Il repêchage in mansioni inferiori dopo il Jobs Act: obbligo o facoltà ?

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, n. 4/2017

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CASSAZIONE CIVILE n. 13379, 26 maggio 2017, Sez. lav. – Pres. Di Cerbo – Est. Patti – P.M. Sanlorenzo (accoglimento),  B.M. (avv.ti Lacagnina, Piccinino) c. M.D. S.r.l. (avv.ti, Magrini, Pisa, Cantone).

Diff. Corte di Appello di Venezia del 16 gennaio 2014.

 

Lavoro (Rapporto di) – Licenziamento individuale - Giustificato motivo oggettivo – art. 3, legge 15 luglio 1966, n. 604 – Soppressione posto di lavoro – Obbligo di repêchage – Mansioni inferiori promiscue - Illegittimità del licenziamento.

In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’obbligo di repêchage a carico del datore di lavoro deve estendersi alla verifica della possibilità di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori se il dipendente esercitava, promiscuamente alle mansioni soppresse, anche compiti non riconducibili alla propria qualifica, sebbene in misura minore.

 

Il repêchage in mansioni inferiori dopo il Jobs Act: obbligo o facoltà ?

La modifica della norma sullo ius variandi (articolo 2103 c.c., come novellato dal D.Lgs. n. 81 del 2015) ha inevitabili ricadute anche sull’obbligo di repêchage che, proprio in virtù delle nuove disposizioni, risulta sicuramente dilatato sia in senso orizzontale che verticale, dovendo tale obbligo avere, come parametro di riferimento, non solo tutte le mansioni riferibili al livello di inquadramento del dipendente ma anche quelle di livello inferiore.

Sino all’entrata in vigore del citato decreto, l’orientamento giurisprudenziale in tema di repêchage in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo è stato condizionato dal principio dell’equivalenza ex art. 2103 c.c. e, in un certo senso, “imbrigliato” dall’inderogabilità delle disposizioni ivi contenute (la nullità dei patti contrari) e, quindi, dal limite legale posto dal rispetto del bagaglio professionale del prestatore. Su tale limite, ritenuto invalicabile, si era quindi fondato il prevalente indirizzo giurisprudenziale che riteneva ammissibile l’obbligo di ricollocamento del lavoratore solo con riferimento in posizioni di lavoro equivalenti (in tal senso, ex multis: Cass. 12.2.2014, n. 3224, in NGL, 2014, 522; Cass. 8.11.2013 n. 25197, in LG, 2014, 181; Cass., 1.8.2013, n. 18416, in Mass. giur. lav., 2014, 1/2, 35. Cass., 23.6.2005, n. 13468, in Orient. giur. lav., 2005, 647).

Si è però discusso in dottrina e giurisprudenza sull’ammissibilità dello spostamento del lavoratore a mansioni inferiori – in deroga al citato art. 2103 c.c. – qualora ciò risultasse necessario per evitare il licenziamento e vi fosse il consenso del lavoratore (sull’obbligo di repêchage in mansioni inferiori si vedano tra le tante: Cass., 1.8.2013, n. 18416, in MGL, 2014, 1, 35, nonché in RIDL, 2014, 2, II, 231, con nota di Frasca; Cass., 23.10.2013, n. 24037, in RIDL, 2014, 2, II, 296, con nota di Zanetto, nonché Cass. 15.5.2012, n. 7515, in RIDL, 2013, 1, II, 73, con nota di Falsone). In particolare, i giudici di legittimità hanno ritenuto che l’adibizione a compiti inferiori in caso di licenziamento fosse consentita solo incidentalmente e marginalmente, per ragioni di efficienza ed economia del lavoro, o addirittura di sicurezza. In tale ricostruzione ermeneutica risulta fondamentale tenere in considerazione l’arresto delle Sezioni Unite, la sentenza n. 7755 del 1998 (in RIDL, 1, 1999, II, 170, con nota Pera) che rappresenta un importante paradigma di riferimento nell’elaborazione giurisprudenziale – consolidatasi poi nel tempo - sull’ammissibilità del declassamento del lavoratore ai fini della tutela del posto di lavoro. Successivamente a tale decisione si segnala, tra le tante, la sentenza di Cassazione n. 21579 del 2008 (in MGL, 3, 2009, 162, con nota di Pisani, nonché in RGL, 2, 2009, 98, con nota di Raffi) che, discostandosi dall’allora prevalente orientamento giurisprudenziale sull’obbligo di repêchage (ritenuto possibile solo per mansioni equivalenti) ribadisce il principio secondo cui il datore di lavoro, in caso di licenziamento per soppressione del posto di lavoro, ha l’onere di provare di aver prospettato al lavoratore licenziato, senza ottenerne il consenso, l’impiego in mansioni inferiori. Ciò sempre sulla base del presupposto che tali mansioni fossero compatibili sia con l’assetto organizzativo aziendale sia con il bagaglio professionale del lavoratore. Nel bilanciamento tra diversi diritti, la tutela della professionalità sembrava così soccombere di fronte alla tutela del posto di lavoro (in tal senso Raffi 2009, 106) 

Occorre però evidenziare sul punto che il legislatore ante D.Lgs. n. 81/2015 aveva già previsto alcune specifiche eccezioni al divieto ex art. 2103 c.c. di assegnazione a mansioni inferiori. Era possibile, infatti, dequalificare il lavoratore solo in alcune ipotesi tipiche previste dalla legge come, ad esempio, nel caso della lavoratrice madre nell’interesse della medesima e del bambino (art. 3, L. n. 1204/71, come modificato dall’art. 7, D.Lgs. n. 151/2001), o per la tutela della salute del lavoratore quando sia dichiarato non idoneo alla mansione specifica (art. 42, D.Lgs. n. 81/2008) o nel caso di licenziamenti collettivi (art. 4, comma 11, L. n. 223/1991).

Alla luce però delle recenti modifiche legislative in tema di mansioni, ove appare superato il limite del necessario rispetto della professionalità del lavoratore, il compito degli interpreti è quello di comprendere quali siano le effettive conseguenze sul rapporto di lavoro e sulla conservazione dello stesso a causa della caduta del “muro” dell’equivalenza ex art. 2103 c.c. che inibiva per legge l’obbligo per il datore di lavoro del ripescaggio del dipendente in mansioni inferiori. E’ necessario, infatti, dare soluzione alle seguenti questioni: da una parte, se sia o meno legittima la dequalificazione professionale del lavoratore quale rimedio alternativo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo; dall’altra, se tale opzione, finalizzata alla salvaguardia del posto di lavoro, sia riconducibile ad una semplice facoltà o ad un preciso obbligo per il datore di lavoro.

Appare di rilevante interesse verificare quale sia attualmente l’esegesi della giurisprudenza sulla questione del repêchage in mansioni inferiori dopo la modifica dell’art. 2103 c.c.. Le recenti sentenze emesse dalla Cassazione dopo l’entrata in vigore del cosiddetto Jobs Act, seppur riguardanti il vecchio testo dell’art. 2103 c.c., richiamano nei propri passaggi motivazionali le nuove disposizioni del D.Lgs. n. 81 del 2015, sostenendo come la nuova disciplina risulti confermativa della sussistenza dell’obbligo di repêchage da estendersi anche ai compiti inferiori.

La Suprema Corte, con il provvedimento in commento, torna nuovamente a pronunciarsi sulla sussistenza dell’obbligo datoriale di ripescaggio anche in mansioni inferiori, confermando così un filone giurisprudenziale che ad oggi, a distanza di due anni dall’entrata in vigore del Jobs Act, appare ormai consolidato e prevalente. In tal senso, infatti, si segnala la decisione n. 4509 dell’8 marzo 2016 (inedita a quanto consta), che ha posto in capo al datore di lavoro l’onere di provare non solo “che non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, ma anche di aver prospettato al licenziato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un suo impiego in mansioni inferiori”. Invero, che la richiamata tesi risulti essere la più aderente alla nuova disciplina in tema di mansioni lo dimostrano anche altre tre recenti sentenze della Cassazione. La prima è quella del 9 novembre 2016, n. 22798 (in RGL, 2, II, 245, con nota di Calvellini, nonché in ilgiuslavorista.it, 2017, con nota di Spagnuolo) che si pronuncia sul tema dell’obbligo di repêchage affermando che, sempre con riferimento alla fattispecie della soppressione del posto di lavoro in conseguenza di una riorganizzazione aziendale, è ravvisabile una nuova situazione di fatto inerente al nuovo assetto dell’impresa che legittima il consequenziale adeguamento del contratto mediante l’adibizione a mansioni inferiori che consentano, appunto, la conservazione del posto di lavoro. La seconda è la decisione n. 26467 del 21 dicembre 2016 (in RGL, 2, II, 245, con nota di Calvellini), in cui i giudici di legittimità hanno ribadito il principio secondo cui “nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo l'onere del datore di lavoro di provare l'adempimento all'obbligo di repêchage va assolto anche in riferimento a posizioni di lavoro inferiori”, affermando altresì in merito cheil datore di lavoro, in conformità al principio di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto, è tenuto a prospettare al lavoratore la possibilità di un impiego in mansioni inferiori quale alternativa al licenziamento ed a fornire la relativa prova in giudizio". L’ultima pronuncia di legittimità da tenere in considerazione è la n. 160 del 5 gennaio 2017 (in RGL, 2, II, 245, con nota di Calvellini), che si è attestata su principi analoghi sostenendo che l’onere della prova circa l’impossibilità di adibire il dipendente licenziato per ragioni oggettive in mansioni analoghe (o inferiori) a quelle svolte in precedenza, spetta al datore di lavoro “con esclusione di ogni incombenza, anche solo in via mediata, a carico del lavoratore”. Dunque, in base all’orientamento giurisprudenziale sin qui esposto, se il licenziamento viene irrogato senza che sia stata previamente svolta una verifica di posizioni alternative per il lavoratore anche in compiti inferiori (ovviamente ove esistenti), il recesso, anche alla luce del nuovo testo dell’art. 2103 c.c., risulta illegittimo per violazione del c.d. obbligo di repêchage.

Così richiamati i precedenti giurisprudenziali, è necessario esaminare le peculiarità della vicenda della pronuncia oggetto di commento. Si tratta di un recesso per giustificato motivo oggettivo ove il dipendente licenziato per soppressione del posto di lavoro esercitava, congiuntamente alle mansioni soppresse di rilevatore dei prezzi di prodotti venduti dalle società concorrenti, anche compiti non riconducibili alla propria qualifica e genericamente riferibili all’attività del punto vendita, sebbene in misura minore. La promiscuità dell’attività del prestatore, a parere della Suprema Corte, si pone in contrasto con la mancanza di una disponibilità del prestatore ad un patto di dequalificazione pur di salvaguardare il posto di lavoro. Conseguentemente, secondo i giudici di legittimità, l’obbligo di repêchage della società avrebbe dovuto estendersi anche a posizioni di lavoro di natura inferiore, perfettamente esigibili in quanto ordinariamente rese. Per le suesposte motivazioni la Cassazione ha accolto il ricorso del lavoratore e ha cassato la sentenza della Corte territoriale, ritenuta sul punto non corretta per aver considerato esente il datore di lavoro da un onere che, invece, doveva ritenere sussistente.  

Ebbene, se nell’evoluzione giurisprudenziale si è affermato e consolidato nel tempo l’obbligo repêchage in mansioni inferiori in presenza del dettato dell’art. 2103 c.c. ante riforma introdotta dall’art. 3 D.Lgs. n. 81/2015, a maggior ragione, alla luce della novella legislativa, deve ammettersi un onere datoriale in tema di repêchage ancora più stringente. Tale assunto, oltre che confermato dai recenti orientamenti giurisprudenziali sin qui evidenziati, è avvalorato anche da due espresse previsioni legislative dell’ art. 2103: da una parte, il comma 2, che prevede la possibilità di assegnare il dipendente a mansioni di un livello inferiore in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidano sulla posizione dello stesso; dall’altra, il comma 6, che consente di stipulare con i lavoratori patti di dequalificazione. Tali disposizioni evidenziano come il datore di lavoro, in caso di licenziamento per motivo oggettivo, non sia più “ancorato” ai fini del repêchage al rispetto della regola dell’equivalenza delle mansioni dettata dalla precedente formulazione dell’art. 2103 c.c..

Sicuramente la recente riforma legislativa in tema di mansioni permette agli interpreti di avere una visuale prospettica del tutto nuova nell’approccio esegetico della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e di quella del repêchage, consentendo inevitabilmente di adottare soluzioni più ampie per la conservazione del lavoro. Come anticipato, il tema è quindi se sussista per il datore (in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo) un obbligo o una mera facoltà di ricercare posizioni alternative per la tutela dell’occupazione anche in compiti di tipo inferiore.

Le prime interpretazioni della dottrina su tale aspetto - a differenza degli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati che invece propendono per la tesi dell’obbligo -  hanno mostrato opinioni discordanti. A parere di alcuni autori, proprio in ragione delle nuove disposizioni dell’art. 2103 c.c., sorge per il datore di lavoro un obbligo di repêchage anche in mansioni inferiori (In tal senso, Brollo 2015, 42, Amendola 2015, 511; Pileggi 2016, 71 e ss.).

La dottrina prevalente, per contro, ha sostenuto che non sia rinvenibile in virtù del nuovo art. 2103 c.c. un obbligo per il datore di lavoro di esercitare lo ius variandi in pejus ex commi 2 e 4 per evitare il recesso del lavoratore, “essendo inammissibile che il “può” di cui al comma 2 diventi un deve in quanto l’esercizio di quel potere rientra nella libera scelta dell’imprenditore” (Pisani 2015, 151). Secondo tale tesi, una diversa impostazione potrebbe incorrere in una pronuncia di incostituzionalità in quanto il comma 5 della norma imporrebbe al datore, in caso di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori, di mantenere la stessa retribuzione. In tal modo, il datore di lavoro verrebbe onerato di costi aggiuntivi concedendo “al dipendente una sorta di qualifica convenzionale o un superminimo per salvargli il posto” (Pisani 2015, 152), conservando però il lavoratore il medesimo trattamento retributivo, con ciò dimostrando l’onerosità di una tale scelta per il datore di lavoro (in tal senso si veda anche Sordi 2016, 132). In merito, si è anche sostenuto che “sarebbe irrazionale per non dire paradossale addossare al datore di lavoro un obbligo di repêchage su mansioni inferiori con conservazione del maggior costo retributivo delle superiori mansioni in precedenza svolte” (Ciucciovino 2016, 43). L’imprenditore quindi, in caso in cui decida di sopprimere il posto di lavoro, avrebbe solo un onere prima di intimare il recesso, ossia quello di “proporre al lavoratore interessato la stipula di un accordo ai sensi del sesto comma dell’art. 2103 c.c.” e, solo nel caso di rifiuto da parte del dipendente a stipulare il patto di declassamento, potrebbe procedere legittimamente al licenziamento (Sordi 2016, 132. In dottrina sul punto si veda anche Ferraresi 2016, 856).

A parere di chi scrive, le tesi sulla non configurabilità di un obbligo repêchage anche in mansioni inferiori alla luce del riformato art. 2103 c.c. non appaiono condivisibili.

I presupposti di tali assunti si scontrano con due principi: da una parte, l’obbligo di repêchage e, dall’altra, quello di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., entrambi connessi eziologicamente e che, proprio in virtù di tale collegamento funzionale, impongono al datore di vagliare ogni soluzione possibile tesa alla conservazione del posto di lavoro (licenziamento quale extrema ratio) proprio al fine di dare corretta esecuzione al contratto individuale di lavoro, compresa quella di assegnare il dipendente anche a mansioni inferiori. Senza dimenticare che vi è un orientamento giurisprudenziale, seppur minoritario, secondo cui sebbene il giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive sia rimesso alla valutazione del datore di lavoro, come espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., esso tuttavia incorre nel limite della “utilità sociale” di cui al comma 2 dell’art. 41 della Cost. (in tal senso si veda Cass., 27.10.2010, n. 21967, in RIDL, 2012, 86, con nota di Pallini). Pertanto, secondo tale impostazione della Suprema Corte, il recesso deve essere pur sempre contemperato con il rispetto della dignità umana, trattandosi di diritto fondamentale della persona richiamato dalla stessa norma costituzionale nonché dalla legislazione del lavoro anche in relazione al diritto alla conservazione del posto di lavoro sul quale si fondano sia l’art. 18 St. Lav. sia l’art. 30 del Trattato di Lisbona del 31 dicembre 2007, entrato in vigore dal 1° gennaio 2009. Tale indirizzo riprende il principio costituzionale per cui l’iniziativa imprenditoriale non è libera in termini assoluti, traendosi in tal senso un apposito limite dall’utilità sociale prevista appunto dal secondo comma dell’art. 41 Cost. (sull’utilità sociale quale limite oggettivo agli atti del potere organizzativo datoriale si veda in dottrina: Perulli 1992, 172).

Peraltro, non va sottaciuto che la salvaguardia del posto di lavoro trova un fondamento costituzionale nell’art. 4 che persegue tale obiettivo, quantomeno quale finalità del nostro ordinamento. Al riguardo, si è però sostenuto in dottrina come “non esista nel nostro ordinamento un diritto alla stabilità o un diritto al lavoro inteso come criterio in grado di integrare i precetti di legge ordinaria” (Romei 2017, 29) È pur vero che la stabilità del lavoro non è un obbligo, ma la sua conservazione trova presupposti costituzionali ed è eziologicamente connessa alla tesi del licenziamento quale extrema ratio (in dottrina sulla teoria del licenziamento per giustificato motivo oggettivo quale extrema ratio in ragione di una valorizzazione della tutela del lavoro e dei limiti costituzionali alla libertà economica si veda Speziale, 2012, 45, Tullini 2013,167).

Conseguentemente, anche in considerazione dell’orientamento giurisprudenziale e dottrinale che fa leva su un bilanciamento di valori costituzionali tra il potere d’iniziativa imprenditoriale e l’utilità sociale, il datore di lavoro deve tutelare il posto di lavoro non solo in adempimento dell’obbligo derivante dalla corretta esecuzione del contratto di lavoro, ma anche in virtù delle nuove disposizioni ex art. 2103 c.c. che gli consentono di salvaguardare l’occupazione adibendo il lavoratore a mansioni inferiori, possibilità, questa, in passato giuridicamente preclusa se non in presenza di eccezioni tipizzate dalla legge.

Il licenziamento per essere legittimo, quindi, come affermato da autorevole dottrina, deve risultare quale extrema ratio (Mancini 1972, 243) avendo l’imprenditore l’onere di dimostrare di aver tentato ogni soluzione alternativa al recesso, tra le quali rientra anche quella, oggi giuridicamente praticabile, di adibire il lavoratore a mansioni inferiori ai sensi dell’art. 2103 c.c, secondo comma o, in ogni caso, proponendo al medesimo patti di dequalificazione ai sensi del sesto comma, incorrendo il datore, altrimenti, in una violazione dei doveri di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. e dei principi costituzionali tesi alla conservazione del posto di lavoro.

Riferimenti bibliografici 

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