Licenziamento per impossibilità sopravvenuta o a causa di inidoneità psicofisica

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, n. 2/2019

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I

CASSAZIONE, 22.10.2018, n. 26675, Pres. Di Cerbo, Est. Lorito, PM Fresa (accoglimento) – A.G. (Avv.ti Battaglia, Grattarola) c. Congregazione delle Piccole Suore Missionarie della Carità (Avv. Costantino).

Diff. Corte di Appello di Torino del 3 ottobre 2016.

Sopravvenuta inidoneità alla mansione – Licenziamento per motivo oggettivo – Inosservanza obbligo di repêchage – Tutela indennitaria – Analogia motivo oggettivo di tipo economico con quello per sopravvenuta inidoneità alla mansione –  Reintegrazione.   

Anche in ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica o psichica alla mansione, il datore di lavoro, trattandosi di ipotesi di giustificato motivo oggettivo, deve adibire il prestatore a mansioni alternative, cui lo stesso sia idoneo e compatibili con il suo stato di salute; l’inosservanza di tale obbligo determina l’ingiustificatezza del recesso posto che costituirebbe una grave aporia sistematica ritenere che la violazione dell’obbligo di repêchage possa determinare una tutela reintegratoria nel caso di licenziamento per motivi economici e precluderla invece nel caso di lavoratore affetto da inidoneità fisica o psichica. (1)    

II

CASSAZIONE, 19.3.2018, n. 6798, Pres. Di Cerbo, Est. Spena, PM Celeste (rigetto) – Manutenzione e Montaggi S.r.l. (Avv. Manai) c. C.S. (Avv. Maciotta)

Conf. Corte di Appello di Cagliari del 22 aprile 2016.

Licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione – Modifiche organizzative – Art. 5 della Direttiva Comunitaria 78/2000/CE – Parità di trattamento – Obbligo del datore di lavoro di adottare soluzioni ragionevoli – Violazione art. 41 Cost. – Insussistenza.

E’illegittimo il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica o psichica alla mansione ove il datore di lavoro, avendo la possibilità di modificare la propria organizzazione del lavoro, non ha adottato soluzioni ragionevoli atte a consentire al lavoratore disabile, secondo la definizione della Direttiva Comunitaria 78/2000/ CE, di svolgere il lavoro, ciò non integrando violazione dell’art. 41 Cost. per ingerenza sulla libertà della organizzazione imprenditoriale. (2)   

 

(1-2) Licenziamento per sopravvenuta inidoneità psicofisica: reintegrazione per mancata adozione di accomodamenti ragionevoli e per violazione del repêchage.

Le sentenze in commento offrono la possibilità di un approfondimento sulla tematica del licenziamento del lavoratore, affetto da malattia o handicap, per sopravvenuta impossibilità della prestazione a seguito di un giudizio di inidoneità alle mansioni. A seguito dell’intervento della Cassazione a Sezioni Unite n. 7755 del 1998 (in RIDL, 1, 1999, II, 170, con nota Pera, nonché in MGL,1998, 876) e in virtù anche delle disposizioni degli articoli 4 e 10 della L. n. 68 del 1999, appare ormai pacifico che il recesso per sopravvenuta inidoneità alla mansione debba essere ricondotto alla fattispecie del motivo oggettivo. Le vicende oggetto di analisi riguardano due aspetti di rilevante interesse: da una parte, la questione del repêchage con riferimento alla residua capacità lavorativa all’interno della compagine aziendale; dall’altra, l’obbligo del datore di porre in essere “soluzioni ragionevoli” atte a consentire al lavoratore, disabile o malato, di svolgere la prestazione al fine della conservazione del posto di lavoro.  Il rapporto di lavoro con il prestatore affetto da un qualsivoglia stato di inidoneità alla mansione, secondo quanto stabilito dalle sentenze oggetto di commento, può essere risolto solo allorché il datore dimostri di aver attuato tutti i possibili adattamenti all’organizzazione del lavoro e che sia impossibile reinserire il lavoratore nel contesto produttivo. Si tratta di ipotesi di giustificato motivo oggettivo nel solco della interpretazione giurisprudenziale del licenziamento quale extrema ratio che impone, ai fini delle tutela del posto di lavoro, anche il c.d. obbligo di ripescaggio con adibizione a mansioni equivalenti o, in mancanza, inferiori (sull’obbligo di repêchage in mansioni inferiori ex multis: Cass., 26.5.17, n. 13379, in RGL, 2017, 4, II, 577; Cass. 5.1.2017, n. 160, Cass. 21.12.2016, n. 26467 e Cass. 9.11.2016, n. 22798 tutte in RGL, 2017, 2, II, 245, con nota di Calvellini; Cass., 23.10.2013, n. 24037, in RIDL, 2014, 2, II, 296, con nota di Zanetto, nonché Cass. 15.5.2012, n. 7515, in RIDL, 2013, 1, II, 73, con nota di Falsone).

 

– Appare opportuno trattare i provvedimenti in esame iniziando, in ordine cronologico, dalla sentenza del 19.3.2018, n. 6798, in quanto in tale fattispecie la Suprema Corte approfondisce i principi in materia di tutela del disabile e di parità di trattamento (che sono poi oggetto anche della sentenza più recente del 22.10.2018, n. 26675) richiamando sul punto, in maniera completa e dettagliata, i riferimenti normativi comunitari ed internazionali. La prima sentenza tratta il caso di un licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore alle mansioni, determinata da malattie (nella specie broncopneumopatia, dermatite da contatto, angioneurosi alle mani) tali da non consentire al medesimo la esposizione alle polveri presenti sul luogo di lavoro. In punto di diritto, tale provvedimento affronta la questione del bilanciamento di norme rispetto all’interpretazione degli articoli 1453,1455,1464 del codice civile e dell’articolo 3 della legge 604 del 1966, anche in combinato disposto con l’articolo 41 della Costituzione. In estrema sintesi, il tema è fino a che punto deve arrivare la cooperazione del datore di lavoro, in caso di accertata inidoneità fisica del prestatore alle proprie mansioni per determinate patologie o handicap, al fine di salvaguardare il rapporto di lavoro. Secondo l’assunto dell’azienda ricorrente, la sentenza della Corte di Appello di Cagliari sarebbe errata in quanto la soluzione adottata dai giudici di merito rappresenterebbe una indebita ingerenza sulla libertà dell’imprenditore, costituzionalmente tutelata ex art. 41, di organizzare la propria impresa. La società afferma sul punto che il provvedimento oggetto di gravame imponeva al medesimo di stravolgere, in maniera irragionevole, la propria organizzazione del lavoro con sacrificio anche degli interessi degli altri dipendenti al fine di consentire al lavoratore, proprio mediante la modifica della propria struttura organizzativa, di espletare la propria prestazione. In concreto, secondo l’assunto della società ricorrente, la sentenza di appello era meritevole di censura in quanto obbligava l’imprenditore a spostare alcune unità di personale da un reparto ad un altro per consentire al lavoratore di svolgere le proprie mansioni, nonostante l’azienda non avesse un interesse oggettivamente apprezzabile all’esecuzione parziale della prestazione. 

I giudici di legittimità affrontano la vicenda partendo dal dato, pacifico tra le parti, che la sopravvenuta inidoneità del lavoratore derivava da una situazione di infermità di lunga durata tale da non consentire al lavoratore di effettuare l’attività lavorativa in condizioni di uguaglianza con gli altri prestatori. La Cassazione, in base a tale presupposto fattuale, ritiene che la fattispecie sottoposta al proprio vaglio rientri nel campo di applicazione della Direttiva Comunitaria n. 78/2000/CE del 27 novembre 2000 sulla parità di trattamento in materia di occupazione. Secondo la Suprema Corte, nel caso di specie, ricorrono entrambi i requisiti richiesti dalla citata Direttiva e, in particolare, sia l’attinenza della controversia alle condizioni di lavoro, tra cui rientra anche l’ipotesi del licenziamento (art. 3 della direttiva), sia il fattore soggettivo dell’handicap (protetto dall’articolo 1 della direttiva). La Corte, quindi, richiama nella propria motivazione una nozione di handicap, più ampia e dinamica rispetto a quella prevista dalla normativa nazionale ex l. 68 del 1999, mutuata dal diritto dell’Unione Europea in ragione della avvenuta ratifica da parte di quest’ultima della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006, ricostruendo i principi espressi in materia in alcune sentenze della Corte di Giustizia, a partire dalla sentenza 11 luglio 2006 in causa C- 13/05 e fino alle pronunce successive a tale data.

In merito, i giudici di legittimità segnalano, a supporto delle proprie argomentazioni, l’articolo 5 della direttiva in esame a norma del quale è stabilito che per “garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possono ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato”.  

Tale direttiva è stata più volte richiamata dal giudice europeo e, in particolare, nella sentenza 4 luglio 2013, C 312/2011, ove si legge che gli “Stati membri devono stabilire nella propria legislazione un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati e cioè efficaci e pratici,  ad esempio sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze delle situazioni concrete (…) senza imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato”.

Va osservato, come evidenziato dalla Corte di Cassazione, che la Repubblica italiana aveva omesso di dare esecuzione alla disposizione del citato articolo 5 della direttiva ed era stata dichiarata inadempiente proprio perché non aveva stabilito, per i datori pubblici e privati, l’obbligo di prevedere “soluzioni ragionevoli” applicabili ai disabili nell’ambito del rapporto lavorativo. Il legislatore italiano, tuttavia, ha sanato tale inadempimento mediante la L. 9 agosto 2013, n, 99 inserendo, nel testo del D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, all’articolo tre, un comma tre bis. In particolare, tale nuova disposizione prevede che, per garantire il rispetto della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavori, sia pubblici che privati, sono tenuti ad adottare “accomodamenti ragionevoli” nei luoghi di lavoro per assicurare alle persone con disabilità la piena uguaglianza con gli altri lavoratori. Alla luce di tali principi sovranazionali, la Suprema Corte ha affermato che i giudici di merito hanno correttamente interpretato il diritto interno non essendosi verificata nel caso di specie alcuna violazione della libertà di iniziativa imprenditoriale di cui all’articolo 41 della Costituzione. I giudici di legittimità confermano che il recesso risulta illegittimo proprio in ragione del fatto che era possibile, per il datore di lavoro, adottare soluzioni ragionevoli atte a consentire al lavoratore disabile di svolgere il lavoro. Nel caso di specie, non si configurava per l’azienda un onere finanziario sproporzionato ai fini dell’adozione di tali accorgimenti, da considerarsi quale unico limite all’attuazione della normativa comunitaria; obbligo quest’ultimo che, in ogni caso, non comprime la libertà organizzata dell’imprenditore costituzionalmente tutelata. In sostanza, la Cassazione valorizza l’art. 5 della citata Direttiva definito dalla dottrina quale “norma baricentrica” verso cui il sistema di tutele del prestatore deve tendere, ove le “soluzioni ragionevoli” rappresentano “un architrave su cui poggiare il necessario collegamento sistematico tra i diversi sistemi messi a disposizione dell’ordinamento” (cfr. Giubboni, 7, 2015).

 

L’altra sentenza in esame, la n. 26675 del 22.10.18, completa il ragionamento decisorio seguito nella prima decisione qui analizzata; essa affronta sempre il tema della sopravvenuta inidoneità fisica allo svolgimento di mansioni e del conseguente licenziamento del prestatore di lavoro motivato proprio da tale sopravvenuta inutilizzabilità. Nel caso di specie, la Corte d’appello di Torino dichiarava risolto il rapporto di lavoro intercorso fra le parti, condannando la Congregazione datrice di lavoro al solo pagamento, in favore della prestatrice, di un’indennità risarcitoria determinata in venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

La Corte territoriale, richiamando i principi di correttezza e buona fede, nonché il bilanciamento degli interessi costituzionali richiamati nella pronuncia delle S.U. n. 7755 del 1998, riteneva illegittimo il recesso in quanto non erano state offerte alla lavoratrice posizioni lavorative alternative, anche inferiori, compatibili con il suo stato di salute, così ritenendo integrata la violazione dell’obbligo di repêchage. I giudici di merito pur ritenendo, in linea di principio, configurabile la tutela reale opinavano, tuttavia, che nella fattispecie la violazione dell’obbligo di ricollocazione non configurava un’ipotesi di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento del giustificato motivo oggettivo che avrebbe giustificato la tutela reintegratoria ex art.18 st. lav., comma 4, legge n. 92/2012, applicando così la tutela indennitaria disciplinata dal comma successivo.

La questione centrale affrontata da tale secondo provvedimento, e che lo contraddistingue e differenzia rispetto al primo, ha ad oggetto principalmente la tutela applicabile in caso di licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica o psichica. In particolare, il quesito posto alla Cassazione è se in tale ipotesi debba applicarsi la sola tutela indennitaria, come ritenuto dalla corte territoriale o, invece, la tutela reale prevista dall’art. 18 comma 4.

Il punto nodale della controversia è comprendere se, ove sussistano nell’assetto organizzativo aziendale mansioni compatibili con lo stato di salute del lavoratore, anche inferiori rispetto a quelle in precedenza espletate, il motivo addotto a giustificazione del licenziamento sia da ritenersi del tutto insussistente; e quindi, se l’esistenza di una collocazione alternativa è, nel licenziamento per inidoneità fisica, fatto costitutivo del recesso, con la conseguenza che la violazione del cd. obbligo di repêchage comporta la sanzione della reintegrazione (cfr. in tal senso C.App. Roma, 1.2.2018, in RGL, 2018, 3, II, 359, con nota di Salvagni). In merito, occorre richiamare quanto affermato dalla dottrina secondo cui il controllo di effettività operato dal giudice tramite repêchage “opera come strumento consolidato di bilanciamento e di proporzionalità tra libertà di iniziativa economica e diritto del lavoro” proprio al fine di evitare l’abuso del ricorso al licenziamento di tipo oggettivo (Caruso, 2017, 18).

A parere della Suprema Corte, il licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore è assimilabile al recesso per motivo oggettivo; dunque, nel caso in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione del licenziamento, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3 della L. 12 marzo 1999 n. 68, dovrà applicarsi la tutela reintegratoria attenuata (in tal senso, cfr. Cass. 30.11.2015, n. 24377, in www.ilgiuslavorista.it, con nota di Patrizio).

In merito, i giudici di legittimità richiamano il recente orientamento di Cassazione del 02.05.2018 n. 10435 (in LPO, 2018, 7-8, II, 481, con nota di Salvagni; cfr. M.T. Carinci, in RGL, 2018, 4, II, 459) che, seppur riferibile alla diversa fattispecie del licenziamento per motivi economici, consente l’applicazione in via analogica dei principi ivi espressi con riferimento alla violazione dell’obbligo datoriale di adibire il lavoratore a mansioni alternative, cui il medesimo risulti idoneo compatibilmente con il suo stato di salute.

Al riguardo, i giudici di legittimità, richiamando appunto il suddetto orientamento in tema di obbligo di ripescaggio e tutela reale affermano, in maniera del tutto condivisibile, che “costituirebbe una grave aporia sistematica ritenere che la violazione dell’obbligo di repêchage possa determinare una tutela reintegratoria nel caso di licenziamento per motivi economici e precluderla invece nel caso di lavoratore affetto da inidoneità fisica o psichica”.

 

– L’impostazione ermeneutica adottata dai provvedimenti in analisi conferma un orientamento che può definirsi ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità con riferimento all’obbligo di reimpiego del dipendente per sopravvenuta inidoneità alla mansione (cfr. in senso conforme: Cass. 26.10.2018, n. 27243 in GLav., 2019, 93; Cass. 5.4.2018, n. 8419, in GLav., 2018, 19, 54; Cass. 21.3.2018, n. 7065 in GLav., 2018, 18, 63; Cass. 14.2.18, n. 3616, in LG, 2018, 6, 634, che corroborano tutte il principio secondo cui il recesso non è giustificabile per effetto della sola ineseguibilità della prestazione). Tale soluzione interpretativa, peraltro, trova una’espressa previsione normativa, in via analogica, anche nell’art. 4 quarto comma l. n. 68 del 1999, in relazione all’obbligo di ricollocazione del disabile sopravvenuto, nonché nell’art. 10, comma 3, che già prevedeva, per evitare il licenziamento, l’attuazione da parte del datore di “tutti i possibili adattamenti dell’organizzazione produttiva”. Senza dimenticare che l’obbligo di trovare un ragionevole adattamento trova un ulteriore riferimento normativo, ai fini della tutela della salute e sicurezza del prestatore, nell’art. 42 d.lgs. 81 del 2008 che stabilisce, in via generale, di adibire, ove possibile, il lavoratore a mansioni equivalenti o inferiori. In tal senso, le sentenze in esame, richiamando i principi del diritto internazionale e comunitario sulla parità di trattamento del disabile (e del lavoratore divenuto inidoneo alla mansione) nel rapporto di lavoro e nel momento della risoluzione dello stesso, confermano una sorta di tutela “rafforzata” a favore del lavoratore volta a scongiurarne l’espulsione; obiettivo da attuare anche mediante il ricorso agli “accomodamenti ragionevoli” di cui all’art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, che condizionano “<> il potere di recesso del datore” (Giubboni, 2015,12). Tale ultima disposizione impone una nuova prospettiva sulla condotta, doverosa, trattandosi di un obbligo cogente e di derivazione comunitaria, a cui è tenuto il datore di lavoro per individuare soluzioni adeguate alla propria organizzazione aziendale al fine della salvaguardia del posto di lavoro, con il solo limite che tali adattamenti non determinino un costo finanziario sproporzionato a carico di quest’ultimo.

 

Riferimenti bibliografici 

Calvellini G. (2017), Obbligo di repêchage: vecchi e nuovi problemi all’esame della Cassazione, RGL, 2, II, 246; Carinci M.T. (2018), Licenziamento per G.m.o. e obbligo di repêchage, RGL, 4, II, 459; Caruso B, (2017), La fattispecie “giustificato motivo oggettivo” di licenziamento tra storie e attualità, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona, 323,18; Falsone M. (2013), Sul c.d. obbligo di repêchage e la dequalificazione contrattata, RIDL, 1, II, 73; Giubboni S. (2015), Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione dopo la legge Fornero e il Jobs Act, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona, 261, 7 e 12. Pera G. (1999), Della licenziabilità o no del lavoratore divenuto totalmente inabile., RIDL, 1, II, 170; Salvagni M. (2018), Violazione del repêchage e reintegra: l’obbligo di ricollocazione è un elemento del fatto, RGL, 3, II, 359; Salvagni M. (2018), La Cassazione in funzione nomofilattica: l’obbligo di repêchage fa parte del fatto e la sua violazione può comportare l’applicazione della tutela reale, LPO, 7-8, II, 481; Zanetto D. (2014), Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e controllo da parte del giudice, RIDL, 1, II, 296.