Causa patrocinata dallo Studio Legale Salvagni
Con sentenza del 28 febbraio 2019, n. 360, il Tribunale di Velletri, sezione Lavoro, in accoglimento del ricorso promosso da una lavoratrice nei confronti delle due datrici di lavoro succedutesi nella gestione del medesimo appalto presso cui la stessa era addetta, ha dichiarato l’illegittimità della decurtazione della retribuzione subita dalla ricorrente e ha condannato le società a corrisponderle una somma complessiva pari ad € 20.000,00 ca. a titolo di differenze retributive.
Inoltre, il giudice ha dichiarato la nullità del licenziamento intimato alla lavoratrice, giacché connotato da natura ritorsiva; pertanto ha disposto la reintegrazione della ricorrente nel proprio posto di lavoro e ha condannato l’ultima datrice di lavoro a corrisponderle un’ulteriore somma liquidata in misura pari alle retribuzioni maturate medio tempore, dalla data del licenziamento dell’1.2.2018 e sino all’effettiva reintegra.
Procedendo con ordine, quanto alla prima questione affrontata dalla sentenza in commento e relativa alle somme rivendicate dalla lavoratrice a titolo di differenze retributive, il Tribunale ha accertato che la retribuzione percepita per il periodo ricompreso tra dicembre 2015 e febbraio 2018 era di gran lunga inferiore rispetto a quella stabilita in sede di contrattazione collettiva; pertanto, previo riconoscimento di un trasferimento d’azienda di cui all’art. 2112 c.c. intervenuto tra le società convenute, ha disposto la condanna di queste ultime, in solido tra loro, al pagamento delle differenze retributive spettanti alla lavoratrice in base all’applicazione del CCNL Telecomunicazioni e Multiservizi.
Inoltre, in ordine all’impugnazione del licenziamento intimato alla lavoratrice per presunto giustificato motivo oggettivo, il giudice ha rilevato l’insussistenza dello stesso, riconoscendo, al contrario, la natura ritorsiva connotante il recesso; infatti, all’esito dell’istruttoria testimoniale espletata, ha accertato la vessatorietà delle condotte – poi culminate nell’atto di recesso datoriale – cui la ricorrente era stata sottoposta ad opera della società convenuta dopo che la stessa si era rifiutata di sottoscrivere (l’ennesimo) verbale di conciliazione e rinuncia nei confronti dei precedenti datori di lavoro.
Pertanto, il Tribunale, nell’accogliere integralmente la tesi difensiva sostenuta dallo studio legale Salvagni, ha riconosciuto la nullità del recesso, condannando il datore di lavoro a reintegrare la dipendente e a corrisponderle una somma liquidata in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento dell’1.2.2018 e sino all’effettiva reintegra.
Causa patrocinata dallo Studio Legale Salvagni
Con sentenza del 7.1.2019, n. 8565, il Tribunale di Roma, in accoglimento del ricorso promosso da una dirigente nei confronti di Assicurazioni Generali, ha accertato l’illegittimità del licenziamento intimato nei confronti della lavoratrice in assenza di qualsivoglia giusta causa e ha condannato l’azienda a corrisponderle una somma pari ad € 1.073,577,00, a titolo di risarcimento del danno.
In particolare, il giudice del lavoro, nel disattendere le difese articolate dalle Assicurazioni Generali a sostegno delle molteplici contestazioni disciplinari elevate a carico della dirigente e sfociate nel successivo provvedimento di licenziamento intimatole, ha accertato che non vi fossero “apprezzabili motivi per i quali si debba ritenere che le condotte tenute dalla ricorrente ed oggetto di contestazione disciplinare abbiano turbato il legame di fiducia con parte datoriale”.
Pertanto, il Tribunale di Roma ha dichiarato l’illegittimità del recesso datoriale e, in applicazione del CCNL dirigenti imprese assicuratrici applicabile al caso di specie, ha condannato Assicurazioni generali al pagamento, in favore della dirigente assistita dallo studio legale Salvagni, di una somma corrispondente all’indennità supplementare ivi prevista e pari a 48 mensilità della retribuzione percepita, per un importo pari ad € 858,861,60 liquidato a titolo di risarcimento del danno subito.
Inoltre, il giudice ha condannato parte datoriale a corrispondere alla lavoratrice finanche l’ulteriore somma di € 214,715,00 a titolo di indennità di mancato preavviso, prevista al citato CCNL in misura pari 12 mensilità della retribuzione corrisposta alla lavoratrice in costanza di rapporto di lavoro.
Causa patrocinata dallo Studio Legale Salvagni
Con sentenza del 5 febbraio 2019, n. 1073, Il Tribunale di Roma ha rigettato l’opposizione proposto da Almaviva Contact S.p.a. avverso l’ordinanza che, resa all’esito della precedente fase sommaria, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato nei confronti di un lavoratore assistito dallo studio legale Salvagni nell’ambito dell’ormai nota procedura di licenziamento collettivo che ha coinvolto i lavoratori addetti presso il call center di Roma.
In particolare, il giudice del lavoro, pur riconoscendo l’insindacabilità della scelta di chiudere la sede operativa di Roma, ha vagliato la legittimità della scelta operata da Almaviva e relativa alla (illegittima) circoscrizione degli esuberi, effettuata in assenza della dovuta comparazione dei lavoratori addetti presso la sede di Roma (destinata alla chiusura) con quelli impiegati presso l’intero complesso aziendale.
Sul punto, il Tribunale, nel riconoscere la fungibilità delle mansioni espletate dal ricorrente con quelle dei lavoratori di call center addetti presso le ulteriori sedi Almaviva di Rende, Catania e Palermo, ha disatteso le difese articolate dalla società e, all’esito dell’istruttoria espletata, ha escluso che, nel caso di specie, sussistessero motivi di carattere oggettivo e di natura tecnico-organizzativo legittimanti la mancata comparazione dei lavoratori.
In particolare, il giudice ha rilevato la contraddittorietà delle difese articolate da Almaviva, giacché l’adempimento dell’obbligo di comparazione imposto dalla legge, al contrario di quanto sostenuto dalla società, non avrebbe comportato, nel caso di specie, alcun costo eccessivamente oneroso e/o incompatibile con il giustificato motivo oggettivo posto a fondamento della procedura collettiva.
Pertanto, il Tribunale ha affermato che: “le ragioni oggettive specificate nella lettera di apertura della procedura inerenti il risparmio dei necessari costi/tempi di formazione, le scarse performance per mesi dei neoaddetti a commessa, il beneplacito della cliente allo spostamento delle commesse/utilizzo di nuovi addetti, nonché costi e tempi relativi all’apertura di nuove utenze non costituivano, per come emerso dalla compiuta istruttoria, esigenze organizzative aziendali che ragionevolmente possano essere ritenute idonee a delimitare il parterre del licenziandi alla sede di Roma”.
Inoltre, il giudice del lavoro ha ritenuto infondato anche il secondo argomento difensivo speso dalla società secondo cui l’eccessiva distanza geografica tra le sedi oggetto di comparazione e l’eventuale trasferimento dei lavoratori presso dette sedi avrebbe comportato “tempi di attuazione e modifiche organizzative talmente complesse da compromettere il regolare svolgimento dei servizi”.
Pertanto, il Tribunale ha rigettato l’opposizione proposta da Almaviva e ha confermato, seppur con diversa motivazione, il dispositivo dell’ordinanza che, nel novembre scorso, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato nei confronti del lavoratore assistito dallo Studio Legale Salvagni, reintegrando il ricorrente nel proprio posto di lavoro.
Causa patrocinata dallo Studio Legale Salvagni
Con ordinanza del 16 gennaio 2019, n. 965, il Tribunale di Velletri, sezione Lavoro, in accoglimento del ricorso promosso da una lavoratrice nei confronti Manpower S.r.l., ha dichiarato la nullità del licenziamento intimatole per presunto giustificato motivo oggettivo, giacché connotato, in realtà, da natura discriminatoria; conseguentemente, il giudice ha condannato il datore di lavoro a reintegrare la ricorrente nel proprio posto di lavoro, nonché al pagamento integrale delle retribuzioni maturate medio tempore, dalla data del licenziamento a quella di effettiva reintegrazione, oltre al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
In particolare, il Tribunale ha rilevato che la società resistente, in qualità di impresa dedita all’attività di intermediazione di lavoro, ha disatteso la procedura prevista dall’art. 25 del CCNL di settore, il quale, all’esito delle singole missioni, impone al datore di lavoro di provvedere, attraverso tentativi concreti e realmente apprezzabili, di ricollocare il personale somministrato e reperire ulteriori opportunità di impiego dello stesso.
E infatti, la Manpower S.r.l. si era limitata, nel caso di specie, a svolgere un solo tentativo di ricollocamento della ricorrente, in quanto tale ritenuto insufficiente dal Tribunale anche alla stregua delle molteplici occasioni di impiego che, invero, risultavano esistenti e del tutto compatibili con il profilo professionale della lavoratrice.
Pertanto, il Tribunale ha ritenuto che il licenziamento intimato nei confronti della ricorrente, motivato in ragione dell’asserita insussistenza di missioni cui adibire la lavoratrice e della conseguente impossibilità di ricollocarla, fosse destituito di ogni fondamento e privo del presunto giustificato motivo oggettivo addotto dalla società a fondamento del recesso.
Tanto premesso, il giudice del lavoro ha affrontato il profilo discriminatorio del recesso, denunciato dalla lavoratrice assistita dallo studio legale Salvagni e, sul punto, ha affermato che lo stato di maternità della lavoratrice “costituisce elemento idoneo a far ritenere che la [ricorrente] non sia stata ricollocata perché donna in età fertile, con prole inferiore ad anni cinque, e che questo sia stato l’unico motivo di licenziamento”.
Pertanto, il giudice ha dichiarato la nullità del licenziamento, condannando il datore di lavoro a ricollocare la dipendente nel posto di lavoro precedentemente occupato, nonché al pagamento di tutte le retribuzioni spettanti alla lavoratrice.