Articolo di Michelangelo Salvagni.
pubblicato su Rivista Giuridica del lavoro n2 2024
Sommario: 1. – Rilievi preliminari: lo ius variandi e l’effetto “boomerang” sulla ricollocazione del lavoratore in caso di licenziamento per gmo. 2. – Le vicende fattuali e i principi espressi dalle ordinanze della Suprema Corte. 3. – Il licenziamento per gmo e il controllo di effettività delle ragioni. 4. – L’evoluzione giurisprudenziale dell’obbligo di repêchage dopo il d.lgs. n. 81 del 2015: l’ampliamento della ricollocazione del lavoratore ex art. 2103 c.c. 5 – Le interpretazioni estensive della giurisprudenza: il repêchage quale elemento interno al fatto e gli obblighi di correttezza e buona fede. 6. – Repêchage e obblighi formativi ex art. 2103 c.c., quali espressione degli obblighi di correttezza e buona fede ai fini della salvaguardia del posto di lavoro.
– Rilievi preliminari: lo ius variandi e l’effetto “boomerang” sulla ricollocazione del lavoratore in caso di licenziamento per gmo.
Il presente contributo che trova una sintesi, in un certo senso provocatoria, nello stesso titolo di questa annotazione, ha il precipuo scopo di evidenziare quali siano state le conseguenze, a parere di chi scrive “inaspettate”, della riforma dell’art. 2103 c.c. sull’obbligo di repêchage nel caso di licenziamento per gmo. La giurisprudenza, e parte della dottrina, all’indomani della modifica della norma civilistica in parola, avevano colto gli aspetti “innovativi” relativi ad una maggiore flessibilità e dilatazione della mobilità del prestatore, anche con riferimento alle notevoli ricadute sul rapporto contrattuale esigibile nei confronti di quest’ultimo[1]. Al contempo, tuttavia, a fronte di un allargamento dell’obbligazione debitoria della prestazione del lavoratore, si estendevano gli orizzonti, quale rovescio della medaglia, del ripescaggio in caso di recesso per gmo, non solo a mansioni diverse rispetto a quelle espletate (e soppresse), purchè comprese nello stesso livello, ma anche a quelle inferiori.
I provvedimenti in commento, assumono particolare rilievo in quanto confermano questo “effetto indiretto” (e, probabilmente, non considerato dal legislatore del 2015), conseguente alle modifiche apportate allo ius variandi, ove l’art. 2103 c.c. assurge a ruolo di “norma cardine” della conservazione del posto di lavoro. Tutela che si realizza proprio grazie ad una ricollocazione del lavoratore non più delimitata in stretti confini.
Al riguardo, tuttavia, occorrono alcune precisazioni di ordine sistematico. È innegabile che l’impianto normativo della l. 92/2012, nonché del d.lgs. n. 23/2015 e, da ultimo, del d.lgs. n. 81/2015, abbia rappresentato una vera e propria “rivoluzione tolemaica” del diritto del lavoro: il legislatore ha posto al centro della “tutela”, e dell’azione riformatrice, non più il lavoratore, considerato in passato parte debole del rapporto, ma l’imprenditore (e comunque l’azienda).
In sostanza, una sorta di “controriforma” caratterizzata dai seguenti principali obiettivi funzionalmente collegati tra loro: sia la realizzazione di una maggiore flessibilità in favore delle società, “liberalizzando” le assunzioni “precarie” (in particolare, a termine e in somministrazione), riducendo così al minimo i rischi di conversione e/o costituzione del rapporto a tempo indeterminato; sia la limitazione delle garanzie in tema di licenziamento, ridisegnando le disposizioni in materia sia del risarcimento del danno sia della reintegrazione. Riduzione delle tutele che, infine, andava ad intaccare anche la professionalità ex art. 2103 c.c., mediante le disposizioni dell’art. 3 del d.lgs. n. 81 del 2015. Operazione, questa, con la quale il legislatore “ampliava” le maglie dello ius variandi, consentendo quello che, fino a quel momento, era stato considerato un tabù. Per un verso, eliminando il principio di equivalenza ex art. 2103 c.c., ossia l’obbligo di assegnare il prestatore a mansioni che rispettassero la capacità professionale acquisita durante il rapporto. Cancellando così, in colpo solo, decenni di elaborazione giurisprudenziale che aveva “preservato” la professionalità del lavoratore, quale valore estrinseco della dignità del lavoro, da intendersi “come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo”[2]. Per un altro, rimodulando la mobilità verso il basso, ammettendo la dequalificazione professionale del lavoratore di un livello, in caso di modifica degli assetti organizzativi che incidano sulla posizione del lavoratore (art. 2103, secondo comma, c.c.), fino ad arrivare al cosiddetto patto di demansionamento (art. 2103, sesto comma). Squarciando così il velo del divieto di variazione in peius ex art. 2103 c.c., che la giurisprudenza antecedente al 2015 aveva ritenuto ammissibile solo in ragione del prevalente interesse del dipendente al mantenimento del posto di lavoro[3].
Tuttavia, il legislatore, presumibilmente, non aveva valutato che le modifiche allo ius variandi potessero determinare una sorta di effetto “boomerang” sui licenziamenti per motivi economici, con riferimento all’obbligo di repéchage del lavoratore. Parafrasando un’autorevole dottrina (nella specie Giugni), il lavoratore esce dalla porta principale ma, per la legge del contrappasso, rientra dalla finestra. L’art. 2103 c.c. post Jobs Act, infatti, nei termini sin qui evidenziati, consente oggi al datore maggiori possibilità, rispetto al passato, per ricercare soluzioni alternative tese alla salvaguardia del posto di lavoro[4]. Ossia, una ricollocazione del prestatore che riguarda un perimetro sempre più ampio, non solo verso le mansioni del medesimo livello contrattuale del dipendente, ma anche in quelle inferiori; modifiche normative, peraltro, che consentono al datore di lavoro, prima di procedere al recesso, di valutare (in ossequio ai principi di correttezza e buona fede), e porre in essere, un iter formativo (art. 2103, terzo comma), ai fini della riutilizzazione del dipendente in altre mansioni, principi questi ben chiariti dalle ordinanze in commento.
[1] Pisani 2015, 3; Gramano, Zilio Grandi 2016, 5; Brollo 2015, 29 ss.
[2] Cass., 12.4.2012, n. 7963, in MGL, 2013, 300, con nota di Natali, nonché in RIDL, 2013, II, 104, con nota di Petrillo.
[3] Sull’adibizione a mansioni inferiori che non contrasta la tutela della professionalità, se essa rappresenta l’unica alternativa al licenziamento, si veda: Cass. Civ., SS.UU., n. 7755 del 1998, in RIDL, 1, 1999, II, 170, nonché Cass., 13.8.2008, n. 21579, pubblicata rispettivamente in MGL, 2009, 3, 159, con nota di Pisani 2009, 664; cfr. anche Cass., 23.10. 2013, n. 24037, in RIDL, 2014, 2, II, 296; nonché Cass., 22.5.2014, n. 11395, in D&G, 2014.
[4] In merito, si veda Gargiulo 2015, 619 e.
Articolo di Michelangelo Salvagni.
pubblicato il 24/06/2024 su Rivista Labor.
Condivido il mio ultimo contributo sulla Rivista Labor in tema di regime di decadenza nella fattispecie dell’appalto illecito nel caso in cui il prestatore sia stato licenziato dal datore apparente.
L’ordinanza 8 marzo 2024, n. 6266, ripercorre in maniera analitica l’evoluzione giurisprudenziale sul tema della decadenza nei casi di appalto illecito e, comunque, di interposizione illegittima di manodopera. ...
Errata corrige 29 MAGGIO 2024
Articolo di Michelangelo Salvagni.
pubblicato su Lavoro Diritti Europa n. 2/2024
Segnalo la pubblicazione della mia relazione sul n. 2/2024 della Rivista Lavoro Diritti Europa nell’ambito del Convegno del 13 marzo 2024 in tema di “Licenziamento discriminatorio del disabile per superamento del periodo di comporto: novità giurisprudenziali” organizzato dall’ANF di Roma.