Articolo di Michelangelo Salvagni
Tribunale di Roma, 15 settembre 2016, est. Selmi, N. P. (Avv. Merlo) c. UGL Agricoli Forestali (Avv. Rongioletti).
RAPPORTO DI LAVORO - DIMISSIONI - STATO DI INCAPACITA NATURALE - SUSSISTENZA - VIZIO DEL CONSENSO - ANNULLAMENTO DELLE DIMISSIONI - RICOSTITUZIONE DEL RAPPORTO - OBBLIGO RETRIBUTIVO DALLA SENTENZA.
Devono annullarsi ai sensi dell’art. 428 c.p.c. le dimissioni rese dal prestatore di lavoro in uno stato di incapacità naturale allorché le stesse siano state rassegante in un momento di alterata percezione sia della situazione di fatto sia delle conseguenze dell’atto che si compie, con conseguente pregiudizio della sua capacità di autodeterminazione. Le dimissioni sono annullabili purché il lavoratore dimostri due condizioni: la prima, di trovarsi, al momento in cui ha compiuto l’atto, in uno stato di privazione delle capacità volitive e intellettive, anche parziale, tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, dovuta per qualsiasi ragione anche di natura transitoria; la seconda, di aver subito un grave pregiudizio a causa dell’atto medesimo, senza che sia richiesta la malafede del destinatario.
Il caso in commento tratta la vicenda di una lavoratrice la quale ha convenuto in giudizio il datore di lavoro al fine di ottenere l’annullamento delle proprie dimissioni, deducendo di averle rassegnate in uno stato di incapacità naturale. La ricorrente, altresì, ha richiesto la condanna della convenuta alla reintegra nel posto di lavoro con efficacia ex tunc, oltre il risarcimento del danno pari alle retribuzioni perse dalla data della risoluzione del rapporto di lavoro.
La sentenza suscita particolare interesse in quanto verte su una tematica che non trova molti precedenti giurisprudenziali, anche in ragione delle seguenti rilevanti circostanze: per un verso, poiché il lavoratore deve dimostrare che quando ha posto in essere l’atto risolutivo era affetto da uno stato tale da determinare un’alterazione delle proprie capacità di intendere e di volere; per un altro verso, perché al giudicante è demandato il difficile compito di accertare se al momento delle dimissioni si sia realizzato o meno il vizio del consenso, come disciplinato dall’art. 428 c.c., che determina l’annullabilità delle dimissioni e la conseguente ricostituzione del rapporto di lavoro.
La risoluzione di un caso del genere, ovviamente, necessita dell’ausilio di un medico legale, e quindi di una elaborato peritale, cosiddetta CTU, che determini se al momento in cui il lavoratore ha rassegnato le dimissioni fosse o meno nello stato di intendere e di volere. Tornando al caso oggetto di causa, la lavoratrice evidenziava che le dimissioni erano state rese in stato di incapacità naturale, in quanto era affetta da una grave patologia psichiatrica. La società, nel costituirsi in giudizio, eccepiva che le dimissioni erano state ritualmente convalidate presso il competente Centro per l’Impiego, con dichiarazione sottoscritta dalla ricorrente, evidenziando la condizione di buona fede della Associazione convenuta. La resistente poi, chiedeva che gli effetti della eventuale reintegra fossero riferiti solo a partire dalla sentenza e non dalla data di dimissioni.
La causa veniva istruita mediante effettuazione di CTU medico legale che accertava come la ricorrente, al momento delle dimissioni, fosse affetta da “disturbo bipolare in trattamento farmacologico, manifestatosi clinicamente all’epoca dei fatti”. In concreto, in virtù degli accertamenti effettuati in sede di consulenza di ufficio e, in particolare, in base sia alla storia clinica desumibile dalla documentazione sanitaria prodotta in giudizio sia agli elementi ricavati a seguito della visita della lavoratrice, risultava dimostrato che, al momento della sottoscrizione delle dimissioni, le condizioni in cui versava la medesima erano tali da causare uno stato di incapacità temporanea di intendere e di volere. Anzi, precisava il medico legale, che già due mesi prima delle dimissioni la lavoratrice avesse manifestato uno scompenso psicotico. Il Tribunale di Roma ha ritenuto condivisibili le argomentazioni medico legali, giudicandole immuni di vizi e congruamente motivate. Sulla base di tali osservazioni, il giudice capitolino ha sostenuto che alle dimissioni sono applicabili le norme sui contratti e che le stesse fossero annullabili in base alla disposizione generale di cui all’articolo 428 c.c., primo comma. Secondo il magistrato, è invocabile tale fattispecie purché la lavoratrice dimostri due condizioni: la prima, di trovarsi, al momento in cui ha compiuto l’atto, in uno stato di privazione delle capacità volitive e intellettive, anche parziale, tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, dovuta per qualsiasi ragione anche di natura transitoria; la seconda, di aver subito un grave pregiudizio a causa dell’atto medesimo, senza che sia richiesta la malafede del destinatario (in tal senso n. 7292 del 1.09.2011 e Cass. n. 515 del 15.01.2004). Altro punto interessante della vicenda in esame riguarda anche la questione per cui la lavoratrice, dopo le dimissioni, aveva iniziato a lavorare presso altra società. In merito il giudice ha osservato che la circostanza è indifferente, in quanto si riferisce ad un periodo successivo alle dimissioni e che, pertanto, non incide sull’accertamento della incapacità naturale che deve cristallizzarsi solo al momento in cui tale atto è stato posto in essere.
In conclusione, alla luce del ragionamento sin qui esposto, il Tribunale ha dichiarato che le dimissioni erano state effettivamente rese in un momento di alterata percezione sia della situazione di fatto sia delle conseguenze dell’atto che la ricorrente andava a compiere, con conseguente pregiudizio della sua capacità di autodeterminazione. Il giudice, quindi, ha annullato le dimissioni condannando la società alla ricostituzione della funzionalità del rapporto di lavoro e al pagamento delle retribuzioni dalla data della sentenza sino alla effettiva reintegra. Gli effetti patrimoniali, a parere del giudice, decorrono non dalla data delle dimissioni ma solo da quella della sentenza in quanto le retribuzioni, salva diversa previsione di legge, non sono dovute in mancanza di prestazione lavorativa. Ed infatti, solo per effetto della sentenza si ricostituisce la situazione contrattuale preesistente, non sorgendo sino a quel momento alcuna obbligazione tra le parti. Al riguardo, il Tribunale di Roma afferma che sino al momento della sentenza non è configurabile alcun obbligo per il datore di lavoro di riprendere in servizio il prestatore, non profilandosi alcuna mora del datore rispetto ad un rapporto che prima della sentenza di annullamento deve considerarsi inesistente (in tal senso Cass. 6166/1966).