Articolo di Michelangelo Salvagni
pubblicato su www.csdnroma.it
CORTE DI APPELLO DI ROMA – Sentenza del 1° febbraio 2018, n. 469 - (Pres., Rel. dott. G. Pascarella), S. S.R.L. (avv.ti Giovanni Beatrice e Giampaolo Marrazzo ) c./ A.R. (avv. Carlo Alessandrini e Loredana Di Folco).
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – manifesta insussistenza del fatto – obbligo di repechâge datore di lavoro – obbligo di repechâge integrato nella fattispecie del g.m.o. – reintegra del lavoratore
L’impossibilità di ricollocare il lavoratore all’interno della compagine aziendale integra uno degli elementi costitutivi della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sicché, qualora il datore di lavoro ometta di fornire la prova, trova applicazione la c.d. tutela reale attenuata introdotta dalla l. n. 92/2012 e prevista in ipotesi di “manifesta infondatezza del fatto” posto a fondamento del recesso datoriale.
L’evoluzione giurisprudenziale in tema di dovere datoriale di repêchage è passata da un risalente orientamento più rigido, che prevedeva tale obbligo solo per mansioni equivalenti (sul punto si vedano, ex multis,: Cass., 10.3.1992, n. 2881, e, in senso conforme, Cass., 3.6.1994, n. 5401, nonché Cass., 27.11.1996, n. 10527 e Cass., 14.12.2002, n. 17928, tutte consultabili su www.dejure.it.), ad uno invece più flessibile, secondo cui era possibile derogare al divieto di adibizione a mansioni inferiori sul presupposto che fosse prevalente l’interesse del dipendente al mantenimento del posto di lavoro. L’obbligo di repêchage, la cui teorizzazione va ricollegata al concetto del licenziamento quale extrema ratio, risale a elaborazioni dottrinali sviluppate degli anni ’70 (fautore della tesi dell’obbligo di repêchage è F. Mancini, in Commento all’art. 18, Commentario allo Statuto dei diritti dei lavoratori, Bologna, 1972), ma ha trovato terreno fertile nella successiva interpretazione giurisprudenziale che, nel tempo, ha tentato di delineare quale fosse il campo di delimitazione delle scelte imprenditoriali tenendo conto del necessario bilanciamento dei contrapposti interessi costituzionalmente garantiti per la tutela del lavoro e per quella dell’impresa (artt. 4 e 41 della Cost.). L’obbligo di ricollocazione rappresenta lo strumento di ulteriore verifica della correttezza delle scelte imprenditoriali; viene così posto a carico del datore di lavoro che irroga il licenziamento per giustificato motivo oggettivo il dovere di collocare il lavoratore, altrimenti licenziato, in una diversa e proficua posizione all’interno dell’azienda.
Nel tempo, la dottrina si è divisa sulla rilevanza del repêchage quale presupposto della legittimità del recesso. La tematica sulla quale si sono incentrate le discussioni degli autori è se la violazione di tale onere comporti o meno la legittimità del recesso (in merito punto si segnala in dottrina F. Scarpelli, La nozione e il controllo del giudice, in I licenziamenti collettivi, Quad. dir. lav. rel. ind., 1997, 19, 29 e ss.. Si veda anche U. Carabelli, I licenziamenti per riduzione di personale in Italia, in AA.VV., I licenziamenti per riduzione del personale in Europa, Bari, 2001, 217, secondo cui il repêchage rientra nella fattispecie costitutiva del recesso per giustificato motivo oggettivo la cui violazione comporta l’illegittimità del recesso. Di avviso contrario, L. Nogler, La disciplina dei licenziamenti individuali nell'epoca del bilanciamento tra i principi costituzionali, in Dir. rel. ind., 2007, 29, 648 e ss..).
Tale problematica ha avuto ulteriori motivi di riflessione a seguito della L. 28 giugno 2012, n. 92 che, modificando il regime sanzionatorio applicabile in caso di licenziamento illegittimo, ha creato non pochi dubbi interpretativi sulla definizione di «manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento» che dà accesso alla tutela reale. In particolar modo, la dottrina e la giurisprudenza si sono domandate se la violazione dell’obbligo di repêchage rientri o meno nella <<manifesta insussistenza del fatto>> e comporti, in caso di sua inosservanza, la tutela reintegratoria. Secondo parte della dottrina, l’obbligo di repêchage non rientra tra gli elementi costitutivi della fattispecie del giustificato motivo oggettivo comportando, in caso di violazione dello stesso, non la reintegrazione del lavoratore, ma solo la sanzione indennitaria di cui al comma 5 dell’art. 18, L. n. 300 del 1970, come modificata dalla L. n. 92/20012 (in tal senso, G. Santoro-Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo e l’ambito della tutela risarcitoria, in Arg. dir. lav., 2013, 2, 236 e ss. Cfr. altresì M. Persiani, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage, in Giur. it, 2016, 5, 1164 ss., il quale ha affermato che l’impossibilità di repêchage rappresenta un elemento esterno al giustificato motivo e non può rientrare tra le ragioni di cui all’art. art. 3, L. n. 604/1966). Altri autori, invece, hanno sostenuto che il repêchage sia un elemento costitutivo del giustificato motivo oggettivo e rientri pienamente nel “fatto”, la cui violazione determina quindi l’insussistenza del fatto e la conseguente reintegrazione del lavoratore (in questo senso si veda A. Vallebona, Il repêchage fa parte del «fatto, in Mass. giur. lav., 2013, 11, 750. Cfr. anche A. Perulli, Fatto e valutazione giuridica del fatto nella nuova disciplina dell’art. 18 Stat. Lav. ratio ed aporie dei concetti normativi, in Arg. dir. lav., 2012, 4-5, 787 e ss., secondo cui il controllo della possibilità di utilizzazione aliunde rientri nell’ambito dell’accertamento della sussistenza del fatto. Sulla violazione dell’obbligo di repêchage che comporta l’applicazione della tutela reintegratoria si veda V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in Riv. it. dir. lav,, 2012, 3, I, 563-564. Sul punto, si veda anche F. Scarpelli, Giustificato motivo di recesso e divieto di licenziamento per rifiuto della trasformazione del rapporto a tempo pieno, in Riv. it. dir. lav., 2013, 1, II, 284 e ss.).
In materia, tuttavia, si è espressa la Suprema Corte che con due arresti del 2016, le sentenze n. 5592 del 22 marzo e la n. 12101 del 13 giugno 2016, ha chiarito come debba interpretarsi l’obbligo di repêchage in caso di licenziamento per motivo oggettivo, analizzando con particolare rigore la tematica della ripartizione dell’onere della prova tra le parti (Pubblicate entrambe in Riv. giur. lav,, 2016, II, 302, con nota di L. MONTEROSSI, Licenziamento per giustificato motivo e repêchage: nessun onere di allegazione). Le citate sentenze della Suprema Corte del 2016 suscitano particolare interesse in quanto, in totale controtendenza rispetto al precedente indirizzo giurisprudenziale (si vedano ex multis: Cass.,10.5.2016, n. 9467, in www.dejure.it; Cass., 8.11.2013, n. 25197 in www.dejure.it; Cass., 8.2.2011, n. 3040, in Giur. lav, 2011, n. 10, 26), affermano il principio per cui l’onere della prova sull’impossibilità di repêchage incombe totalmente sul datore di lavoro, non essendo invece il lavoratore onerato di alcuna allegazione in tal senso.
Fatta tale breve premessa di ordine sistematico, si può entrare nel merito della sentenza oggetto di commento. Con il principio espresso nella sentenza in commento, la Corte territoriale si conforma a quanto statuito dalla giurisprudenza di legittimità, come sopra richiamata, in ordine alla ripartizione degli oneri probatori gravanti in capo alle parti nel giudizio di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
In particolare, la Corte d’Appello di Roma afferma che, nel giudizio di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la causa petendi è costituita dall’inesistenza dei presupposti fondanti il legittimo esercizio del potere di recesso datoriale; pertanto, la Corte territoriale esclude che l’impossibilità del repechâge costituisca un autonomo fatto estintivo rispetto al giustificato motivo oggettivo e afferma che, ai fini della legittimità del recesso, la dimostrazione di entrambi grava unitariamente sul datore di lavoro.
Nel merito, la Corte d’Appello di Roma afferma che “una volta accertata la insussistenza del fatto, il giudice deve comunque disporre la reintegrazione”, perché altrimenti il Giudice disporrebbe di un potere discrezionale di ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro piuttosto che la tutela indennitaria di cui al comma 5 dell’art. 18 Stat. Lav. e ciò sarebbe un elemento di contraddizione nell’ambito di un sistema che ha quale suo tratto essenziale e fondamentale la predeterminazione legislativa delle ipotesi in cui è applicabile la tutela reintegratoria, anche considerando l’assenza di criteri da seguire nella scelta discrezionale.
I Giudici di appello, inoltre, rilevano come appaia condivisibile il rilievo espresso dalla prevalente dottrina secondo cui i fatti o esistono o non esistono, onde, sul piano logico, nulla distingue un fatto insussistente da uno manifestamente insussistente.
La Corte rileva, altresì, come costituisca diritto vivente l’approdo giurisprudenziale secondo cui l’impossibilità di ricollocamento del lavoratore rappresenti una delle condizioni di fatto che legittimano il licenziamento per giustificato motivo oggettivo con la conseguenza che anche tale impossibilità costituisce un elemento del “fatto” che deve sussistere per evitare l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata.
In conclusione, si può affermare il seguente principio di diritto che si rinviene dalle motivazioni della sentenza in commento: l’impossibilità di ricollocare il lavoratore all’interno della compagine aziendale integra uno degli elementi costitutivi della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sicché, qualora il datore di lavoro ometta di fornire la prova, trova applicazione la c.d. tutela reale attenuata introdotta dalla l. n. 92/2012 e prevista in ipotesi di “manifesta infondatezza del fatto” posto a fondamento del recesso datoriale.