Intervista al giuslavorista Michelangelo Salvagni.
Intervista pubblicata su: Diritto di critica, Giornale online di politica e attualità.
In data 24 novembre 2010 è entrata in vigore la legge n. 183/2010, cosiddetto “collegato lavoro”, con la quale il legislatore, per la prima volta, ha previsto un onere di impugnativa di tutte le tipologie di contratto a tempo determinato, evidenziandosi che, in tale categoria giuridica, devono ritenersi ricompresi: i contratti a termine ex D.Lgs. 368/2001, i contratti di lavoro somministrato ex D.Lgs. 276/03 (cosiddetta legge Biagi), i contratti di lavoro interinale ex L. 196/97 (cosiddetto pacchetto Treu), i contratti di lavoro a progetto ed altri. L’art. 32 di tale nuova normativa ha, quindi, espressamente stabilito che i lavoratori devono impugnare tutte le varie tipologie di contratti a tempo determinato entro 60 giorni, con le seguenti differenziazioni: per i rapporti a termine cessati antecedentemente alla data del 24 novembre 2010 (data in cui è entrata in vigore la legge) i 60 giorni per impugnare i contratti iniziano a decorrere da tale ultima data, con scadenza inizialmente prevista alla data del 24 gennaio 2011 (ciò prima del decreto mille proroghe di cui si dirà meglio oltre).
Invece, per i rapporti a termine scaduti dopo la data del 24 novembre 2010, l’impugnativa del contratto deve essere effettuata entro 60 giorni dalla data di cessazione del rapporto. Il legislatore ha quindi esteso la possibilità di impugnativa di contratti a termine anche per i rapporti di lavoro cessati parecchi anni addietro rispetto alla data del 24 novembre 2010, ciò in considerazione della circostanza che, in concreto, non ha indicato una data e/o un periodo di riferimento rispetto ai quali non è più possibile impugnare i contratti scaduti. Al riguardo, per avere un termine di paragone su fino a quando si potrebbero impugnare i contratti non più in essere, si deve segnalare che le precedente legge sui contratti a tempo determinato risale addirittura al 2001 (D.Lgs. n. 368/01) e, quindi, si dovrebbero considerare oggetto di una possibile impugnativa anche i rapporti scaduti da quasi 10 anni. Si ha la possibilità di impugnare i vecchi contratti purché si faccia una lettera di messa in mora che il datore avrebbe dovuto ricevere entro la data del 24 gennaio 2011.
E’ proprio su questo ultima data che si è aperta una vera e propria querelle tra gli addetti ai lavori, in particolare sollevata da chi tutela gli interessi dei lavoratori, in quanto tale termine così stretto, 2 che peraltro è caduto in mezzo alla festività natalizie, è apparso subito come un colpo di spugna nei confronti dell’abuso del lavoro precario. Ed infatti, ci sono persone che hanno lavorato per anni con la stessa azienda, stipulando varie tipologie di contratti diverse le une dalle altre, svolgendo magari sempre la stessa mansione. A volte basta cambiare la mansione e/o modificare la tipologia contrattuale ed il gioco è fatto. L’azienda in questo caso non si deve neanche preoccupare di non superarare il limite massimo di 36 mesi (limite introdotto dal legislatore con una normativa del 2007), peraltro stabilito soli per i contratti a tempo determinato stipulati in virtù del D.Lgs. 368/01. I problemi di fondo sono diversi: dapprima che il lavoratore abbia consapevolezza dei propri diritti. Se non si è coscienti delle leggi di riferimento, delle varie tipologie contrattuali esistenti e del motivo per cui si può ritenere un contratto legittimo o meno, si rischia di far decorrere il termine di 60 giorni senza impugnare il proprio contratto, perdendo così ogni diritto pur avendo ragione. Ci sono tanti elementi per dire che un contratto sia stato fatto in maniera illegittima.
A cominciare dalle causali oggettive o non oggettive, inserite o meno nei contratti a termine, oppure nei contratti di somministrazione. Ci potrebbero essere poi dei vizi formali. Non è possibile conoscere sin dall’inizio del rapporto a termine se ci sono state delle inadempienze contrattuali da parte dell’azienda. Spesso e volentieri la consulenza è su quelli che sono gli elementi contrattuali di base, se le ragioni sono generiche o non sono indicate. Il lavoratore potrebbe essere stato assunto senza avere svolto mai quel determinato lavoro. Spesso sta alla bravura dell’avvocato riuscire a trovare i margini per fare causa, per impugnare i contratti. Il lavoratore per avere la consapevolezza dell’illegittimità di un contratto dovrebbe avere a disposizione un tempo ragionevole per parlarne con il sindacato, con un avvocato oppure un consulente del lavoro che gli possa esporre gli eventuali vizi e prendere le determinazioni del caso, anche con riferimento agli eventuali costi di giustizia. Sul cosiddetto collegato lavoro e le gravi conseguenze che comporta la mancata impugnativa dei contratti a tempo determinato, non c’è stata sicuramente un’adeguata pubblicità, anche da parte degli organi di informazione. Tale questione risulta essere di fondamentale importanza, proprio in virtù dell’art. 1 della nostra costituzione, in quanto il lavoratore non può più vantare il diritto di veder riconosciuto un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la società che lo ha utilizzato con contratti illegittimi se, entro 60 giorni, l’azienda non riceve da parte del medesimo un atto stragiudiziale con il quale impugna e contesta i contratti a tempo determinato e/o di somministrazione o, comunque, tutte le tipologie a tempo determinato nell’accezione ampia del termine, dovendoci ricomprendere anche altre forme 3 contrattuali come il lavoro a progetto o qualsiasi altra contratto che abbia una scadenza del rapporto predefinita. L’impresa, nel caso in cui non dovesse ricevere tale impugnativa, riuscirebbe a “condonare” tutto il pregresso nonostante l’abuso delle tipologie contrattuali a termine. Ed infatti, ad un lavoratore che non agisca nei termini indicati, è preclusa la possibilità di far valere un suo diritto fondamentale, previsto dalla nostra Costituzione che si fonda sul lavoro.
Come fa un lavoratore a rendersi conto in così breve tempo se un contratto è legittimo o meno? Ciò avrebbe presupposto una conoscenza larga ed effettiva della nuova normativa e, soprattutto, una piena consapevolezza dei diritti a cui si rinunciava. Parafrasando un famoso film americano verrebbe da invocare lo slogan “salvate il lavoratore Ryan”!!. Chi di noi avvocati è riuscito ad avvertire in tempo i lavoratori, è stato abile nel passaparola entro i due mesi previsti e fino al 24 gennaio scorso, ha permesso ai prestatori precari di attivarsi attraverso il Sindacato o l’avvocato. Gli altri sono rimasti fuori. Non ho visto in quei giorni un’informazione adeguata rispetto a quello a cui si rinunciava. Sarebbe stata necessaria una maggiore opera di sensibilizzazione, cosa che a mia memoria non c’è stata. Non c’è stato un solo telegiornale che abbia speso due parole sulla vicenda. In quel periodo forse si discuteva sul Lodo Alfano, oppure sulla riforma della giustizia… Non so dirti se questo fenomeno di totale silenzio sia stato voluto oppure no. Non so se potesse far comodo ad una parte politica o ad entrambe. Tutte le aziende in un lasso di tempo ristretto hanno la possibilità di vedere che pochi lavoratori gli fanno causa, pochi rispetto alla totalità di coloro che potrebbero rivendicare i propri diritti ma invece non hanno potuto farlo. Molti non hanno saputo di avere questo diritto, oppure non erano in grado di pagarsi un avvocato. Da parte del lavoratore c’è una grosso pregiudizio, ovvero quello di non poter fare più ricorso alla Magistratura del Lavoro se, entro i 60 giorni dalla scadenza del rapporto a termine, non si è fatto pervenire una lettera all’azienda con la quale si è impugnato e contestato il contratto e l’illegittima apposizione del termine, chiedendo al contempo la conversione di quel rapporto a tempo indeterminato.
Come già anticipato le motivazioni per impugnare i contratti a termine possono essere molteplici. Ad esempio, affinché un contratto a tempo determinato stipulato in virtù del D.Lgs. 368/01 sia legittimo, nel medesimo deve essere indicata la causale di assunzione in maniera specifica. Ci deve essere un motivo oggettivo che sia verificabile già al momento dell’instaurazione del rapporto rispetto ad una ragione effettiva che ha determinato l’assunzione, come ad esempio un’esigenza 4 organizzativa, produttiva, sostitutiva, ove però il motivo utilizzato non sia una mera formula di stile ma una ragione precisamente individuata. Ciò anche in considerazione della rilevante circostanza che nel nostro ordinamento il legislatore, proprio nel 2007, ha espressamente introdotto una norma secondo cui il contratto di lavoro di natura subordinata è di regola stipulato a tempo indeterminato. Quindi il rapporto di lavoro a tempo determinato, come già in precedenza indicato anche dal legislatore Europeo mediante alcune direttive comunitarie del 1990, deve essere l’eccezione e non la regola, ed è per questo che le ragioni poste alla base dell’assunzione devono essere specificate puntualmente, ciò al fine di evitare facili abusi e deviazioni dal modello legale tipico, ovvero il rapporto a tempo indeterminato. Anche nelle altre tipologie di contratti a termine, come ad esempio il contratto di lavoro somministrato (che nel 2003, con l’introduzione della cosiddetta legge Biagi, ha sostituito il lavoro interinale), ci sono delle ragioni per cui tali rapporti possono essere considerati illegittimi e/o irregolari.. In alcuni contratti, come ad esempio in quello cosiddetto interinale (ormai abrogato) e di lavoro somministrato, il lavoratore non ha il rapporto direttamente con l’utilizzatore, ma con l’agenzia di fornitura di manodopera. C’è un rapporto trilaterale tra le parti, ove il lavoratore presta servizio presso un terzo soggetto, mediante la stipulazione di un contratto a monte tra l’Agenzia interinale e/o di somministrazione ed il datore di lavoro che effettivamente utilizza la prestazione del lavoratore, cosiddetto soggetto utilizzatore. Esistono delle ragioni per cui i contratti tra il soggetto e l’agenzia di fornitura di manodopera possono considerarsi irregolari e/o illegittimi, tra cui la causale che non è oggettiva o la mancanza di reali esigenze temporanee. Oppure il caso in cui potrebbe mancare a monte il contratto di somministrazione tra l’utilizzatore e l’Agenzia di interinale e/o di somministrazione che, appunto, giuridicamente autorizza la prestazione dei lavoratori. Altro motivo di illegittimità e/o irregolarità del rapporto di somministrazione potrebbe rinvenirsi nella mancata effettuazione della valutazione dei rischi sulla sicurezza dei luoghi di lavoro da parte della società utilizzatrice. Vi sono numerose sentenze che hanno accertato l’illegittimità e/o irregolarità dei contratti di somministrazione per una delle ragioni sopra individuate.
Non si può pretendere che il lavoratore possa conoscere a priori le eventuali ragioni di illegittimità e/o irregolarità di un rapporto a tempo determinato, sia che esso sia un contratto a tempo determinato e/o un contratto di somministrazione, interinale oppure a progetto. Per quanto riguarda poi i contratti a termine scaduti prima del 24 novembre 2010, di certo non è stato facile per il lavoratore prendere decisioni entro 60 giorni, dove in questo termine, nel periodo compreso tra il 23 dicembre al 7 gennaio, ci sono state di mezzo anche le festività natalizie. 5 I primi manifesti affissi per le strade di Roma li ho visti dopo il 10 gennaio 2011. Non so se è stata una casualità la scelta del periodo. La posta in gioco è elevata e chi ci può rimettere più di tutti è il lavoratore, mentre l’azienda ottiene un grande vantaggio. Se le imprese hanno fatto per anni e anni abuso di formule contrattuali a tempo determinato, nel momento in cui il legislatore emana una normativa che disciplina l’impugnativa dei contratti a termine, che in concreto risulta essere un vero e proprio “condono” sul precariato, è necessario garantire un termine più lungo rispetto a quello di 60 giorni, ciò al fine di consentire un’effettiva divulgazione di una così rilevante modifica, altrimenti vi è un’elevata probabilità che siano pochi i lavoratori che siano venuti a conoscenza di tale effetto estintivo delle loro legittime rivendicazioni ed aspirazioni.
Chi ci guadagna è di sicuro il datore di lavoro che, in caso di mancata impugnativa dei contratti a termine entro 60 giorni, che appunto non consente l’instaurazione di una causa, potrà così evitare il rischio di una possibile soccombenza in un giudizio in cui, in caso di esito positivo per il lavoratore, l’azienda verrebbe condannata a riassumere il prestatore a tempo indeterminato ed a versagli o tutte le retribuzioni medio tempore maturate dal momento della cessazione del rapporto o dalla lettera di impugnativa del contratto (con la quale si sono offerte le prestazioni lavorative per riprendere servizio), oppure l’odierno indennizzo così come quantificato dal legislatore in una forbice compresa dalle 2,5 alle 12 mensilità della retribuzione globale di fatto. Il legislatore ha concentrato in un lasso di tempo breve, a cavallo tra Natale e Capodanno, la possibilità di fare la lettera d’impugnativa, e poi ha ridotto di molto il livello risarcitorio dell’indennizzo. Successivamente il legislatore, probabilmente resosi conto di aver determinato, con tale nuova disposizione, un grave pregiudizio per i lavoratori, ha emanato una nuova norma (mediante il cosiddetto decreto Milleproroghe), che, ad una prima interpretazione, sembrerebbe aver “congelato” e/o prorogato i termini di impugnativa di tutte le tipologie a termine cessate prima del 24 novembre 2011, procrastinando i medesimi fino alla data del 31.12.2011. Tuttavia, ad oggi ancora non è chiaro se il termine della legge (dopo il decreto Milleproroghe), prorogato fino al 31 dicembre 2011, valga per chi non ha impugnato i contratti fino al 24 gennaio, o solo per chi entro quest’anno gli scade il contratto.
La norma, in ogni caso, così come attualmente formulata (e ciò a prescindere dal decreto Milleproroghe) prevede che il lavoratore da oggi in poi, per i contratti stipulati dopo il 24 gennaio 2011, ha solo 60 giorni di tempo per impugnare un contratto a termine (di somministrazione, interinale, a progetto). E’ su questo punto che si gioca principalmente la partita. Un’azienda, in prossimità della scadenza di un contratto a termine, potrebbe promettere al lavoratore una riassunzione dopo 3 mesi; ciò 6 implica una rinuncia implicita all’impugnazione del contratto scaduto. E’ ovvio che il lavoratore, vista la promessa di un nuovo contratto, si guarderà bene dall’impugnare quello scaduto, perché in tal caso l’azienda non lo ricontatterà per un altro successivo contratto, anche se a tempo determinato. Se poi però il lavoratore non verrà riassunto entro 60 giorni dal quel contratto a termine scaduto, e in tale lasso di tempo il medesimo non ha impugnato il contratto, il gioco è fatto perché il lavoratore non potrà più vantare i propri diritti in giudizio nei confronti dell’azienda, essendo i termini ormai scaduti. La questione presenta rilevanti problematiche di natura economica per le società in quanto, fino all’entrata in vigore del collegato lavoro, la giurisprudenza si è sempre orientata nel convertire il rapporto a tempo determinato la cui esecuzione e/o la clausola che giustificava l’assunzione era priva delle connotazioni sopra indicate (riconoscendo peraltro l’anzianità fatta valere in giudizio sin dalla stipula del contratto a termine), condannando inoltre la società al risarcimento del danno parametrato su tutte le retribuzioni perse e maturate dal lavoratore dal momento della cessazione del rapporto oppure dalla lettera di messa in mora in cui si sono offerte le energie lavorative. Tale risultato si poteva ottenere spedendo al datore una lettera raccomandata con cui il lavoratore rivendicava quanto segue “Caro datore di lavoro per me questi contratti e le loro clausole di apposizione del termine sono illegittimi, mi devi riassumere e offro tutte le mie energie per essere riammesso in servizio”. La parte finale di questa frase, fino all’entrata in vigore della nuova legge 183/2010, consentiva alla Magistratura, da una parte, di convertire il rapporto di lavoro a tempo determinato in uno a tempo indeterminato (se le causali erano ritenute illegittime o viziate) e, dall’altra, di porre in essere una formula risarcitoria o retributiva. Oggi non è più così. Ed infatti, con la nuova legge 183/2010, in caso di accoglimento del ricorso proposto innanzi al Tribunale, con il quale si sia rivendicato l’illegittimità di un rapporto a termine, al lavoratore verrà riconosciuto solo un indennizzo (e non più le retribuzioni medio tempre perdute), compreso tra le 2,5 alle 12 mensilità della retribuzione globale di fatto. Alcuni giuslavoristi ritengono che tale formula indennitaria prevista dall’articolo 32 della L. 183/2010, non sia in realtà sostitutiva delle retribuzione dovute a causa dell’illegittima risoluzione del rapporto, ma aggiuntiva rispetto a tali retribuzioni. Tuttavia, le prime sentenze che hanno deciso sul punto non hanno ritenuto di aderire a tale interpretazione. Il tipo di indennizzo previsto dalla legge 183/2010 appare, tuttavia, in contrasto rispetti agli ordinari principi di diritto comune applicati per altre formule contrattuali del diritto civile. Ed infatti, se ti metto in mora e ti dico che voglio rientrare in azienda, ci sono dei principi civilistici da applicare. 7 Mentre per qualsiasi altra formula contrattuale nel momento in cui il debitore è in mora viene condannato ad un risarcimento dal momento in cui risulta inadempiente (ovvero, per quanto riguarda i contratti a termine, dalla messa in mora e dalla offerta di energie lavorative), invece, nel caso dei lavoratori a tempo determinato, il legislatore ha ridotto la forbice di tale risarcimento dovuto a titolo di retribuzioni, disattendendo così quella che sino ad oggi era stato l’interpretazione maggioritaria della giurisprudenza.
Non sono più dovute tutte le retribuzioni a titolo di risarcimento ma solo un mero indennizzo, con l’ulteriore conseguenza che, in tal modo si addossa il peso delle lunghezza del processo sul lavoratore. Il lavoratore conseguentemente, se nel frattempo in cui viene definita la causa non ha reperito altra occupazione, si vedrà quindi erogare, in caso di esito positivo del giudizio, solo un indennizzo e non tutte le retribuzioni a cui il medesimo avrebbe avuto diritto (secondo il precedente indirizzo giurisprudenziale), quanto meno da quando ha messo in mora il datore di lavoro, offrendo le proprie energie lavorative per essere richiamato in servizio. Su tale indennizzo c’è un’ulteriore questione da segnalare. L’entità dello stesso può essere ridotta della metà se si sono fatti accordi sindacali, come espressamente stabilito dal comma 6, dell’articolo 32 della legge n. 183/2010. Nello specifico si fa riferimento ad “accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazione sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 (indennizzo compreso tra le 2,5 e le 12 mensilità) è ridotto alla metà”. Un lavoratore che è stato assunto con un contratto a termine illegittimo, che ti ha messo in mora, che ti ha offerto le prestazioni e che non è stato impiegato per 6 mesi - 1 anno, in questo modo si sobbarca praticamente il costo della propria inoccupazione quasi interamente, in quanto se l’azienda ha posto in essere accordi sindacali viene ridotta al minimo l’entità dell’indennizzo. Con tale ultima formula indennitaria vi è un evidente vantaggio per quelle grandi società che spesso maggiormente hanno abusato delle formule contrattuali precarie e che, paradossalmente, in questo modo ottengono una notevole riduzione dell’indennizzo dovuto. Uno “sconto” sul precariato veramente incomprensibile. Le cause sui contratti a termine durano mediamente da un anno ad un anno e mezzo ed il tempo che il lavoratore non viene impiegato, è tutto a suo carico. Ogni azienda aspetta che il lavoratore le faccia causa ed il massimo del rischio che può correre, se si sono fatti accordi sindacali, è che si 8 trovi a dover pagare 3-4 mensilità. In questo caso l’azienda ottiene un notevole vantaggio economico. I giudici di merito e di legittimità hanno recentemente sollevato una questione di legittimità costituzionale alla Corte Costituzionale sul tema del nuovo indennizzo. Ciò sia con riferimento alla problematica se sia o meno legittimo tale risarcimento omnicomprensivo stabilito tra le 2,5 e le 12 mensilità, sia sulla controversa interpretazione sull’applicazione del medesimo nei diversi grado di giudizio e sull’effetto retroattivo di tale disposizione.
In particolare, è oggetto di quesito alla Corte Costituzionale anche il seguente interrogativo: se la nuova norma che disciplina l’indennizzo debba applicarsi solo ai giudizi di primo grado (e quindi non ancora definiti al momento in cui è entrata in vigore la norma) od anche a quelli già definiti in primo grado e pendenti in Corte di Appello e Cassazione, essendoci il rischio che un lavoratore, il quale abbia ottenuto la conversione del rapporto a tempo indeterminato, debba restituire quanto quantificato dalle sentenze che, da sempre (per le ragioni sopra riferite), hanno adottato un criterio risarcitorio basato appunto sulla condanna del datore di lavoro al pagamento di tutte le retribuzioni maturate dalla cessazione del rapporto a termine dichiarato illegittimo o dalla messa in mora da parte del lavoratore che ha offerto le proprie energie lavorative per essere riassunto. Molti di essi aspetteranno il verdetto. Alcuni giudici stanno decidendo solo sul merito, ovvero se un contratto a termine sia legittimo o illegittimo, aspettando l’esito della sentenza della Corte Costituzionale per pronunciarsi sull’indennizzo da dare ai lavoratori. C’è chi formalmente si attesta alla norma (con indennizzo compreso tra le 2,5 e le 12 mensilità), c’è chi sostiene che la nuova legge valga solo per i nuovi contratti a tempo determinato (ex decreto legislativo n.368/2001) e non per altre tipologie a termine, come la somministrazione, il lavoro interinale ed il contratto di collaborazione a progetto. Ci sono poi quelli che applicano la norma in senso lato a tutte le forme contrattuali a tempo determinato. Ce n’è un’altra tipologia di giudici, che aspettano la pronuncia della Corte Costituzionale. C’è poi un ulteriore aspetto che va vagliato. Cioè, se il termine dei 60 giorni sia o meno congruo. La norma è stata mediata su quella prevista in caso di licenziamento. Con la lettera di licenziamento il rapporto di lavoro è risolto definitivamente (giusta causa, motivo organizzativo dell’azienda). Con il contratto a termine il termine dei 60 giorni appare poco congruo, perché il datore di lavoro diventa il fiduciario forzato del lavoratore. C’è la consapevolezza, per il lavoratore, che se impugnerà il contratto, l’azienda potrebbe non richiamarlo più per un impiego futuro. Questo consente al datore di lavoro di continuare ad utilizzare il precariato. Anzi, diverrà un precariato legalizzato, soprattutto in un momento in cui il mercato del lavoro presenta numerose difficoltà. 9 Potrebbe diventare una forma di ricatto delle aziende verso i lavoratori. Se il lavoratore non impugna la legittimità del contratto a termine entro i 60 giorni, quel contratto, anche se illegittimo, non potrà più essere impugnato ed il lavoratore avrà perso i suoi diritti. Nessuno finora ha sollevato una questione di illegittimità costituzionale per dire che il termine è troppo breve.
Questo tipo di riforma non è stato di certo a favore dei lavoratori e non vedo elementi positivi in questo provvedimento. Da una parte, è stato fatto il condono per il pregresso e, dell’altra, è stato ristretto di molto il termine per impugnare il contratto. I contratti fatti dopo il 24 gennaio, anche nella migliore delle ipotesi, con una scadenza precisa, potranno essere impugnati entro i 60 giorni. Per il futuro sarà sempre più rara l’ipotesi di una lavoratore che faccia causa all’azienda, che impugni un contratto. In conclusione, si può affermare che comunque, al di là della nuova legge 183/2010, nel nostro ordinamento vige ancora il principio fondamentale, di provenienza comunitaria e recepito dal nostro legislatore nel 2007, per cui il contratto del lavoratore di regola debba essere fatto a tempo indeterminato. Se la regola è questa, vuol dire che ogni tipologia a tempo determinato dovrebbe rappresentare un’eccezione e, in quanto tale, dovrebbe essere posta in essere solo se esistono ragioni effettive ed oggettive che la legittimano, le uniche che consentano di deviare dal modello legale tipico. Fin quando vigerà tale principio nel nostro ordinamento, sarà sempre possibile sanzionare l’abuso di tipologie contrattuali di tipo precario, ove nella maggior parte dei casi occorre, tuttavia, un’inevitabile supplenza della magistratura per una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme poste alla base di diritti primari e fondamentali come il lavoro