale ai dirigenti medici della sanità privata. Sul punto ci si limita a segnalare che secondo i giudici del reclamo alla controversia avrebbe dovuto applicarsi la tutela reale, da una parte, poiché espressamente stabilita dal contratto collettivo di settore, dall’altra, perché il dirigente medico, in qualità di primario, non può considerarsi c.d. dirigente apicale.

I giudici capitolini quindi, sempre nella sentenza in esame, hanno applicato l’art. 18, comma 4, St. lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, L. n. 92/2012, ritenendo che si trattasse di ipotesi di fatto che rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, condannando il datore di lavoro alla reintegra del lavoratore ed al pagamento di un’indennità commisurata a 12 mensilità.

In conclusione, si può affermare che, come è accaduto nel caso oggetto di commento, il difetto della proporzionalità porta alla reintegra del lavoratore nel momento in cui la condotta disciplinare può essere punita con una sanzione conservativa prevista nei contratti collettivi, configurandosi l’ipotesi dell’art. 18, comma 4, come riformato dalla Legge n. 92/2012. In ragione di quanto sin qui esposto, a parere di chi scrive, il criterio della proporzionalità ex art. 2106 c.c. appare comunque essere quello più adeguato al fine di valutare la riconducibilità del fatto contestato ad una sanzione di tipo conservativo e, a maggior ragione, quando l’addebito non sia specificatamente previsto dalla contrattazione collettiva o dal codice disciplinare. Ciò sempre in un ottica di non consentire, come nel caso in esame, interpretazioni troppo rigorose ove il rischio maggiore è quello di privilegiare elementi formali e non sostanziali; soprattutto in considerazione del fatto che, al fine di evitare effetti paradossali nell’interpretazione della norma, è sempre preferibile che l’indagine del giudice abbia come riferimento principale il buon senso (l’abito su misura non esiste!) per impedire conseguenze non solo anomale ma del tutto paradossali che, se rigidamente intese, porterebbero a legittimare la massima sanzione espulsiva per condotte invece prive di un’effettiva rilevanza giuridica.

[1] Per completezza si richiama il testo dell’art. 2730 c.c.: «la confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte».

[2] In tal senso, Cass., 5 marzo 1990, 1723, in Breviaria Iuris, in G. Cian - A. Trabucchi (a cura di), Commentario breve al codice civile, artt. 2730-2735, Padova, 1999, 2552 -2556.

[3] In particolare, si veda Cass. 29 settembre 2005, n. 19165, in Rep. Foro It., 2005, che in merito afferma che perché una dichiarazione sia qualificabile come confessione, essa deve constare di un elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la volontà di un fatto a se sfavorevole e favorevole all’altra parte, e di un elemento oggettivo, che si ha qualora dall’ammissione del fatto obiettivo che forma oggetto della confessione, escludente qualsiasi contestazione sul punto, derivi un concreto pregiudizio all’interesse del dichiarante e al contempo un corrispondente vantaggio nei confronti del destinatario della dichiarazione; è inoltre necessario che la confessione abbia per oggetto un fatto storico dubbio, salva restando la possibilità di invalidarla qualora il confitente dimostri sia la inveridicità della dichiarazione sia che la non rispondenza di questa al vero dipende dall’erronea rappresentazione o percezione del fatto rappresentato. Sul punto si veda anche Cass. 26 maggio 1992, n. 6301, in Breviaria Iuris, in G. Cian - A. Trabucchi (a cura di), op. cit., 2553.

[4] In tal senso, si veda Cass., 20 dicembre 2004, n. 23637, in Giust. civ. Mass., 2005, 1, 65, secondo cui, sia in ipotesi di confessione complessa sia di confessione qualificata “in entrambe le ipotesi, qualora la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte idonee a modificare o estinguere gli effetti della confessione sia contestata, le dette dichiarazioni non fanno piena prova nella loro integrità né determinano alcuna inversione dell’"onus probandi", ma risultano invece suscettibili, nel loro complesso, di libero apprezzamento da parte del giudice, ai sensi dell'art. 116 del codice di procedura civile”. Sul punto si veda ex multis: Cass., 16 dicembre 1987, n. 9339; Cass., 22 aprile 1981, n. 2362, in Breviaria Iuris, in G. Cian - A. Trabucchi (a cura di), op. cit., 2552 -2556.

[5] Cfr. in merito Cass., 20 dicembre 2004, n. 23637 in Giust. civ. Mass., 2005, 1, nonché in senso conforme Cass., 6 novembre 2002, n. 15543, in P. Cendon (a cura di), Commentario al codice Civile, 2008, 332-333.

[6] In tal senso si veda, tra i primi commentatori, M. De Luca, Il fatto nella riforma della tutela reale contro i licenziamenti illegittimi: note minime sulla prima sentenza in materia della Corte di Cassazione, in Il Foro it., 2014, 12, 3422- 3425.

[7] In dottrina, tra i tanti, si segnalano i seguenti contributi in materia di licenziamenti disciplinari a seguito della Legge n. 92/2012: A. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche all’art. 18 Statuto dei lavoratori, in Riv. it. dir. lav., 2012, 1, 436 e ss..; A. Palladini, La nuova disciplina dei licenziamenti, in Riv. it. dir. lav., 2012, 4, 653-668; R. De Luca Tamajo - O. Mazzotta, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Padova, 2013; V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, Riv. it. dir. lav., 2012, 552 e ss..; M. Marazza, L’art. 18, nuovo testo, dello Statuto dei lavoratori, in Arg. dir. lav., 2012, 3, 622.

[8] In tal senso M. Barbieri, La nuova disciplina del licenziamento individuale. Profili sostanziali e questioni controverse, in Il licenziamento Individuale nell’interpretazione della Legge Fornero, Bari, 2013, 34 e 35. Nonché in senso conforme, V. Speziale, op. cit., 554.

[9] R. Riverso, Alla ricerca del fatto nel licenziamento, in www.altalex, 2012, 9.

[10] R. Riverso, I licenziamenti disciplinari tra Jobs act e riforma Fornero. (Basta poco di fatto materiale e la reintegra va giù), nonché R. Riverso, op. ult. cit, 10.

[11] A. Vallebona, in La riforma del lavoro, Torino, 2012, 57.

[12] In tal senso, P. Sordi, Il nuovo art. 18 della Legge n. 300 del 1970, in L. Di Paola (a cura di),La riforma del lavoro, Milano, 2013, 290 e ss. e, in particolare, si veda pagina 294, nota 84, ove l’autore evidenzia il ruolo della giurisprudenza “incline ad utilizzare le disposizioni dei contratti collettivi come parametri per valutare se la gravità del fatto addebitato al lavoratore (e coincidente con alcuna specifica previsione del codice disciplinare) corrisponda a quella propria delle infrazioni punite con sanzioni conservative: v. il percorso motivazionale di Trib. Milano 28 gennaio 2013; Est. Lualdi in www.bolletino adapt.it”.

[13] E. Morrico, La riforma del mercato del lavoro, aspetti sostanziali e processuali, Napoli, 2013, 190.

[14] Pubblicata in www.ipsoa.it. del 21 ottobre 2015.

[15] Sul punto, si segnala anche Cass., 11 febbraio 2015, n. 2692, citata nel commento di F. Carinci, Il licenziamento disciplinare all’indomani del D.Lgs. n. 23/2015, in Working Paper ADAPT – IT, 24 aprile 2015, n. 176, 8, che, vista la sussistenza del fatto contestato, cioè un’insubordinazione di un dipendente verso il proprio superiore, tenta di ricondurre la condotta ad una sanzione conservativa “ma non trovandola tagliata su misura, fa ricorso al criterio di proporzionalità per affermare comunque tale riconducibilità”.