Violazione del repêchage e reintegra: l'obbligo di ricollocazione è un elemento di fatto

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, n.3/2018

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– La fattispecie del repêchage si collega alla tesi del licenziamento quale extrema ratio e risale alla elaborazione di un’autorevole dottrina (Mancini 1972, 243).

Tale CORTE DI APPELLO DI ROMA, 01.02.2018, n. 469 - Pres. Rel. dott. G. Pascarella -  S. S.R.L. (avv.ti Beatrice, Marrazzo ) c./ A.R. (avv. ti Alessandrini, Di Folco).

Lavoro (Rapporto di) – Licenziamento individuale - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Soppressione del posto di lavoro - Manifesta insussistenza del fatto – Obbligo di repechâge integrato nella fattispecie del g.m.o. – Violazione  – Reintegra del lavoratore

 

L’impossibilità di ricollocare il lavoratore all’interno della compagine aziendale integra uno degli elementi costitutivi della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sicché, qualora il datore di lavoro ometta di fornire la prova, trova applicazione la c.d. tutela reale attenuata introdotta dalla l. n. 92/2012 e prevista in ipotesi di “manifesta infondatezza del fatto” posto a fondamento del recesso datoriale.

 

Violazione del repechâge e reintegra: l’obbligo di ricollocazione è un elemento del fatto.

 

La teorizzazione è stata adottata dalla successiva interpretazione giurisprudenziale che, nel tempo, ha delineato il campo di delimitazione delle scelte imprenditoriali tenendo conto del necessario bilanciamento dei contrapposti interessi costituzionalmente garantiti e rappresentati dalla tutela del lavoro e dalla libertà di impresa (artt. 4 e 41 della Cost.). Inizialmente, le decisioni della Suprema Corte in tema di obbligo datoriale di repêchage hanno mostrato un prevalente orientamento più rigoroso, ove l’indagine sull’esistenza di posizioni alternative al fine di evitare il recesso comprendeva, quasi esclusivamente, la ricerca di parte datoriale di diverse soluzioni nell’ambito delle sole mansioni equivalenti, ciò in ragione del rispetto del principio della capacità professionale acquisita dal prestatore ex art. 2103 c.c. (sul punto, ex multis, v. Cass., 10.3.1992, n. 2881, in Foro it., Rep. 1993, voce Lavoro (rapporto), n.1559 e, in senso conforme, Cass., 3.6.1994, n. 5401, id., Rep. 1994, voce cit., n. 1148, nonché Cass., 27.11.1996, n. 10527, in DL, 1998, II, 173, con nota di Della Rocca e Cass., 14.12.2002, n. 17928, in RCDL, 2003, 402). Secondo tale impostazione il lavoratore, peraltro, era onerato di dimostrare l’esistenza di posti vacanti utili al proprio reimpiego (cfr. in tal senso, tra le tante: Cass., 12.2.2014, n. 3224, in NGL, 2014, 522; Cass., 1.8.2013, n. 18416, in MGL, 2014, 1/2, 35, nonché Cass., 8.11.2013 n. 25197, in LG, 2014, 181).

Conseguentemente, anche in ragione dell’inderogabilità delle disposizioni contenute nell’art. 2103 c.c., per un lungo periodo è stato, invece, minoritario l’indirizzo giurisprudenziale che riteneva essenziale la ricerca di posizioni differenti e alternative per la salvaguardia del posto di lavoro anche con riferimento a compiti inferiori (per una completa ricostruzione sull’evoluzione giurisprudenziale in tema dell’obbligo di repêchage anche in mansioni inferiori sia consentito rimandare a Salvagni 2017, 254 ss). In tal senso, si evidenzia che la giurisprudenza ha mostrato una posizione maggiormente flessibile, sostenendo la possibilità di derogare al divieto di variazione in pejus ex art. 2103 c.c. sul solo presupposto della prevalenza dell’interesse del dipendente al mantenimento del posto di lavoro (sull’adibizione a mansioni inferiori tale da non contrastare la tutela della professionalità, se rappresenta l’unica alternativa al licenziamento, v. Cass. S.U., n. 7755 del 1998, in RIDL, 1, 1999, II, 170, con nota Pera, nonché Cass., 13.8.2008, n. 21579 pubblicata rispettivamente in MGL, 2009, 159, con nota di Pisani, e in RIDL, 2009, n. 3, II, 664; cfr. anche Cass., 23.10.2013, n. 24037, in RIDL, 2014, 2, II, 296; nonché Cass., 22.5.2014, n. 11395, in D&Gonline, 2014; sulla c.d. “dequalificazione contrattata” cfr. Cass., 15.05.2012, n. 7515, RIDL, 2013, 1, II, 67, con nota di Falsone).

Recentemente, invece, la Suprema Corte ha ampliato l’ambito di applicazione dell’obbligo di repêchage, anche alla luce della eliminazione del principio di equivalenza ex art. 2103 c.c. post D.Lgs. n. 81 del 2015, affermando che lo stesso si estende inevitabilmente anche a mansioni inferiori (da ultimo, v. Cass., 26.5.2017, n. 13379, in RGL, 2017, 4, II con nota di Salvagni, 577, nonché Cass. 9.11.2016, n. 22798, Cass. del 21.12.2016, n. 26467 e Cass. 5.1.2017, n. 160, tutte pubblicate in RGL, 2017, 2, II, 245, con nota di Calvellini).  

 

Fatta tale breve premessa di ordine sistematico, si può entrare nel merito della decisione oggetto di commento. La vicenda tratta un licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato in ragione della cessazione di un appalto presso cui era adibito il ricorrente. Il Tribunale di Frosinone, sia nella prima fase Fornero sia in quella di opposizione, aveva annullato il licenziamento e reintegrato il lavoratore sul presupposto che il medesimo, in precedenza, era stato addetto su appalti diversi e che la sua prestazione non era divenuta “esuberante e non più proficuamente utilizzabile”; quindi la società non aveva fornito la prova dell’impossibilità di repêchage (sul punto, cfr. invece in senso contrario: Trib. Genova, 14.12.2013, in ADL, 2014, 3, II, 798, con nota di Biagiotti)

La Corte d’Appello di Roma afferma che, nel giudizio di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la causa petendi è costituita dall’inesistenza dei presupposti fondanti il legittimo esercizio del potere di recesso datoriale ove il lavoratore, “creditore della reintegra”, è onerato solo di allegare l’altrui inadempimento, ossia “l’illegittimo rifiuto di continuare a farlo lavorare oppostogli dal datore” in ragione del recesso, mentre quest’ultimo deve provare il fatto estintivo in “cui rientra pure l’impossibilità di repèchage”; pertanto, la Corte territoriale esclude che l’impossibilità del repechâge costituisca un autonomo fatto estintivo rispetto al giustificato motivo oggettivo e sostiene che, ai fini della legittimità del recesso, la dimostrazione di entrambi grava unitariamente sul datore di lavoro. In merito, i giudici capitolini affermano che “costituendo ormai diritto vivente l’approdo giurisprudenziale secondo cui l’impossibilità di ricollocamento del lavoratore il cui posto sia stato soppresso costituisce una delle condizioni di fatto che legittimano il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, anche tale impossibilità costituisce un elemento del “fatto” che deve sussistere per evitare l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata”.

I Giudici di appello, inoltre, evidenziano come appaia condivisibile il rilievo espresso dalla prevalente dottrina secondo cui i fatti o esistono o non esistono, onde, sul piano logico, nulla distingue un fatto insussistente da uno manifestamente insussistente (in tal senso, v. Maresca 2012, 443).

 

A seguito della L. n. 92 del 2012 è stato modificato il regime sanzionatorio applicabile in caso di licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo e ciò ha creato non pochi dubbi interpretativi sulla definizione di «manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento» che dà accesso alla tutela reale. La dottrina e la giurisprudenza, all’indomani della c.d. riforma Fornero, si sono cimentate sulle seguenti questioni: la violazione dell’obbligo di repêchage rientra o meno nella «manifesta insussistenza del fatto»? La sua inosservanza comporta o meno la tutela reintegratoria?

La tematica è di rilevante interesse proprio perché riguarda le conseguenze concrete che comporta l’eventuale violazione del dovere di ripescaggio. 

Successivamente alla riforma Fornero, quindi, si è registrato in dottrina un acceso dibattito sulla rilevanza del repêchage quale presupposto della legittimità del recesso, ove il “nodo gordiano” da sciogliere è se la mancata ricollocazione del lavoratore comporti o meno non solo la illegittimità del licenziamento ma anche la tutela reintegratoria.  

A parere di alcuni Autori, l’obbligo di repêchage non rientra tra gli elementi costitutivi della fattispecie del giustificato motivo oggettivo, comportando, in caso di violazione dello stesso, solo la sanzione indennitaria di cui al comma 5 dell’art. 18, L. n. 300 del 1970, come modificata dalla L. n. 92 del 2012 (in tal senso, Santoro-Passarelli G. 2013, 236 e Santoro-Passarelli G. 2015, 8). Al riguardo, è stato altresì affermato che l’impossibilità di repêchage rappresenta un elemento esterno al giustificato motivo e non può rientrare tra le ragioni di cui all’art. art. 3, L. n. 604 del 1966 (Persiani, 2016, 1164 ss.). Un’altra parte della dottrina, di avviso contrario, sostiene invece che il repêchage è un elemento costitutivo del giustificato motivo oggettivo e rientra pienamente nel “fatto”, la cui violazione determina quindi l’insussistenza dello stesso e la conseguente reintegrazione del lavoratore (in questo senso: Speziale 2012, 563-564; Scarpelli 2013, 284 e ss. Vallebona 2013, 750; sul punto si segnala ante riforma Fornero: Scarpelli 1997,  29 e Carabelli 2001, 217. In senso contrario, Nogler 2007, 648 e ss..). In merito, alcuni Autori hanno anche affermato che il controllo della possibilità di utilizzazione aliunde rientri nell’ambito dell’accertamento della sussistenza del fatto e la fattispecie deve ritenersi “coessenziale alla valutazione della manifesta insussistenza”, sicché la violazione dell’obbligo di ripescaggio determina l’illegittimità del recesso per carenza di giustificazione, in quanto “benché di origine giurisprudenziale, il repèchage può infatti dirsi per diritto vivente un attributo normativo sostanziale nella definizione del giustificato motivo oggettivo” (Perulli 2012, 800-801). In senso conforme, è stato altresì sostenuto che l’obbligo di ricollocazione del lavoratore è un “elemento consustanziale al fatto” (Carinci M.T. 2013, 1326) e che “il carattere manifesto, o no, dell’eventuale insussistenza del fatto afferisce anche a questo aspetto” (Amoroso 2015, 341).  

 

La giurisprudenza di merito post riforma Fornero ha sostenuto sino ad oggi, con indirizzo maggioritario, che la violazione dell’obbligo di repêchage non rientri nel fatto posto alla base del recesso ma che esso rappresenti solo una conseguenza dello stesso. Dal punto di vista della sanzione applicabile non troverebbe ingresso la tutela reintegratoria ma solo quella indennitaria ex art. 18, co. 5, St. lav.. Si segnala, al riguardo, un orientamento del Tribunale di Roma del 13.09.2017 (in G.Lav, 2018, n.13, 5) e del 8.8.2013, nonché una decisione del Tribunale di Varese (ord.), del 4.9.2013 (inedita), secondo cui, in caso di soppressione del posto di lavoro, la violazione dell’obbligo di repêchage, non costituendo “il fatto posto a base del licenziamento” bensì una sua conseguenza, comporta l’applicazione della tutela indennitaria forte di cui al co. 5 del novellato art. 18 St. Lav. (le ordinanze del Tribunale Roma del 4.9.13 e del Tribunale di Varese sono pubblicate in RIDL, 2014, 1,II, con nota di Di Carluccio, 167; sul punto, si veda anche Trib. Milano 20.11.2012, MGL, 2013, 1, 39 ss, con nota di Vallebona, nonché le seguenti decisioni inedite: Trib. Milano 7.6.17, Trib. Torino 5.4.16). I provvedimenti di merito che, invece, reintegrano il lavoratore in caso di soppressione del posto di lavoro sul presupposto che il repêchage fa parte del fatto e sulla violazione del dovere di ricollocazione sono rare e, a quanto consta, si rinviene tra quelle pubblicate solo un’ordinanza del 3.6.13 del Tribunale di Reggio Calabria (in MGL, 2014, 4, 229 ss.).

In materia di repêchage quale elemento del fatto si è espressa la Suprema Corte nel 2016 il cui orientamento, tuttavia, sembra sia passato quasi inosservato agli interpreti, i quali hanno focalizzato la propria attenzione esclusivamente sulla tematica della ripartizione dell’onere probatorio che, secondo i giudici di legittimità, deve ritenersi totalmente a carico del datore. La Cassazione, infatti, con le sentenze n. 5592 del 22 marzo 2016 e la n. 12101 del 13 giugno 2016 (pubblicate entrambe in RGL, 2016, 3, II, 302, con nota di Monterossi), ha chiarito come debba interpretarsi l’obbligo di repêchage in caso di licenziamento per motivo oggettivo e soppressione del posto di lavoro, analizzando con particolare rigore la tematica della ripartizione dell’onere della prova tra le parti. I giudici di legittimità, pertanto, con le sentenze del 2016,  aderiscono a una interpretazione “estensiva” del dovere di repêchage, laddove annoverano l’impossibilità della ricollocazione del dipendente tra i requisiti del giustificato motivo e, più precisamente, lo inquadrano “quale criterio di integrazione delle ragioni inerenti all'attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, nella modulazione della loro diretta incidenza sulla posizione del singolo lavoratore licenziato”. In particolare, tale profilo è stato approfondito dalla decisione n. 12101 del 13 giugno 2016, in cui si esclude espressamente che l’impossibilità del repêchage debba formare oggetto di apposita contestazione da parte del lavoratore. Secondo tale decisione, non “può dirsi che l’impossibilità del repêchage costituisca autonomo fatto estintivo rispetto all’esistenza di ragioni tecniche, organizzative e produttive tali da determinare la soppressione d'un dato posto di lavoro e, come tale, richieda un’apposita autonoma contestazione da parte del lavoratore: si tratta - invece - di due aspetti del medesimo fatto estintivo (il giustificato motivo oggettivo, appunto), fra loro inscindibili perché l’uno senza l’altro “è” (ndr) inidoneo a rendere valido il licenziamento”.

Al riguardo, occorre necessariamente dare conto della recente sentenza della Cassazione del 2 maggio 2018, n. 10435, in cui i giudici di legittimità confermano la tesi per cui il repêchage sia elemento interno al fatto sostenendo che “la verifica della manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento e, quindi, sia l’effettiva sussistenza delle dedotte ragioni inerenti all’attività produttiva, sia l’impossibilità di ricollocare altrove il dipendente” (in Il Giuslavorista, 22 maggio 2018, con nota di Di Paola).     

Alla luce di tali principi espressi, dapprima, dalla Cassazione nel 2016, poi, dalla sentenza in annotazione e, da ultimo, dalla recente Cassazione del 2 maggio 2018, si può sostenere che il repêchage integra appieno uno degli elementi costitutivi del giustificato motivo oggettivo e completa così tale fattispecie, comportando, quale conseguenza sanzionatoria, la tutela reintegratoria invece che quella indennitaria. Il datore di lavoro dovrà quindi dimostrare l’incidenza delle ragioni poste alla base del recesso sulla posizione del singolo lavoratore licenziato, peritandosi di provare anche l’inutilizzabilità aliunde del prestatore.

In conclusione, la sentenza in commento esprime il seguente principio di diritto: l’impossibilità di ricollocare il lavoratore all’interno della compagine aziendale integra uno degli elementi costitutivi della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sicché, qualora il datore di lavoro ometta di fornire la prova, trova applicazione la c.d. tutela reale attenuata introdotta dalla L. n. 92/2012 e prevista in ipotesi di “manifesta infondatezza del fatto” posto a fondamento del recesso datoriale.

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