TELECOM E DEMANSIONAMENTO DI UN LAVORATORE DI 5° LIVELLO: LA CORTE DI APPELLO CONDANNA LA SOCIETA’ A RISARCIRE IL DANNO PROFESSIONALE PER L’ADIBIZIONE A MANSIONI DI 2° LIVELLO.

Errata corrige 21 Maggio 2022

Causa patrocinata dallo Studio Legale Salvagni

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 3.5.2022, in una causa patrocinata sia in primo grado che in secondo grado dallo Studio Legale Salvagni, rigettando l’appello della Società, ha confermato la sentenza di primo grado ove il Tribunale di Roma ha condannato la Telecom Italia S.p.a. al risarcimento del danno per l’illegittimo demansionamento di un lavoratore che, inquadrato nel 5° livello, a partire dal 2012 era invece stato illegittimamente adibito a mansioni riferibili al 2° livello del CCNL applicato. ...

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TELECOM CONDANNATA ALLA RIAMMISSIONE IN SERVIZIO DI ALTRI TRE “CONSULENTI” PER L’ILLEGITTIMA INTERPOSIZIONE DI MANODOPERA E APPALTO NON GENUINO (cd. Body Rental), CON CONSEGUENTE ACCERTAMENTO DI UN RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO

Causa patrocinata dallo Studio Legale Salvagni

Con altre due sentenze del 29.06.2021 e del 21.10.2021 su analoga fattispecie già decisa favorevolmente in data 29.12.2020 nei confronti di un lavoratore assistito sempre dallo Studio Legale Salvagni (vedi abstract su questo sito del 12.10.2020), due diversi giudici del Tribunale di Velletri hanno accertato che il rapporto di lavoro formalmente intercorso tra i lavoratori e le società formali datrici di lavoro - società di consulenza informatica che si limitavano alla mera fornitura di manodopera (cd. Body Rental) - doveva in realtà essere imputato alla Telecom Italia in qualità di effettivo datore di lavoro.

Nel caso di specie, i lavoratori avevano, rispettivamente, dal 2014 e dal 2012, prestato la propria attività lavorativa di natura subordinata - svolgendo mansioni di tipo informatico - direttamente in favore della Telecom, ricevendo disposizioni specifiche, direttive e indicazioni dai referenti della società stessa, essendo inoltre sottoposti, da parte degli stessi, al controllo e/o riscontro della propria prestazione lavorativa.

In particolare, nella prima delle sentenze citate, il giudice ha focalizzato il proprio ragionamento decisorio, oltre che sulla mancata prova dell’esistenza di un contratto di appalto tra la formale datrice e la Telecom Italia, anche sull’assenza di uno specifico know how non presente in azienda che avrebbe richiesto la necessità di ricorrere a personale esterno.

Trattandosi, infatti, di un cd. appalto labour intensive - ossia di un servizio nel quale la realizzazione delle attività commesse richiede scarso uso di beni materiali e dipende, invece, in maniera decisiva, dalla prestazione del lavoro umano - l’attività oggetto dell’(eventuale) appalto, non era finalizzata a rendere un servizio distinguibile rispetto all’attività svolta dal committente, essendo invece le mansioni svolte dal lavoratore le medesime espletate dal personale interno di Telecom.

Alla luce delle risultanze emerse dall’istruttoria testimoniale e della documentazione prodotta, il Tribunale, pertanto, ha dichiarato l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, a tempo pieno e indeterminato, intercorso con la Telecom in modo irregolare, ancora in essere, condannando la Società alla riammissione in servizio dei lavoratori e al pagamento di una indennità pari a 10 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

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TELECOM REVOCA AUTO AZIENDALE CONCESSA AD USO PROMISCUO: CONDANNATA A PAGARE IN BUSTA PAGA IL VALORE BENEFIT AUTO QUALE RETRIBUZIONE IN NATURA

Causa patrocinata dallo Studio legale Salvagni

Il Tribunale di Roma, con sentenza del 26 giugno 2021, ha riconosciuto l’assegnazione di un’auto aziendale concessa ad uso promiscuo quale retribuzione in natura corrisposta mediante il conferimento in favore del lavoratore di beni e/o servizi, comunemente denominati "fringe benefit”.    

La vicenda riguarda una lavoratrice alla quale l’azienda, per oltre dieci anni, ha assegnato una vettura aziendale ad uso promiscuo. La dipendente, a seguito della revoca dell’auto aziendale, ha chiesto il riconoscimento della natura retributiva della stessa e il conseguente pagamento delle retribuzioni per equivalente in ragione della mancata fruizione del benefit, trattandosi di retribuzione irriducibile ex art. 2103 e 2099 c.c. e ormai entrata a far parte del patrimonio della lavoratrice.           

Il Tribunale di Roma, per quanto attiene all’attribuzione dell’auto aziendale per “uso promiscuo” con inserimento in busta paga dell’elemento figurativo del valore convenzionale dell’auto, ha ritenuto che tale concessione, trattandosi di “fringe benefits”, assume valore di retribuzione in natura, cui si applica il principio di irriducibilità della retribuzione.

Pertanto, secondo il giudice, il datore può revocare l’utilizzo dell’auto, ma solo a condizione di mantenere lo stesso livello retributivo del dipendente, trattandosi di retribuzione irriducibile, connessa all’uso promiscuo dell’auto.

La società, pertanto, è stata condannata al pagamento di una somma avente natura retributiva (il cui parametro è stato determinato in base alle tariffe ACI), quale controvalore economico del benefit revocato.  

 

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POLICLINICO UMBERTO I DI ROMA: LA CORTE DI APPELLO DI ROMA CONFERMA LA SENTENZA CON CUI IL TRIBUNALE AVEVA ACCERTATO IL DEMANSIONAMENTO DEL LAVORATORE RICONOSCENDO IL DANNO ESISTENZIALE E BIOLOGICO

Causa patrocinata dallo Studio Legale Salvagni

Con sentenza del 12.04.2021, la Corte di Appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado con cui il Tribunale di Roma aveva accertato il demansionamento subito dal lavoratore, condannando l’Azienda a risarcirgli il non patrimoniale subito.

In particolare, i giudici dell’appello hanno confermato che il lavoratore - inquadrato come collaboratore amministrativo professionale esperto - per un periodo di oltre due anni, era rimasto, dapprima, sostanzialmente privo di assegnazione di incarichi e, poi, addirittura privo di una postazione lavorativa e, successivamente, adibito a mansioni nettamente inferiori rispetto a quelle proprie della qualifica posseduta, ed infine lasciato in condizione di inattività lavorativa.

La Corte di Appello, pertanto, dando corretta applicazione dei principi espressi dalla Suprema Corte in tema di onere della prova del demansionamento - che, appunto, grava sul datore di lavoro - ha ritenuto che l’Azienda non avesse contestato la ricostruzione dei fatti fornita dal lavoratore (comunque confermata dai testimoni escussi) e, in ogni caso, non avesse provato di aver adibito il medesimo a mansioni proprie della elevata qualifica posseduta.

La Corte, inoltre, quanto al risarcimento del danno, ha condiviso la statuizione del giudice di primo grado laddove: a) aveva accertato il danno esistenziale patito dal lavoratore in oltre 33.000,00 euro, avendo ritenuto raggiunta la prova dell’effettiva alterazione delle abitudini di vita del medesimo nel periodo in cui aveva subito l’accertato demansionamento; b) aveva determinato il danno in via equitativa nella misura del 40% della retribuzione mensile, avuto riguardo alle caratteristiche concrete del demansionamento (privazione delle funzioni di coordinamento di risorse e di responsabilità), alla sua durata e gravità, alla conoscibilità della stessa all’interno e all’esterno del luogo di lavoro, nonché agli effetti negativi di tale dequalificazione professionale sul “fare a-reddituale” del medesimo.

La Corte di Appello, infine, dopo aver disposto la CTU per l’accertamento del danno all’integrità psico-fisica non riconosciuto in primo grado, accogliendo l’appello sul punto proposto dal lavoratore, ha altresì accertato il danno biologico subito dal lavoratore.

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