Licenziamento disciplinare e congedo straordinario per l'assistenza del disabile

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, n. 2/2018

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CASSAZIONE, 05.12.2017, n. 29062 - Pres. Nobile, Est. Amendola, P.M. Fresa (diff.) – S.F. (avv. Manzi) c. S. S. E. V. L. S.p.a. (avv.ti De Luca Tamajo, Ottone, Cammarata).

Cassa Corte d’Appello di L’Aquila, 25.09.2015

 Licenziamento individuale – Licenziamento disciplinare – Congedo straordinario ex L. 104 del 1992 per assistenza a persona affetta da handicap grave – Mancato rispetto della assistenza continuativa e permanente al disabile – Necessità di assistenza notturna - Fatto insussistente  – Qualificazione di illecito - Irrilevanza disciplinare della condotta – Fatto privo del requisito dell’antigiuridicità -  Illegittimità del recesso – Reintegra.

 In caso di congedo straordinario ai sensi dell'art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001 concesso al prestatore per assistere la madre in condizione di handicap grave, anche se risulta materialmente accaduto che il lavoratore si trovasse in talune giornate lontano dall'abitazione della persona portatrice di handicap, ciò non è sufficiente a far ritenere sussistente il fatto contestato perché, una volta accertato che, ferma la convivenza, questi comunque prestava continuativa assistenza notturna alla disabile, alternandosi durante il giorno con altre persone, con modalità da considerarsi compatibili con le finalità dell'intervento assistenziale, tanto svuota di rilievo disciplinare la condotta tenuta. (1)

 

Licenziamento disciplinare e congedo straordinario per l’assistenza del disabile.

 

Il caso di specie concerne un licenziamento disciplinare irrogato ad un lavoratore che aveva richiesto un congedo straordinario ai sensi dell'art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001 per assistere la madre in condizione di handicap grave (per una disamina completa sul diritto a tale congedo si veda Lamonaca, 966). Nel corso di tale periodo di congedo, il datore di lavoro contestava al dipendente, a seguito di indagine investigativa, che durante alcune giornate, nelle ore diurne, non era stato visto a casa della madre, ma presso la propria abitazione. A fronte di tali addebiti il prestatore rendeva le proprie giustificazioni sostenendo di aver prestato assistenza notturna alla madre, portando a supporto di tale assunto una certificazione medica specialistica che attestava la tendenza della propria madre alla fuga, all’insonnia notturna e tratti di ipersonnia diurna. Ciò rendeva necessario per il lavoratore restare sveglio la notte per assistere il genitore al fine di evitare possibili fughe, già verificatesi in passato. La società, in ogni caso, irrogava il licenziamento disciplinare con preavviso.

I giudizi di merito avevano il seguente esito. Il Tribunale di Lanciano dichiarava l'illegittimità del licenziamento, con conseguente reintegrazione del prestatore nel posto di lavoro oltre al risarcimento del danno, sul presupposto della insussistenza del fatto addebitato.  La Corte di Appello di L’Aquila, confermando l'illegittimità del licenziamento, escludeva tuttavia la reintegrazione, condannando la società al solo pagamento della indennità risarcitoria. In punto di diritto, la Corte territoriale affermava che il lavoratore non aveva provato l’assistenza continuativa alla madre disabile, in quanto nelle ore notturne si alternava con altre persone, ciò non integrando una adeguata assistenza al disabile che invece necessiterebbe, a stretto rigore, di essere “prestata in via principale e privilegiata” da parte del titolare del beneficio e non da altre persone.

La giurisprudenza si è più volte pronunciata sulla tematica dell’abuso del diritto con riferimento all’uso improprio delle prestazioni assistenziali da parte dei lavoratori, assumendo nel tempo un orientamento di particolare rigore (il profilo dell’abuso del diritto è stato trattato in dottrina sotto vari aspetti ma, per esigenze di spazio espositivo, pare opportuno richiamare le teorie che riconducono l’illecito ai casi di violazioni dei principi di correttezza e buona fede nella fase esecutiva del contratto. In tal senso, si veda Mammone 208; Pino 25, Falco 2010). La casistica più nutrita riguarda principalmente la tematica dei licenziamenti disciplinari intimati a causa dell’utilizzo di permessi ex art. 33, l. n. 104 del 1992 per finalità diverse da quelle della cura del disabile, mentre le decisioni riguardanti l’utilizzo non corretto del congedo straordinario sono esigue (a quanto consta quale recente precedente si veda Cass. 04 aprile 2017, n. 8718, FI, Rep. 2017, Voce Lavoro (rapporto), n. 621, che tratta il licenziamento di un dipendente in congedo straordinario che non aveva comunicato il ricovero tempo pieno del disabile a cui prestava assistenza presso una struttura ospedaliera specializzata). Appare opportuno analizzare gli orientamenti giurisprudenziali che si sono formati sulla prima di tali due fattispecie, posto che il ragionamento adottato dai giudici per verificare se ci sia stato o meno l’abuso del diritto nell’impiego di permessi ex art. 33, l. n. 104 del 1992, per ragioni di evidente identità di ratio o analogia iuris, è applicabile anche all’istituto del congedo straordinario per l’assistenza del disabile, in quanto i presupposti di indagine sono i medesimi.

Tra i precedenti della giurisprudenza che hanno approfondito la materia, occorre segnalare alcuni provvedimenti che suscitano particolare interesse. Il primo è sicuramente la sentenza di Cassazione del 4 marzo 2014 n. 4984 (in GI, 11, 2014, 2515, con nota di Balletti, 2517), che ha trattato il caso di un lavoratore il quale aveva utilizzato i permessi ex lege n. 104 del 1992 per partire in vacanza con degli amici per un lungo fine settimana. In tale vicenda, i giudici di legittimità hanno affermato che l’abuso del diritto da parte del dipendente per motivi di svago, oltre a configurare una condotta contraria a buona fede nei confronti del datore di lavoro, determina sia un’indebita percezione dell’indennità nei confronti dell’ente previdenziale che eroga il trattamento economico, sia uno sviamento dell’intervento assistenziale dalle finalità sue proprie, rendendo pertanto legittimo il recesso.  

Sul punto, si evidenzia che secondo un’altra pronuncia della Cassazione, la sentenza del 30 aprile 2015, n. 8784 (in Foro it., 2015, 6, I, 1944, nonché in GI, 10, 2015, 2159, con nota di Miraglia, 2160), la condotta del prestatore, il quale abusa del diritto utilizzando il permesso per partecipare ad una “serata danzante”, configura un “disvalore sociale” che contrasta col minimo etico preteso dal lavoratore, non solo per gli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, ma anche con quelli che sono connaturati all’appartenenza ad una comunità. Afferma in merito, sempre la sopra citata sentenza del 2015, che vi è una duplice valenza negativa che incide sul vincolo fiduciario del rapporto di lavoro. Ciò perché l’abuso del diritto da parte del lavoratore che utilizza impropriamente il beneficio assistenziale, per un verso, viene scaricato sull’intera collettività la quale ne sopporta il costo tramite l’ente previdenziale che rimborsa il permesso al datore di lavoro; per altro verso, sia sul datore di lavoro che deve organizzare diversamente il lavoro, sia sui colleghi del dipendente che lo devono sostituire. Il tutto, pertanto, incide in maniera irreparabile sull’elemento fiduciario del datore che pone in dubbio la futura correttezza dell’adempimento del prestatore rispetto agli obblighi assunti (Si segnala sul punto anche: Cass. 06 maggio 2016, n. 9217, in Foro it., Rep. 2016, voce Lavoro (rapporto), n. 1026, ove è stato accertato l’abuso del diritto perché una lavoratrice titolare di permessi ex lege n. 104 del 1992 non aveva svolto alcuna attività assistenziale per oltre due terzi del tempo previsto nonché, in senso conforme, Cass. 22.03.16, n. 5574, in RIDL, 2016, II, 747, con riferimento all’abuso del permesso L. n. 104 del 1992 utilizzato solo per il 17,5% del tempo totale concesso).

Per completezza, si richiama un’ultima sentenza della Suprema Corte, la decisione del 13 settembre 2016, n. 17968 (in LG, 11, 2016, 975, con nota di Minervini), secondo cui, nel caso in cui i permessi ex art. 33, L. n. 104 del 1992 siano utilizzati sistematicamente per esigenze personali, si interrompe la ragione che permette “il sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e della coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela”. Tuttavia, secondo tale ultima decisione, vi è abuso del diritto “ove il nesso causale manchi del tutto” tra assistenza del disabile e assenza dal lavoro, ciò giustificando il recesso per lesione della buona fede del diritto. Questo ultimo passaggio motivazionale, sembra mitigare un indirizzo iniziale della giurisprudenza di particolare rigore che, teso alla punizione dell’uso improprio del beneficio, potrebbe prestare il fianco ad “apprezzamenti di mero ordine etico-morale, che sono comunque da evitare” in quanto occorre sempre avere come bussola di riferimento “una valutazione tecnico-giuridica della fattispecie concreta in base ai consolidati canoni di giudizio delle legittimità del potere di recesso” (Balletti, 2521).

La questione oggetto di annotazione presenta un duplice piano di lettura: da una parte, quello del rapporto di lavoro, che inerisce alla condotta che il lavoratore deve tenere al fine di non ledere il vincolo di fiducia con il datore rispetto agli obblighi assunti con il medesimo; dall’altro, quello pubblicistico, ossia l’abuso di prerogative che incidono sull’interesse generale in quanto, sia i permessi ex art. 33, L. n. 104 del 1992, sia i congedi straordinari (in questo caso solo in termini di sospensione del rapporto di lavoro) hanno ricadute sulla collettività.

Non è un caso, infatti, che gli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati trattino la tematica de qua in termini di abuso del diritto (sia nel caso di congedo straordinario o di permesso ex L. n. 104 del 1992), fornendo un’interpretazione molto severa del “vincolo fiduciario” sotteso alla fruizione di tali benefici: secondo la giurisprudenza, infatti, l’uso improprio degli stessi va punito con maggiore intransigenza in quanto tale violazione, in un certo senso, va a “spezzare” non solo il legame di fiducia sotteso al rapporto di lavoro stesso, ma anche quello con tutta la comunità che si sobbarca il costo complessivo che rende effettiva la tutela. In merito, si è espressa anche la dottrina che, sempre con riferimento ai permessi ex art. 33, 3° comma, L. n. 104 del 1992 (ma con ragionamento che, in maniera speculare, può essere utilizzato per i congedi straordinari ex lege n. 104 del 1992 per l’assistenza del disabile), ha sostenuto come la finalità assistenziale del beneficio, che rappresenta il “presupposto-condizione” del riconoscimento dello stesso, è la sola che consente la sospensione dell’ordinaria obbligazione lavorativa; conseguentemente, l’utilizzo per motivi diversi dalla sua finalità configura ex se l’abuso del diritto in ragione proprio dello sviamento rispetto alla funzione-finalità assistenziale (Balletti, 2520).

Entrando nel vivo della questione oggetto di commento, appare utile prendere le mosse dal ragionamento seguito dalla Cassazione nella citata sentenza del 13 settembre 2016, n. 17968, secondo cui il permesso per l’assistenza del disabile (e, quindi, mutatis mutandi il beneficio o, per il caso di specie, il congedo straordinario ex art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001 per assistere la madre in condizione di handicap grave) va usufruito per soddisfare l’interesse per il quale è riconosciuto e, conseguentemente, si configura l’abuso del diritto solo ove manchi completamente il nesso tra l’assistenza al disabile e il beneficio che è stato concesso a tale precipuo scopo.

A questo punto, il nodo della vicenda oggetto di commento, al di là delle rispettive posizioni prospettate dalle parti giudiziali, riguarda, a parere di chi scrive, cosa debba intendersi per “assistenza adeguata” al disabile in quanto, secondo la formulazione fornita sul punto dalla Corte di Appello di L’Aquila, sembrerebbe sussistere una “modalità qualificata” dello svolgimento della prestazione assistenziale. Nel senso che, richiamandosi in merito il condivisibile assunto del lavoratore come prospettato nel ricorso per cassazione, nessuna norma impone un’assistenza “principale e privilegiata” al disabile; in concreto, non vi sarebbe una sorta di soglia minima di assistenza al di sotto della quale non si può scendere. Lamenta sul punto il lavoratore che i giudici della Corte di merito avrebbero rimproverato al medesimo non tanto di non aver assistito la madre, ma di averla assistita meno di quanto ritenuto necessario.   

La Corte di Cassazione nella vicenda de qua muove, in un certo senso, da tale presupposto fattuale, ritenendo di dover disattendere i motivi del ricorso incidentale della società in quanto ripropongono una diversa ricostruzione del fatto storico affermando che il lavoratore avrebbe abusato dei benefici ex art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001 quando, invece, i giudici di merito avevano ritenuto raggiunta la prova (con accertamento insindacabile in sede di legittimità) circa la convivenza e la necessita di un’assistenza notturna da parte del lavoratore che, peraltro, aveva trovato riscontro sulla base di una certificazione medica specialistica.

Tornando alla fattispecie in commento, occorre trovare soluzioni razionali che presuppongano valutazioni di buon senso rispetto al caso concreto. Altrimenti, si rischia di non interpretare correttamente la finalità dell’istituto, riconducendo alla ipotesi di abuso del diritto condotte irrilevanti o non così sproporzionate con riferimento alla prestazione assistenziale; così come accade quando la stessa è comunque assolta, anche se con un tempo minore rispetto a quello riferito all’orario di lavoro contrattuale, purché ciò non infici del tutto la prestazione assistenziale tanto da non renderla effettiva. Tuttavia, anche volendo aderire alla tesi che l’assistenza deve essere continua ed esclusiva, di certo non si può pretendere che essa si espleti ininterrottamente per l’intera giornata (cfr. Cass. 31.01.2017, n. 2600, Foro it., Rep. 2017, voce Invalidi civili e di guerra, n. 19).

Per seguire tale ragionamento, si segnala come uno dei passaggi motivazionali più interessanti del provvedimento in annotazione sia proprio quello in cui si afferma che non può “ritenersi che l'assistenza che legittima il beneficio del congedo straordinario possa intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, quali la cura dei propri interessi personali e familiari, oltre alle ordinarie necessità di riposo e di recupero delle energie psico-fisiche, sempre che risultino complessivamente salvaguardati i connotati essenziali di un intervento assistenziale che deve avere carattere permanente, continuativo e globale nella sfera individuale e di relazione del disabile”.

Un’esegesi troppo rigida, che pretenda che il lavoratore occupi l’intero arco temporale della giornata alla persona di cui si prende cura, appare illogica in quanto la ratio insita nella tutela del portatore di handicap non è tanto l’entità del periodo temporale che si dedica al medesimo ma la qualità dell’assistenza che si presta in termini di effettività. Nel senso che si deve realizzare e garantire concretamente l’assolvimento delle necessità del disabile, ove il tempo destinato al medesimo non può essere misurato con il “cronometro”; né si può pretendere “che all’obbligazione lavorativa si sostituisca una (inesistente) obbligazione di assistenza di pari durata” anche perché, in una materia così delicata “non sembra corretto giudicare con l’accetta” (in tal senso, si veda Trib. Roma ordinanza del 04.10.17, Est. Conte, inedita). D’altra parte, tale conclusione risulta essere anche in linea con quell’indirizzo di legittimità alla stregua del quale l’abuso del diritto si configura solo ove manchi del tutto il nesso di causalità tra l’utilizzo del beneficio e la finalità assistenziale e si determini, quindi, un totale sviamento da questa ultima (cfr. Cass. 13.09.2016, n. 17968, op cit., 975). A parere di chi scrive, l’abuso dei benefici assistenziali deve essere punito severamente, in quanto la fruizione fraudolenta di tali agevolazioni rischia di svilire la finalità dell’istituto nel sentire comune. Tuttavia, la legge non prevede uno specifico obbligo di assistenza ininterrotta al portatore di handicap, tutela che neanche può essere pretesa in una tale accezione che si risolverebbe “altrimenti in una compressione del tutto ingiustificata della libertà del lavoratore” (cfr. Trib. Roma, ordinanza del 04.10.17, est. Conte). Peraltro, se il permesso o il congedo va “sfruttato”, latu sensu, nelle ore lavorative, una qualsiasi attività differente dal fine assistenziale (incombenze varie, svago, ballo, palestra), svolta nelle ore diverse da quelle dell’orario di lavoro contrattualmente inteso, non potrebbe comportare alcun addebito o inadempimento per il dipendente. Come, infatti, non può integrare alcuna violazione del vincolo di fiducia rispetto agli obblighi assunti con il datore di lavoro il compimento di attività ricreative o personali che siano espletate dopo la prestazione lavorativa. Come, peraltro, non si incorre, sempre ed automaticamente, in uso improprio della prestazione assistenziale quando le cosiddette attività diverse dalla cura del portatore di handicap non incidano sulla effettività della assistenza prestata al medesimo.