La Suprema Corte batte un secondo colpo: situazione di handicap, conoscibilità del datore, discriminazione indiretta e nullità del licenziamento per superamento del comporto.

Errata corrige 27 DIC 2023

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza del 21.12.23 n. 35747, consolida il precedente orientamento di Cass. n. 9095 del 31.3.95 (i cui principi sono stato richiamati espressamente nella motivazione) relativo alla nullità del licenziamento per superamento del comporto dovuto a patologie che, alla stregua della Direttiva 2000/78 e dell’elaborazione delle sentenze della Corte di Giustizia, rientrano in una nozione di disabilità/handicap. 

 

La pronuncia di legittimità riguardava un caso analogo a quello trattato di Cass. n. 9095/23.

In particolare, nel caso di specie, la Corte di Appello di Milano aveva accertato che la gravità delle plurime patologie di cui il lavoratore risultava cronicamente affetto (ipovisus per retinite pigmentosa, cardiopatia ipertensiva, insufficienza renale cronica, sindrome di Klinefelter) “implicassero in modo stabile, duraturo e tendenzialmente ingravescente quanto meno una difficoltà nell'esercizio della sua attività lavorativa (del resto coerentemente con un grado di accertata invalidità civile pari all'85%), oltre che la necessità di fruire di ricorrenti periodi di cura e riposo”.

 

In punto di diritto, si segnala che la decisione di legittimità in commento, con riferimento alla rilevanza oggettiva della discriminazione, ha puntualmente osservato - quanto alla conoscenza dei motivi delle assenze del lavoratore da parte del datore - che lo stato di disabilità del lavoratore fosse un dato conosciuto dal medesimo per “essersi egli difeso nel giudizio sostenendo di aver sempre adibito il lavoratore a mansioni compatibili con il suo stato di salute (pag. 13, rigo 18 della sentenza)”. 

 

Per i giudici di legittimità tale circostanza comprova che il datore di lavoro fosse a conoscenza sia della situazione di assenza ripetuta del lavoratore per malattia, sia della sua condizione di disabilità (e pertanto il suo rischio di assentarsi maggiormente dal lavoro per morbilità). Fatti questi, afferma la Corte, “certi, specifici e obiettivamente verificabili in virtù dei quali si può dunque ragionevolmente affermare - contrariamente a quanto si sostiene reiteratamente nei motivi di ricorso - che il medesimo datore di lavoro potesse senz’altro prevedere, attraverso una valutazione combinata di entrambe le circostanze, che la condizione di disabilità del lavoratore si ponesse, come probabile fattore causale, all'origine delle assenze dal lavoro di cui si discute; sicché il datore, in base a diligenza e buona fede, fosse pure tenuto ad agire sul piano della disciplina del rapporto ed organizzativo - anche attraverso "soluzioni ragionevoli" - per neutralizzarne o ridimensionarne la portata ai fini del computo del comporto del lavoratore disabile, evitando così che si producesse il risultato discriminatorio vietato di cui si è discusso nella causa”. 

 

In ogni caso, anche Cass. n. 35747/23 conferma il principio, già espresso da Cass n. 9095/23, per cui la discriminazione opera in modo oggettivo ed è irrilevante l’intento soggettivo dell’autore. Non è dunque decisivo, a parere della Cassazione, l’assunto datoriale di non essere stato messo a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, visto che i certificati medici delle assenze inoltrati al datore di lavoro non indicavano la specifica malattia a causa dell'assenza.

La discriminazione, diversamente dal motivo illecito, osservano sul punto i giudici di legittimità, opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro (Cass. n. 6575/2016).

 

Con riferimento poi alla ripartizione degli oneri probatori nei giudizi antidiscriminatori, i giudici di legittimità rilevano che i criteri non sono quelli dei canoni ordinari di cui all’art. 2729 c.c., bensì quelli speciali di cui al D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 4 che “non stabiliscono tanto un’inversione dell’onere probatorio, quanto, piuttosto, un’agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente, prevedendo una "presunzione" di discriminazione indiretta per l’ipotesi in cui abbia difficoltà a dimostrare l’esistenza degli atti discriminatori; ne consegue che il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di lavoro le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta (Cass. n. 1/2020; cfr. anche, in tema di discriminazione indiretta nei confronti di persone con disabilità, Cass. n. 9870/2022).

 

La Suprema Corte, in ragione di tali evidenze, richiama il principio di diritto della sentenza n. 9095/2023 secondo cui: “In tema di licenziamento, costituisce discriminazione indiretta l'applicazione dell'ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio. (Principio affermato in relazione al periodo di comporto previsto dall'art. 42, lett. b), del c.c.n.l. Federambiente del 17 giugno 2011)”.

 

La Cassazione conferma così le statuizioni della Corte di Appello di Milano secondo cui l’applicazione al lavoratore dell'ordinario periodo di comporto ha rappresentato, discriminazione indiretta. Ciò perché, rispetto a un lavoratore non disabile, il lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, e quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e di raggiungere i limiti massimi di cui alla normativa pertinente.