Il Tribunale di Roma, con sentenza del 20 giugno 2017, ha condannato la Telecom Italia S.p.A. a risarcire una lavoratrice per una somma pari a 64.000 euro, ordinando inoltre alla società di adibire la dipendente a mansioni riconducibili al livello V di appartenenza.
La ricorrente, infatti, inquadrata contrattualmente al V livello del CCNL Telecomunicazioni, aveva iniziato un contenzioso contro il datore di lavoro volto ad ottenere l’accertamento della illegittimità del demansionamento professionale subito per aver svolto mansioni inferiori dalla fine del 2012 in poi. La lavoratrice, infatti, era stata adibita al settore DAC, ex CSA, settore divenuto noto per i numerosissimi contenziosi del lavoro che lo hanno interessato negli ultimi anni, tanto da essere stato definito dalla giurisprudenza “reparto ghetto” (per approfondimenti sul punto si veda Trib. di Roma Sent. n. 10918/2014, nella sezione “Le nostre cause” del presente sito web). Nell’ambito di tale settore la ricorrente aveva richiesto il riconoscimento dei danni patiti dal suddetto demansionamento e, conseguentemente, di ordinare alla società l’adibizione a mansioni riconducibili al livello inquadramentale di appartenenza.
Il giudice, valutate le testimonianze e le prove documentali prodotte in giudizio dalla dipendente, ha accertato che le attività svolte dalla medesima erano tipiche del III o, al massimo, del IV livello del CCNL, accertando quindi una grave dequalificazione professionale per un periodo di oltre quattro anni e mezzo.
Il giudice, in particolare, ha riconosciuto, da una parte, l’esistenza di un danno professionale per “L’impossibilità di continuare ad utilizzare ed implementare il proprio patrimonio di conoscenze professionali acquisito…per essere stata adibita ad attività che non comportavano l’esercizio di conoscenze specialistiche di elevata tecnicalità, e che dovevano essere espletate secondo procedure automatizzate e standardizzate, senza richiedere pertanto l’esplicazione di alcuna autonomia e iniziativa…”, dall’altra, la sussistenza di un danno morale poiché “Dalla mancata adibizione della ricorrente a mansioni proprie della qualifica può ritenersi derivata, oltre che il predetto depauperamento professionale, anche una lesione alla propria personalità e dignità essendogli stato impedito lo svolgimento di un’attività lavorativa confacente alla propria professionalità, capacità e attitudini, in violazione di altro bene costituzionalmente rilevante quale il diritto del lavoro”.
In merito alla rilevante entità del danno in favore della lavoratrice, deve evidenziarsi come il Tribunale di Roma abbia considerato da un lato, il danno materiale alla professionalità quantificato, in ragione della gravità e del suo protrarsi per circa cinque anni, nel 35% della retribuzione mensile della dipendente per tutti i mesi oggetto di dequalificazione, per una somma complessiva di 44.000 euro; dall’altro, il danno morale quantificato in via equitativa in 20.000 euro.