Jobs Act e licenziamento disciplinare: alla ricerca della reintegrazione tentando la strada del recesso ritorsivo o discriminatorio

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato Lavoro e Previdenza Oggi, n.9/10 2016 

Pdf pubblicazione

Tribunale di Roma, Sez. IV Lav., ordinanza 4 aprile 2016 – Giud. Marrocco – P. S. (Avv. Marongiu) c. T. S.r.l. (contumace)*

 

Rapporto di lavoro – Contratto di lavoro a tutele crescenti – Sanzioni e contestazioni disciplinari – Licenziamento disciplinare – Natura discriminatoria o ritorsiva del recesso – Ripartizione onere della prova - Nullità del licenziamento – Esclusione – Insussistenza del fatto materiale contestato – Sussistenza – Reintegrazione.

 

Il licenziamento discriminatorio si può ritenere dimostrato se risulti dagli elementi di causa la sussistenza del c.d. fattore rischio e del dato oggettivo che dia conto del fatto che il lavoratore, proprio a causa delle sue condizioni e delle sue scelte, sia stato trattato in maniera differente rispetto a un altro soggetto in analoga situazione e ciò a prescindere dalla motivazione addotta e dall'intenzione di chi ha adottato il provvedimento discriminatorio. Il recesso per motivo illecito ex art. 1345 c.c., invece, ricorre ove la condotta datoriale sia stata determinata esclusivamente da un intento contra legem e, quindi, nel caso in cui vi sia stata da parte di quest’ultimo una reazione abnorme rispetto ad una condotta lecita del prestatore.

Esclusa la natura discriminatoria e comunque illecita del licenziamento e quindi gli effetti sanzionatori della nullità del recesso, lo stesso può ritenersi illegittimo ai sensi dell’art. 3, co. 2, del D.Lgs. n. 23/2015, quando sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, con conseguente annullamento del licenziamento e reintegra nel posto di lavoro

 

A scioglimento della riserva assunta all’udienza del 31.3.2016

 

Osserva

Con ricorso depositato il 22.1.2016 S. P., dipendente delle società convenuta dal 17.3.2015 con mansioni di operaia pulitrice e orario part time al 50%, chiedeva:

1)        in via principale: Accertare e dichiarare l’inefficacia e/o nullità e/o illegittimità del licenziamento intimato al ricorrente con lettera del 18.6.15 poiché discriminatorio, del tutto arbitrario (art. 2106 c.c.), ritorsivo, infondato in fatto e diritto e/o privo di giusta causa e di giustificato motivo, e/o perché intimato in violazione degli artt. 2 e 3 della L. n. 604 del 1966 così come modificato dall'art. 2 della L. n. 180/90, per vizio di motivazione, delle regole di buona fede e correttezza durante lo svolgimento del rapporto di lavoro (artt. 1175 e 1375 c.c.) e/o in violazione delle norme collettive e di legge disciplinanti il licenziamento del lavoratore;

2)        per l’effetto ordinare, ex art. 18 L. n. 300/70 così come modificata, la società datoriale, in persona del legale rappresentante p.t.:

a) di disporre l’immediata reintegra in servizio di parte ricorrente con le mansioni proprie della qualifica rivestita all’atto del licenziamento;b) condannare la stessa a corrispondere a parte ricorrente, a titolo di risarcimento del danno subito a causa dell’indebita estromissione dal rapporto di lavoro, una somma commisurata alle retribuzioni globali di fatto che il ricorrente avrebbe percepito dalla data di efficacia del licenziamento (18.06.15) a quella della effettiva reintegra nella misura di € 821,00 lordi (ultima retrib. x 15/12);c) oltre contributi assistenziali e previdenziali come per legge, maggiorate della rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla data di maturazione di ciascun credito sino ad effettivo soddisfo;d) oppure in subordine nella misura massima prevista dai commi 5-6-7 dell’art. 18 St. lav. così come riformato, oppure in subordine sulla base di quanto disposto dal D.Lgs. n. 23/2015 oppure in subordine quella ritenuta di giustizia;

- vinte le spese di lite, da distrarsi.

srl, ritualmente citata, restava contumace.

Istruita per documenti, la causa era trattenuta in riserva all’udienza odierna per la decisione.

Sciogliendo la riserva, osserva immediatamente il Giudice che la presente controversia deve essere trattata col rito previsto dall’art. 1 co. 48 ss. della L. n. 92/2012, in quanto la domanda attorea ha ad oggetto l’impugnazione di un licenziamento e il conseguente diritto della lavoratrice alla tutela ex art. 18 L. n. 300/70 ss. mm., sicché la relativa azione è sussumibile nella fattispecie di cui al comma 47 del citato art. 1, che tanto richiede.

L’evenienza, poi, che il decreto di fissazione dell’udienza sia stato reso ai sensi dell’art. 415 c.p.c. (v. decreto dell’11.2.2016), non comporta che la cognizione dell’Ufficio debba proseguire col rito speciale del lavoro regolato dagli artt. 414 ss. c.p.c., stante la non disponibilità delle forme processuali in ragione della loro rilevanza pubblicistica e l’evidente alterità tra il processo ordinario di cognizione - tal è quello che si celebra con il rito speciale degli artt. 414 ss. c.p.c. - e il processo speciale di cognizione inerente l’impugnazione del licenziamento ex L. n. 92/2012 - da celebrare appunto con il rito speciale introdotto dalla stessa fonte legislativa, del tutto diverso da quello degli artt. 414 ss. c.p.c..

Nondimeno, l’adozione del decreto di fissazione dell’udienza ai sensi dell’art. 415 c.p.c. non ha prodotto alcuna lesione del diritto di difesa della parte convenuta, considerando che il termine a comparire previsto dall’art. 415 c.p.c. è più ampio di quello contemplato nell’art. 1 co. 48 L. n. 92 cit. e che la prima fase del procedimento c.d. Fornero è sicuramente meno preclusiva di quanto non lo sia il procedimento ex art. 414 ss. c.p.c. (argomenta da Cass. 25046/2015).

Passando quindi al merito della controversia e iniziando la disamina delle censure attoree da quella inerente la discriminatorietà e ritorsività del licenziamento, osserva immediatamente il Giudice che il rapporto di lavoro tra le parti ha avuto origine il 17.3.2015, sicché alla fattispecie al vaglio va fatta applicazione della L. n. 23/2015, entrata in vigore il giorno 7 marzo.

Ebbene, l’art. 2 della legge indicata, nel modificare l’art. 18 L. n. 300/70, sanziona con la tutela reintegratoria forte il licenziamento nullo, intendendo per tale sia il recesso datoriale discriminatorio ai sensi dell’art. 15 L. n. 30070 sia quello riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge.

L’individuazione delle ipotesi di nullità previste dalla legge va allora eseguita alla stregua dell’art. 1418 c.c., che, per quanto qui interessa, considera il contratto colpito da tale vizio nel caso d’illiceità dei motivi ex art. 1345 c.c.; poiché per il tramite dell’art. 1324 c.c. la norma si applica anche i negozi unilaterali, appare evidente che il licenziamento ritorsivo è ipotesi di negozio unilaterale nullo per illiceità dei motivi, costituendo in tal caso il recesso datoriale l’ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore.

Vale osservare che la previsione positiva della nullità del licenziamento per discriminazione quale tipo distinto da quello scaturente dall’illiceità del motivo ex art. 1345 c.c. induce in via di esegesi a ritenere le due fattispecie non sovrapponibili e a ricercare, con una disamina più accurata, le differenze tra l’una e l’altra.

L’evenienza, che entrambe le ipotesi di licenziamento nullo producano i medesimi effetti sanzionatori, non è argomento che sostenga con efficacia dialettica e viepiù tecnico-giuridica l’inutilità della predetta disamina, perché, se l’intento del legislatore, quale manifestato dal significato proprio delle parole utilizzate nella redazione della norma, è stato quello di tenere distinte le due fattispecie, l’interprete non può che dar conto di tanto, focalizzandone in conformità la portata precettiva.

Tale scelta ermeneutica non è peraltro di poco momento laddove si considerino, poi, le implicazioni processuali di tanto, giacché gli oneri probatori correlati all’una o all’altra fattispecie di - latu sensu - nullità del licenziamento non possono che essere misurati in ragione della configurazione sostanziale di ciascuna fattispecie.

Con riguardo, allora, al licenziamento discriminatorio, si osserva che la normativa di riferimento (art. 4 L. n. 604/1966 e 3 L. n. 108/90, 15 L. n. 300/70) considera tale il recesso datoriale determinato da credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza o meno ad un sindacato, dalla partecipazione ad attività sindacali o ad uno sciopero, da ragioni razziali, di lingua o sesso, dall’handicap, età, dall’orientamento sessuale o da convinzioni personali; l’art. 4 della L. n. 604/66 sanziona peraltro di nullità il licenziamento discriminatorio “indipendentemente dalla motivazione adottata”.

Quanto alla portata del concetto “trattamento discriminatorio” la SC ha anche da ultimo chiarito che è significativa acquisizione dell’elaborazione dottrinale, giurisprudenziale e normativa in materia quella per cui, al fine che interessa, rileva il mero fatto oggettivo che il lavoratore non avrebbe subito il trattamento sfavorevole se non si fosse trovato ad integrare il fattore di rischio contemplato dall'ordinamento (Sez. Lav., Sentenza n. 3821 del 16/02/2011).

Così stando le cose, è allora chiaro che la fattispecie in disamina si potrà considerare dimostrata nel processo se, pur provata la causa legittima del recesso ex art. 1 L. n. 604/66, vi sia riscontro agli atti della sussistenza del c.d. fattore di rischio e del dato oggettivo, che dia conto del fatto che il lavoratore, proprio a causa della sua condizione o delle sue scelte, sia stato trattato in maniera differente rispetto a quanto sia, sia stato o sarebbe stato trattato un altro soggetto in analoga situazione e ciò a prescindere dalla motivazione addotta e dall’intenzione di chi ha adottato il provvedimento discriminatorio.

Quanto alla ripartizione degli oneri probatori sarà dunque senza dubbio a carico del datore di lavoro la prova della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento ex art. 5 L. n. 604/66, la cui assenza peserebbe senza dubbio in modo rilevante nella formulazione del giudizio, che si richiede; ma sarà a carico dello stesso anche la prova dell’assenza della discriminazione, ex punto 4 dell’art. 28 del D.Lgs. n. 150/2011, in forza del quale “Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell'azienda interessata”.

Sarà invece a carico del lavoratore l’onere di dimostrare il c.d. fattore di rischio e allegare i dati di fatto significativi della disparità di trattamento, ex art. 28 cit..

Con riguardo, invece al licenziamento per motivo illecito, si osserva che l’art. 1345 c.c. richiede ai fini della nullità del negozio che la volontà dell’agente, dunque per quanto qui interessa il datore di lavoro, sia stata determinata in via esclusiva da un intento contra legem.

Pertanto, il negozio riferibile a tale fattispecie è quello rispetto al quale la volontà datoriale, perseguendo per il vero scopi riprovevoli ed antisociali, si pone come abnorme reazione alla condotta del lavoratore e legandosi i due momenti per un rapporto di causalità esclusivo e decisivo.

Se questo è il contesto di riferimento, allora è indubbio che la dimostrazione da parte del datore di lavoro della sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso ai sensi dell’art. 5 L. n. 604/66 negherà ex se l’esistenza di un motivo illecito rilevante per legge, in quanto ne contraddice la connotazione di esclusività richiesta dalla fattispecie astratta di riferimento e non consentendo di certo la chiara lettera dell’art. 1345 c.c. una comparazione tra più causali del negozio.

Al contrario, spetterà al lavoratore dar conto non solo dell’insussistenza dei motivi di licenziamento addotti dal datore di lavoro, ma pure dell’illiceità della reazione datoriale, nonché della consequenzialità -e non sola contiguità- di detta reazione alle condotte da lui poste in essere; tale prova, peraltro, ben potrà essere fornita con presunzioni (Cass., Sez. Lav., Sentenza n. 17087 del 08/08/2011), se ovviamente si sia in presenza di indizi gravi, precisi e concordanti.

Operata questa indispensabile premessa e passando all’esame delle fattispecie controversa, si osserva allora che la ricorrente, nell’impugnare per discriminatorietà il licenziamento intimatole, ha dedotto che il fattore di rischio sarebbe stato integrato dal suo essere madre che fruiva dei congedi parentali per malattia di figlio minore dei tre anni.

Tuttavia, è palese che tale situazione non sia riconducibile ad alcuna delle ipotesi di discriminazione esemplificate positivamente.

A ciò si aggiunga che non è stato assolto da parte della ricorrente neppure l’onere di allegare fatti sintomatici della situazione di svantaggio in cui si sarebbe trovata rispetto ad altri, estranei al fattore – asserito - di rischio vietato; basti pensare che la P. non ha indicato neppure un caso, in cui un altro lavoratore o un’altra lavoratrice sarebbero stati destinatari di un trattamento datoriale più benevolo ancorchè assenti dal lavoro.

Ne consegue che, per ciò solo, la fattispecie concreta non può essere riferita a quella astratta di riferimento, con la conseguenza che la pretesa di ritenere nullo il licenziamento impugnato per discriminatorietà resta del tutto infondata.

Ritiene poi il Giudice che il licenziamento intimato alla ricorrente non possa neppure essere qualificato nullo perché sorretto da motivo illecito, come pure preteso in ricorso.

Si osserva, infatti, che la lettera di licenziamento attesta che il recesso conseguiva a un “… comportamento del tutto inadeguato sul luogo di lavoro e una marcata arroganza nei confronti del personale operativo utilizzando anche un linguaggio scurrile e dai toni molto accesi …”, di cui alla contestazione del 27.3.2015 nonché alle “… assenze ingiustificate a far data dal 30 maggio 2015 fino al 16 giugno 2015 con conseguente disagio organizzativo e logistico arrecato all’azienda …”, di cui alla contestazione del 10 giugno 2015 …”; emerge altresì che la parte datoriale aveva avuto riguardo, per recedere dal rapporto, anche alla mancata osservanza da parte della P. dell’orario di lavoro, contestata con lettera del 22.5.2015 e sanzionata con la multa di tre ore.

Ebbene, come rettamente rilevato in ricorso, il recesso datoriale è stato intimato addirittura per un fatto che, al momento della contestazione -che si dice elevata il 10 giugno 2015, non si era del tutto verificato, giacché a tale data la P. non poteva di sicuro essere stata assente e viepiù in modo ingiustificato fino al successivo 16 giugno.

Peraltro, la documentazione prodotta da parte attrice attesta in modo piano che l’obbligazione lavorativa era stata esattamente adempiuta anche nel mese di giugno, per avere la P. o reso in concreto la sua prestazione lavorativa ovvero titolato l’assenza ad una specifica e legittima ragione giustificatrice (riposo, malattia bambino): in tal senso è infatti univoco il tenore del foglio presenze concernente il periodo in questione, all’evidenza recepito nella busta paga di tale mese, dal momento che risulta ivi annotato che la ricorrente, licenziata il giorno 18, era retribuita per 19 giorni lavorativi (dunque, tutti i giorni del mese di riferimento).

Non vi è peraltro dubbio sulla piena utilizzabilità ai fini del decidere della predetta busta paga, trattandosi di scrittura che, provenendo da parte datoriale, ben può ora far prova in giudizio a carico della stessa.

Quanto alle altre condotte sanzionate con il licenziamento in esame, rileva il Giudice che, allo stato degli atti e nella contumacia del datore di lavoro su cui gravava il relativo onere, non solo non vi è prova in giudizio della loro attribuibilità e rimproverabilità alla P., ma, ancor prima, non vi è neppure riscontro della loro precisa consistenza fattuale, nulla emergendo in merito dalla lettera di licenziamento.

Medesime osservazioni valgono pure riguardo alla mancata osservanza dell’orario di lavoro - che si dice - contestata alla P. con lettera del 22.5.2015, fermo restando che, poiché per stessa ammissione del datore di lavoro (v. lettera di licenziamento) il potere punitivo era stato già esercitato in merito con l’irrogazione della multa di tre ore, tale condotta non poteva essere sanzionata di nuovo, ostandovi i principi generali della materia.

In tale contesto, deve allora dirsi dimostrata da parte attrice l’illegittimità del recesso datoriale.

Ciò nonostante, non vi è prova in atti che il licenziamento sia avvenuto per l’unico e determinante motivo di ritorsione rispetto a legittime istanze della P..

Invero, manca la conferma in giudizio dell’asserita ostilità della parte datoriale all’esercizio, da parte della stessa, dei diritti previsti a tutela della lavoratrice madre, allegata allo scopo in ricorso, perché la prova testimoniale che di tanto avrebbe dovuto dar conto è del tutto inammissibile, nella genericità e valutatività del relativo capitolato (capp. 2 e 3).

Né la prova in questione può ritenersi offerta in via presuntiva, dato che dal ricorso emergono indizi non concordanti nel senso preteso; in particolare, va rilevato che nell’atto introduttivo si afferma (punto 8) che il censurato comportamento datoriale sarebbe stato finalizzato – finanche - a determinare le dimissioni della lavoratrice, con ciò rinviando concettualmente ad un motivo del tutto diverso da quello che qui rileverebbe.

Esclusa quindi anche la natura illecita del recesso datoriale, resta così al vaglio dell’Ufficio la sola questione dell’illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto sottesovi dal datore di lavoro, insussistenza accertata in giudizio - come si è visto - sia attraverso la documentazione prodotta dalla lavoratrice sia attraverso il mancato assolvimento da parte del datore di lavoro dell’onere probatorio che gli incombeva.

Ebbene, in tali termini la fattispecie ricade appieno nell’art. 3 co. 2 della L. n. 23 citata, che disciplina proprio l’ipotesi del “ … licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento ….”.

Di conseguenza, e somministrando la tutela prevista dalla medesima norma, il licenziamento al vaglio va annullato e il datore di lavoro deve essere condannato a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro precedentemente occupato e a pagarle un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione e comunque non essere superiore a dodici mensilità.

Tale retribuzione ammonta, nel caso di specie, a € 766,26 (ultima retribuzione giusta buste paga in atti x 14 : 12).

Su tale somma spettano altresì alla ricorrente ex art. 429 c.p.c. la rivalutazione monetaria e gli interessi legali dalla maturazione del credito al saldo.

Va invece escluso che dall’indennità risarcitoria, per come determinata, possa essere detratto l’aliunde perceptum o percipiendum, non risultando in atti che la P. abbia svolto nelle more altra attività lavorativa e potendosi verosimilmente escludere che la ricerca di altra occupazione sarebbe potuta essere fruttuosa, stante la situazione familiare della stessa, caratterizzata dalla presenza di bambini in tenera età, e la particolare congiuntura economica.

Parte datoriale va altresì condannata, come per legge, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva.

Pertanto, assorbite tutte le altre questioni prospettato in ricorso, che non consentirebbero alla parte di ottenere più di quanto così riconosciuto, e respinte le altre domande azionate in via principale, va provveduto in conformità.

Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e sono distratte in favore del procuratore di parte ricorrente, dichiaratosi antistatario.

 

P.Q.M.

 

Annulla il licenziamento intimato alla ricorrente con lettera del 18.6.2015.

Condanna la società convenuta a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro precedentemente occupato e a pagarle un'indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, pari a € 766,26, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, comunque non superiore a dodici mensilità, con la rivalutazione monetaria e gli interessi legali dalla maturazione del credito al saldo.

Condanna la società convenuta al versamento in favore della ricorrente dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva.

Respinge le altre domande azionate in via principale dalla ricorrente.

Condanna la società convenuta al pagamento in favore della ricorrente delle spese di lite, che liquida in complessivi € 2.500,00 oltre spese generali, iva e cpa, da distrarsi.

 


Nota a Tribunale di Roma, Sez. IV Lav., ordinanza 4 aprile 2016

 

di Michelangelo Salvagni*

 

Sommario: 1. Considerazioni preliminari - 2. Il caso di specie e le condotte contestate - 3. Differenze tra condotta discriminatoria e ritorsiva anche con riferimento alla diversa ripartizione dell’onere della prova - 4. Insussistenza del fatto materiale, illegittimità del licenziamento e reintegrazione  -5. Rilievi conclusivi.

 

 

Considerazioni preliminari

 

La questione trattata dall’ordinanza in commento risulta di notevole interesse per le varie tematiche affrontate: rapporto di lavoro instaurato con contratto a tutele crescenti, licenziamento disciplinare, richiesta di accertamento di condotte ritorsive o discriminatorie e relative differenze tra le due fattispecie, anche con riferimento alla diversa ripartizione dell’onere della prova, insussistenza del fatto materiale e reintegrazione del lavoratore.

Il titolo della odierna annotazione, volutamente provocatorio, tenta di focalizzare immediatamente l’attenzione del lettore su una problematica che, per così dire, ha in un certo senso “preoccupato” o “tranquillizzato” (a seconda della corrente di pensiero di appartenenza) i vari addetti al mondo giuslavoristico: ossia la morte annunciata della reintegrazione del lavoratore a causa del Jobs Act[1].

Appare opportuno richiamare sul punto quanto affermato dalla dottrina che, dopo aver sostenuto che il D.Lgs. n. 23 del 2015 non rinuncia in realtà a tutelare i lavoratori licenziati ingiustamente visto che è prevista la sanzione della reintegrazione per le ipotesi di licenziamento nullo, osserva che “rispetto alla regola precedente, ciò che è cambiato è il presupposto della reintegrazione che non è più la mera e generale illegittimità quanto la nullità”.[2]

E forse, proprio in ragione di tali timori che attanagliano le parti che agiscono in giudizio, che la fattispecie in analisi, così come rappresentata al Tribunale di Roma, appare connotata dalla ricerca di più opzioni (ossia l’accertamento del recesso ritorsivo o discriminatorio) che possano garantire all’istante l’agognata reintegrazione, mediante un percorso indubbiamente più difficile ma, forse, ritenuto più sicuro rispetto alla strada ordinaria dell’accertamento dell’insussistenza del fatto materiale, così come prevista dall’art. 2 del D.Lgs. 23/2015. Fenomeno questo che era stato già previsto dalla dottrina all’indomani del nuovo testo ex art. 18 a seguito della cosiddetta riforma Fornero. In merito, è stato infatti sostenuto che vi sarebbe stata “una corsa alla discriminazione nel licenziamento in sede processuale, in quanto unica porta di accesso alla tutela reintegratoria piena”.[3]

Nel caso di specie, infatti, la lavoratrice, a fronte di un licenziamento avente natura disciplinare, ha prospettato in giudizio diverse domande al fine di ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro. Al vaglio del Tribunale, per il medesimo fatto contestato che ha determinato il recesso, la ricorrente ha richiesto, in prima istanza, la declaratoria della nullità dello stesso perché discriminatorio o ritorsivo per motivo illecito determinante. In via subordinata, l'infondatezza del licenziamento per insussistenza del fatto materiale contestato.

Occorre evidenziare che l’impostazione difensiva della lavoratrice, a dire il vero, risulta connotata da una tecnica giuridica non sempre adatta e coerente con gli istituti invocati.

Nelle deduzioni della dipendente manca, difatti, un puntuale riferimento a quei cogenti elementi di prova che dovrebbero essere forniti dalla parte per supportare la dimostrazione in giudizio delle complesse fattispecie della condotta discriminatoria o ritorsiva, come verrà meglio evidenziato in seguito.

Tale premessa appare opportuna anche per consentire una migliore comprensione dello sforzo ermeneutico del giudice che, in base al principio dispositivo, è tenuto a dare risposta a tutte le domande presentate in giudizio al fine di trovare la soluzione più corretta rispetto al caso concreto.

In ragione delle circostanze argomentate in corso di causa, il Tribunale ha dovuto quindi valutare attentamente se i fatti posti alla base dell’allontanamento della ricorrente fossero effettivamente connotati da quegli elementi che necessariamente devono caratterizzare la condotta del datore di lavoro quando si invochi una discriminazione o, invece, un comportamento ritorsivo.

 

 

Il caso di specie e le condotte contestate

 

Fatta tale doverosa introduzione di ordine sistematico, anche per consentire un immediato inquadramento delle problematiche oggetto di annotazione, entriamo nello specifico dei fatti di causa.

Va preliminarmente osservato che l'ordinanza in esame, a quanto consta, è il primo provvedimento emesso dal Tribunale di Roma in materia licenziamento in relazione ad un rapporto di lavoro a tempo indeterminato instaurato dopo l’entrata in vigore del cosiddetto Jobs Act (il rapporto tra le parti ha avuto origine in data 17 marzo 2015).

Nella presenta vicenda, quindi, trovano applicazione le disposizioni del Decreto legislativo n. 23 del 2015 e le conseguenti sanzioni in materia di licenziamento.

In sintesi, la lettera di recesso richiamava una serie di contestazioni disciplinari asseritamente poste in essere dalla lavoratrice che, per completezza di ricostruzione degli avvenimenti oggetto di controversia, di seguito si riassumono: i) un comportamento del tutto inadeguato sul luogo di lavoro e una marcata arroganza nei confronti del personale mediante l'utilizzo di un linguaggio volgare e dai toni accesi, contestato con lettera del 27 marzo 2015; ii) assenze ingiustificate dal 30 maggio al 16 giugno 2015, contestate con lettera del 10 giugno 2015; iii) mancata osservanza dell'orario di lavoro, contestata con lettera del 22 maggio 2015 e sanzionata con tre ore di multa.

Innanzitutto, va precisato che la società resistente, nonostante fosse stata ritualmente chiamata in giudizio, è rimasta contumace e che il Tribunale di Roma ha trattato la controversia con il rito previsto dall’art. 1, comma 48 e ss. della L. n. 92/2012, affermando in merito che “la domanda della lavoratrice ha ad oggetto l’impugnazione del licenziamento e il conseguente diritto della lavoratrice alla tutela ex art. 18, L. n. 300/70, sicché la relativa azione è sussumibile alla fattispecie di cui al comma 47 del citato art. 1, che tanto richiede”.

 

 

Differenze tra condotta discriminatoria e ritorsiva anche con riferimento alla diversa ripartizione dell’onere della prova

 

Passando all’analisi del provvedimento in commento, il giudice ha dovuto preliminarmente valutare, sulla base del petitum e delle deduzioni attoree, se si fossero concretamente verificate le invocate ipotesi del licenziamento discriminatorio o ritorsivo, per poter eventualmente riconoscere, in via principale, la cosiddetta tutela reintegratoria “forte” prevista per il licenziamento nullo, come stabilita dall’art. 2 del D.Lgs. n. 23/2015, nei casi di recesso discriminatorio o negli altri casi di nullità previsti espressamente per legge.

Sul punto, il magistrato ha sottolineato che se l'intento del legislatore, come manifestato dal significato delle parole utilizzate nella formulazione dell'art. 2 del D.Lgs. 23/2015, è stato quello di tenere distinte la discriminazione e la ritorsione, visto che quest’ultima fattispecie non è stata espressamente richiamata nella formulazione della norma citata, il giudice deve quindi tener conto delle differenze esistenti tra loro. Ed infatti, osserva correttamente il Tribunale capitolino che, sebbene “entrambe le ipotesi di licenziamento producano i medesimi effetti sanzionatori”, le stesse, tuttavia, non sono “sovrapponibili” proprio perché i presupposti per la loro realizzazione sono diversi.

Conseguentemente, il giudice ha affrontato il tema della differente ripartizione dell'onere della prova che caratterizza queste due categorie giuridiche che, a volte, sono state sovrapposte anche dalla giurisprudenza. Per quanto riguarda il licenziamento discriminatorio, l’ordinanza in analisi stabilisce che lo stesso può ritenersi dimostrato se emerga dagli elementi di causa la “sussistenza del c.d. fattore rischio e del dato oggettivo, che dia conto del fatto che il lavoratore, proprio a causa delle sue condizioni e delle sue scelte, sia stato trattato in maniera differente rispetto a quanto sia stato o sarebbe stato trattato un altro soggetto in analoga situazione e ciò a prescindere dalla motivazione addotta e dall'intenzione di chi ha adottato il provvedimento discriminatorio”.[4]

Pertanto, nel caso di recesso discriminatorio, secondo quanto sostenuto dalla statuizione in esame, il datore di lavoro, nell’ambito della ripartizione dell’onus probandi, dovrà dimostrare: da una parte, ex art. 5, L. n. 604/66, l'esistenza della motivazione addotta a giustificazione del recesso, la cui mancanza peserebbe in maniera rilevante quale indizio della condotta illegittima; dall'altra, in base a quanto previsto dal punto 4 dell'art. 28 del D.Lgs. n. 150/11, l'assenza della discriminazione. Di contro, il prestatore, sempre ex art. 28, D.Lgs. n. 150/11, dovrà provare il “c.d. fattore rischio e allegare i fatti significativi della disparità di trattamento”.

Il Tribunale capitolino ha poi esaminato anche il tema del licenziamento ritorsivo per motivo illecito determinante, evidenziando che in tale evenienza il lavoratore, in base all'art. 1345 c.c., deve provare che l’atteggiamento datoriale sia stato determinato esclusivamente da un intento contra legem e, quindi, che vi sia stata da parte di quest’ultimo una reazione abnorme rispetto ad una condotta lecita.[5] Il prestatore, pertanto, dovrà dimostrare non solo l’infondatezza dei motivi dell’allontanamento, ma anche l’illiceità e la consequenzialità della reazione del datore alle proprie condotte, potendo utilizzare in tal senso le presunzioni ex art. 2729 c.c.. Tale interpretazione trova riscontro nell’orientamento della Suprema Corte secondo cui, nel caso di licenziamento per motivo illecito determinante, il lavoratore è tenuto a provare in giudizio anche l’animus nocendi o vindicandi del datore di lavoro, dovendo caratterizzarsi il recesso per una ingiusta ed arbitraria reazione di quest’ultimo ad un comportamento lecito del lavoratore.[6]

Il magistrato, tuttavia, dopo aver effettuato tale compiuta ricostruzione sulle differenze tra i due citati istituti normativi (discriminazione e ritorsione), ha ritenuto insussistenti i profili di nullità richiesti dalla lavoratrice.

L’ipotesi discriminatoria è stata considerata non dimostrata, in quanto la ricorrente non ha allegato in giudizio “i fatti sintomatici della situazione di svantaggio in cui si sarebbe trovata rispetto agli altri”; ed infatti, non è stato indicato in atti neppure un caso dal quale si potesse riscontrare un trattamento datoriale discriminatorio. Il giudice, altresì, ha reputato insussistente il motivo illecito determinante, come preteso in ricorso, poiché l’istante non ha fornito la prova “che il licenziamento sia avvenuto per l'unico e determinante motivo di ritorsione rispetto a legittime istanze”, mancando la conferma della presunta ostilità del datore all'esercizio dei diritti previsti a tutela della lavoratrice madre. La prova testimoniale offerta sul punto, infatti, è stata valutata inammissibile, poiché generica e valutativa.

 

Insussistenza del fatto materiale, illegittimità del licenziamento e reintegrazione

 

Il giudice, invece, dopo aver escluso la natura discriminatoria e, comunque, ritorsiva del licenziamento, ne ha constatato l’illegittimità, per insussistenza del fatto materiale contestato, in ragione degli stessi elementi documentali forniti dalla parte ricorrente. Ciò in considerazione delle seguenti circostanze: a) le assenze ingiustificate dal 30 maggio al 16 giugno 2015, erano state contestate con lettera del 10 giugno 2015; il fatto, al momento della contestazione del 10 giugno, non si era del tutto verificato e quindi la lavoratrice non poteva essere assente in modo ingiustificato sino al 16 giugno ma, semmai, solo fino al 10 giugno; b) sia il foglio presenze che la busta paga concernenti il mese di giugno, prodotti in giudizio dalla ricorrente, hanno dimostrato che la medesima ha esattamente adempiuto l'obbligazione lavorativa anche nel mese di giugno; c) quanto alle altre condotte sanzionate nella lettera di licenziamento, stante la contumacia del datore di lavoro, sul quale gravava il relativo onere, non è stata fornita in giudizio la prova della loro attribuibilità alla lavoratrice; d) infine, sulla mancata osservanza dell'orario di lavoro, contestata con lettera del 22.05.15, visto che per tale addebito il datore aveva già esercitato il potere disciplinare con l'irrogazione di una multa di tre ore, tale condotta non poteva essere di nuovo sanzionata, essendosi già consumato il potere disciplinare.

In considerazione di tali elementi, il Tribunale di Roma, stante l'insussistenza dei motivi posti a giustificazione del recesso, accertata in giudizio sia attraverso la documentazione prodotta sia in virtù del mancato assolvimento dell’onere probatorio incombente sul datore di lavoro, ha applicato l'art. 3, comma 2, del D.Lgs. n. 23/2015, che disciplina l'ipotesi del “... licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore ...”.

In base a tale norma, il magistrato capitolino ha annullato il licenziamento, ha disposto la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, condannando altresì il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello di effettiva reintegrazione e, comunque, non superiore a dodici mensilità.

 

 

Rilievi conclusivi

 

In conclusione, alla luce di quanto statuito dal provvedimento in analisi, si può affermare che il percorso per ottenere in giudizio la nullità del licenziamento, secondo la nuova formulazione dell’art. 2 del D.Lgs. n. 23/2015, risulta veramente “tortuoso” e difficoltoso nel momento in cui la parte che ne invoca gli effetti sanzionatori non supporti adeguatamente le proprie richieste mediante puntuali deduzioni e produzioni documentali.

È comprensibile che al tempo del Jobs Act, le cui disposizioni limitano fortemente la tutela reintegratoria rispetto al passato, la tecnica delle parti che agiscono in giudizio tenti di far rientrare dalla “finestra” ciò che, inevitabilmente, il legislatore ha invece fatto uscire dalla “porta principale”.

L’ordinanza in commento, pertanto, ha il pregio di offrirci, all’indomani della nuova Legge n. 23/15, da una parte, una prima panoramica sulle differenze esistenti tra il recesso avente natura discriminatoria e quello di tipo ritorsivo, quando sia formalmente irrogato un licenziamento disciplinare e, dall’altra, una prima interpretazione sul tipo di sanzione applicabile a seconda della tutela richiesta.

Le due fattispecie sin qui esaminate, che spesso vengono utilizzate dalle parti in maniera indifferenziata o promiscua al fine di ottenere la declaratoria della nullità del licenziamento, invece, come giustamente osservato dal Tribunale di Roma, sono ipotesi diverse e non sovrapponibili tra loro e che, in particolare, richiedono una diversa ripartizione dell’onere della prova ai fini della dimostrazione della condotta illecita del datore di lavoro.

* Segue nota di Michelangelo Salvagni.

* Cultore di diritto del Lavoro - Università di Roma “La Sapienza”. Avvocato in Roma.

[1] In tal senso, sulla tesi della reintegrazione come eccezione e della tutela indennitaria come regola a seguito dell’entrata in vigore del Jobs Act si veda M. T. Carinci, Il licenziamento nullo perché discriminatorio, intimato in violazione di disposizioni di legge o in forma orale, in M. T. Carinci - A. Tursi (a cura di), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Torino, 2015, 27 e ss..

[2] V. Bavaro – M. D’Onghia, Profili costituzionali del licenziamento nullo, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, 305, 2016, 3.

[3] M. Biasi, Il nuovo articolo 18 dopo un anno di applicazione giurisprudenziale: un bilancio provvisorio,in Arg. dir. lav., 2013, 4-5, 1244.

[4] In dottrina, per una completa disamina delle differenze tra licenziamento discriminatorio e ritorsivo alla luce del D.Lgs. n. 23 del 2015, si veda E. Pasqualetto, Il licenziamento discriminatorio e nullo nel “passaggio” dall’art. 18 Stat. Lav. all’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015, in www.bollettinoadapt, vol. 46, 48 e ss., nonché cfr. M. Russo, Prime osservazioni sul licenziamento discriminatorio e nullo nel Jobs Act, in Lavoro e prev. oggi, 2015, 3-4, 141 e ss.. Invece, con riferimento al recesso discriminatorio dopo la riforma Fornero e prima del D.Lgs. n. 23 del 2015, si veda tra i vari commentatori: P. Sordi, Il nuovo art. 18 della Legge 300 del 1970, in L. Di Paola (a cura di), La riforma del lavoro. Primi orientamenti giurisprudenziali dopo la Legge Fornero, Milano, 2013, 254 e ss., nonché cfr. P. Bellocchi, Il licenziamento discriminatorio,in Arg. dir. lav., 2013, 4-5, I, 842 e ss. e, infine, C. Musella, I licenziamenti discriminatori e nulli, in G. Ferraro (a cura di), I licenziamenti nel contratto a tutele crescenti, Padova, 2015, 18 e ss.. Si segnala poi, per una completa disamina sulle questioni del licenziamento discriminatorio, M. Barbera, Il licenziamento alla luce del diritto antidiscriminatorio, in Riv. giur. lav., 2013, 1, 139 e ss..

 

[5] Sul licenziamento ritorsivo, tra i vari commentatori, si veda E. Gragnoli, La nozione di licenziamento ritorsivo e le possibili motivazioni del recesso, in Riv. giur. lav., 2010, 1, II, 59 e ss. e, da ultimo, cfr. A. Gambardella, Configurabilità del carattere ritorsivo nel licenziamento ingiustificato, in Riv. giur. lav., 2016, n. 2, II, 177.

[6] In tal senso, Cass. 3 agosto 2011, n. 16925, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, 362, nonché cfr. Cass. 6 giugno 2013, n. 14319, con nota di R. D’Amore, Licenziamento ritorsivo: necessità di provare le decisività e l’esclusività dell’animus vindicandi, in Riv. giur. lav., 2013, 4, II, 633 e ss.. Si segnala anche Cass. 9 luglio 2009, n. 16155, con nota di E. Gragnoli, op cit., 59 e ss., ove la Suprema Corte afferma che “se il recesso è frutto della volontà di estromettere un prestatore di opere per il legittimo esercizio di un potere o di un diritto riconosciuto dall’ordinamento, ricorre un intento intimidatorio, sufficiente per l’illiceità del motivo, che deve essere accomunato a quello discriminatorio … il recesso per rappresaglia ha motivo illecito perché tale è la caratteristica qualificante della ritorsione, nel suo essere una iniqua risposta a una determinazione lecita del dipendente e, quindi, un odioso strumento volto a conculcare la libertà ...”.