Articolo di Michelangelo Salvagni
Pubblicato in Lavoro e Previdenza Oggi, n. 5-6/2016
Sulla natura disciplinare del licenziamento per scarso rendimento in caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore
Tribunale di Roma, ordinanza 24 dicembre 2015 – Est. Buconi – G. M. (Avv. C. de Marchis e V. Piresti) c. A. F. S.r.l.*
Licenziamento individuale – Assenze per malattia discontinue e irregolari – Scarso rendimento – Presupposti – Inutilizzabilità della prestazione – Carattere disciplinare del recesso - Necessità di colpa – Insussistenza – Reintegra
Ancorché il recesso datoriale venga imputato all’asserito scarso rendimento del lavoratore per assenze discontinue ed irregolari per malattia, tali da rendere la sua prestazione non sufficientemente e proficuamente utilizzabile, e intimato dalla società come licenziamento per giustificato motivo oggettivo, va invece qualificato come disciplinare, in quanto fondato sull’inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del prestatore di lavoro.
Il datore di lavoro non può contestare apoditticamente al prestatore l’effettività delle malattie quando invece le medesime risultino ritualmente certificate, gravando invece sulla società, ai sensi dell’art. 5 della L. 604/66, l’onere di dimostrare l’insussistenza delle malattie o della loro incidenza sulla prestazione lavorativa.
Osserva
Con l’atto introduttivo del presente giudizio, il ricorrente ha chiesto accertarsi l’inefficacia, la nullità o l’illegittimità del licenziamento intimatogli con comunicazione del 19.2.2015 e condannarsi la società convenuta a reintegrarlo nel posto di lavoro e a corrispondergli le retribuzioni globali di fatto nella misura di €1800,37 o nella misura dovuta, e comunque nella misura massima di giustizia, dalla data del licenziamento alla reintegra oltre interessi e rivalutazione; in via subordinata, accertata l’illegittimità, l’invalidità o l’inefficacia del licenziamento, condannarsi la società convenuta al pagamento in suo favore dell’indennizzo di cui all’art. 18 L. n. 300/70.
A fondamento delle domande proposte, ha dedotto di avere lavorato alle dipendenze della società convenuta come autista sulle linee affidate in appalto alla medesima società dal 1.7.2007 al 19.2.2015, data in cui era stato licenziato unitamente ad altri 10 lavoratori per scarso rendimento e per insufficiente e non proficua utilizzabilità della sua prestazione lavorativa, a fronte delle frammentarie ed imprevedibili assenze (cumulativamente elencate per gli anni dal 2010 al 2014).
Ciò premesso, ha lamentato il carattere discriminatorio del suddetto licenziamento, nonché la nullità del medesimo, l’insussistenza del fatto contestato, la totale violazione della procedura di cui alla L. n. 223/91 e la violazione della procedura di cui all’art. 7 L. n. 604/66.
La società convenuta si è costituita, contestando la fondatezza del ricorso e chiedendone il rigetto.
Autorizzato il deposito di note, la causa è stata trattenuta in decisione.
Vanno innanzitutto disattese le doglianze del ricorrente in ordine al trattamento illegittimo dei dati sensibili costituiti dalle assenze per malattia del lavoratore, atteso che il soggetto che ha utilizzato i dati relativi ai giorni di assenza è il datore di lavoro, che è il diretto fruitore della prestazione lavorativa e che sulla base dei medesimi dati può in astratto legittimamente intimare un licenziamento per superamento del periodo di comporto e che non rientrano tra i dati sensibili di cui all’art. 4 lett. d) D.Lgs. n. 196/2003.
Né può ritenersi che i calcoli statistici sulle assenze effettuate necessitino di un’autorizzazione del lavoratore, atteso che i dati utilizzati per effettuare tali calcoli (i giorni di assenza del lavoratore) non sono sensibili.
Ciò premesso, va rilevato che la società convenuta, pur avendo qualificato il licenziamento intimato al ricorrente come “risoluzione del rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo”, nella comunicazione del 19.2.2015 (doc. n. 6 allegato al ricorso), ha affermato che l’anomalo andamento dello stato di servizio del ricorrente nel decorso quinquennio “in conseguenza di assenze discontinue ed irregolari, integra gli estremi dello scarso rendimento e comunque rende la sua residua prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile…”.
Va inoltre evidenziato che con lettera del 7.11.2014 (doc. n. 4 allegato al ricorso), la società convenuta ha testualmente comunicato al ricorrente: “ Pertanto il controllo dell’assenteismo, attualmente ben oltre i limiti di tolleranza fisiologica, rappresenta un imperativo gestionale non solo per garantire il servizio appaltatoci nel rispetto della tempistica contrattualizzata, e quindi evitare sanzioni o aggravi di imprevedibili costi fissi, ma anche per ottimizzare l’assetto organizzativo aziendale e fornire un tangibile segno di rispetto nei confronti di chi lavora con profondo spirito collaborativo.
Tutto ciò anche al fine di garantire la massima concreta tutela a chi effettivamente ha necessità di assentarsi dal posto di lavoro”.
Orbene, l’assenteismo va inteso come tendenza ad assentarsi dal posto di lavoro senza motivi legittimi; tale interpretazione è rafforzata dal riferimento, nella comunicazione del 7.11.2014, alla finalità di fornire un segno di rispetto nei confronti di chi lavora con profondo spirito collaborativo, nonché di garantire la massima concreta tutela a chi effettivamente ha necessità di assentarsi dal posto di lavoro: tali precisazioni non hanno senso se non in rapporto a chi lavora senza spirito collaborativo e a chi non ha l’effettiva necessità di assentarsi dal posto di lavoro.
Sul piano testuale, dunque, la società convenuta, non ha motivato il proprio recesso solo con l’oggettiva impossibilità di utilizzare proficuamente la residua prestazione del ricorrente, ma lo ha fondato sull’inadempimento, da parte del ricorrente, dei propri obblighi contrattuali, addebitando al ricorrente i disservizi derivanti dalle sue assenze.
Nella sua memoria di costituzione, la società convenuta ha infatti dedotto che non si pone la questione dell’applicabilità del comporto al lavoratore che in realtà malato non sia, o che non lo sia in misura tale da giustificare l’astensione dal lavoro ed ha precisato che la regolarità formale delle assenze non implica la loro regolarità sostanziale.
La società convenuta anche nella sua memoria di costituzione ha dunque prospettato un profilo di colpa del ricorrente: l’essersi assentato per motivi di salute senza essere effettivamente malato, o essersi assentato pur non avendo una malattia che gli impediva di lavorare, ed ha altresì dedotto che sul ricorrente gravava l’onere di provare la propria incapacità assoluta di prestare attività lavorativa nei giorni di assenza.
Per tali ragioni deve ritenersi che il licenziamento intimato al ricorrente da parte della società convenuta vada qualificato come licenziamento disciplinare.
Secondo l’insegnamento della Suprema Corte, il licenziamento per “scarso rendimento” costituisce comunque un’ipotesi di recesso del datore di lavoro per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, che a sua volta si pone come specie della risoluzione per inadempimento, prevista dagli artt. 1453 ss. c.c. (Cass. n. 14310/2015 ).
Il giudice di legittimità ha inoltre affermato che, mentre lo scarso rendimento è caratterizzato da colpa del lavoratore, non altrettanto può dirsi per le assenze dovute a malattia; la Suprema Corte ha pertanto ritenuto ingiustificato un recesso intimato per scarso rendimento dovuto essenzialmente all’elevato numero di assenze, ma non tali da esaurire il periodo di comporto (Cass. n. 16472/2015), richiamando la propria ultratrentennale giurisprudenza secondo cui anche nel caso di reiterate assenze del dipendente per malattia, il datore di lavoro non può licenziarlo per giustificato motivo, ma può esercitare il recesso solo dopo il periodo di comporto.
A ben vedere, inoltre, anche nelle pronunce che hanno ritenuto legittimo il licenziamento per scarso rendimento ove risulti provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, un’evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente, e a lui imputabile, in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento (Cass. n. 18678/2014 e Cass. n. 3876/2006), il riferimento alla “violazione della diligente collaborazione” del lavoratore, implica un inadempimento del dipendente, e dunque una sua mancanza.
Ciò premesso, il ricorrente ha lamentato l’assenza di uno specifico “fatto contestato”.
Tale doglianza deve ritenersi fondata, ove si consideri che la società convenuta nella comunicazione del 7.11.2014 si è limitata ad indicare i complessivi giorni di assenza del ricorrente nel periodo dal 2010 al 2014, lamentando difficoltà organizzative ed economiche “laddove l’assenza è improvvisa e non tempestivamente comunicata”, e facendo generico riferimento alla finalità di fornire un segno di rispetto nei confronti di chi lavora con profondo spirito collaborativo, nonché di garantire la massima concreta tutela a chi effettivamente ha necessità di assentarsi dal posto di lavoro mentre nella lettera di preavviso (doc. n. 5 allegato al ricorso) ha genericamente affermato che le brevi assenze effettuate dal ricorrente hanno avuto una natura anomala e risultavano “molto spesso” agganciate ai giorni di riposo, rendendo inaffidabile la prestazione per la frammentarietà e l’imprevedibilità.
Nelle suddette comunicazioni (con le quali la società convenuta non ha comunque concesso al ricorrente un termine a difesa), la medesima società non ha dunque fornito concreti elementi di fatto dai quali possano desumersi le concrete responsabilità del ricorrente: nella lettera del 7.11.2014 ha indirettamente affermato che il ricorrente non aveva effettiva necessità di assentarsi dal lavoro, mentre nel preavviso di risoluzione del rapporto ha dedotto che non tutte le assenze annualmente effettuate dal lavoratore sono state agganciate a giorni di riposo, ma solo alcune di esse; se ne desume pertanto che l’addebito relativo alla non effettività delle malattie non riguardi tutte le assenze effettuate dal ricorrente, ma solo alcune di esse.
In assenza di una specifica individuazione del fatto addebitato al dipendente non è possibile verificare in concreto la sussistenza del fatto contestato e dunque la fondatezza dell’addebito (che riguarda l’effettività delle malattie).
Infatti, un sistema sanzionatorio nel quale l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata dipende esclusivamente dalla sussistenza del fatto contestato o dalla sua riconducibilità ad una sanzione conservativa in base ai codici disciplinari, si fonda sulla chiara definizione del fatto in sede di formulazione dell’addebito.
Per tali ragioni i vizi della contestazione che si riflettano sulla precisa individuazione del fatto addebitato devono essere ricondotti all’ipotesi di insussistenza del fatto, con conseguente applicazione dell’art. 18 c. 4 L. n. 300/70.
E’ comunque pacifico tra le parti che il ricorrente si è assentato per malattia sulla base di certificazione medica regolarmente inviata al datore di lavoro; né può desumersi dal mancato invio della diagnosi in chiaro che le malattie non fossero effettive, atteso che la certificazione è stata correttamente rilasciata con tali modalità, mentre l’onere di dimostrare l’insussistenza delle malattie o della loro incidenza sulla prestazione lavorativa, ai sensi dell’art. 5 L. n. 604/66, grava sul datore di lavoro che in base a tali asserite circostanze ha licenziato il lavoratore; non risulta tuttavia che il datore di lavoro abbia disposto visite fiscali nei confronti del ricorrente.
Inoltre, diversamente da quanto sostenuto dalla società convenuta nella sua memoria di costituzione, la certificazione medica fornita dal ricorrente per legge è idonea a comprovare la sussistenza della malattia e la sua idoneità ad azzerare la capacità lavorativa del dipendente per il periodo indicato nella prognosi; a ben vedere, deducendo che le malattie ivi certificate non sono effettive, A. F. s.r.l. ha indirettamente affermato che il medico ha attestato il falso, senza tuttavia trarne nessuna conseguenza nei confronti del medesimo.
La società convenuta, pur avendo dedotto la sussistenza di un inadempimento del ricorrente, ha dunque chiesto l’espletamento di una prova meramente esplorativa sul punto (acquisizione dei certificati medici corredati da diagnosi al fine di verificare l’effettiva incidenza invalidante delle patologie dichiarate o delle prescrizioni e CTU medico legale per valutare la reale incidenza sulla capacità lavorativa del ricorrente), come tale inammissibile.
Anche sotto tale profilo il fatto deve dunque ritenersi insussistente.
Va dunque dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimato al ricorrente e va ordinato alla società convenuta di reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro e di corrispondergli le retribuzioni globali di fatto maturate dal licenziamento alla reintegra, nell’incontestata misura di € 1800,37 mensili oltre rivalutazione ed interessi al tasso legale sugli importi annualmente rivalutati, dalla maturazione dei crediti al saldo, nonché a versare i contributi previdenziali ed assistenziali.
Il carattere disciplinare del licenziamento intimato al ricorrente assorbe sia le censure relative all’omessa attivazione della procedura prevista dall’art. 223/91, che riguarda solo i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, che quelle riguardanti il mancato rispetto della procedura di cui all’art. 7 L. n. 604/66 .
Devono infine ritenersi infondate le doglianze del ricorrente relative al carattere discriminatorio del licenziamento intimatogli.
In particolare, sotto il profilo della discriminazione per motivi anagrafici, il ricorrente ha solo genericamente dedotto che altri 10 lavoratori sono stati licenziati insieme a lui, ma non ha testualmente riportato le specifiche ragioni poste a fondamento di tali recessi, né ha specificamente indicato l’età degli altri lavoratori licenziati e dei lavoratori rimasti in servizio (si è invece limitato ad indicare l’età media delle due categorie, mentre il dato medio, comunque contestato dalla società convenuta, non può assolutamente ritenersi significativo, essendo compatibile con i requisiti anagrafici più disparati); ne consegue l’impossibilità di verificare la fondatezza delle doglianze sulla discriminatorietà dei suddetti recessi.
Inoltre, contrariamente a quanto prospettato dal ricorrente, il licenziamento intimato al ricorrente da parte della società convenuta non può ritenersi comminato in violazione dell’art. 2, c. 3, D.Lgs. n. 216/2003, non sussistendo gli estremi delle molestie, ovvero di comportamenti indesiderati posti in essere per motivi religiosi, per convinzioni personali, per ragioni di handicap, per età o per l’orientamento sessuali aventi lo scopo e l’effetto di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante ed offensivo.
La norma presuppone infatti che le molestie siano discriminatorie in sé (ed abbiano inoltre lo scopo o l’effetto di creare un clima intimidatorio ostile, degradante, umiliante ed offensivo), mentre alla luce delle considerazioni che precedono il carattere discriminatorio del licenziamento (che in sé non assurge a molestia) non può ritenersi sussistente.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara l’illegittimità del licenziamento intimato al ricorrente con comunicazione del 19.2.2015;
Ordina alla società convenuta di reintegrare il ricorrente e la condanna a corrispondergli un’indennità pari alle retribuzioni globali di fatto maturate dal licenziamento alla reintegra, nella misura di € 1800,37 mensili, oltre rivalutazione ed interessi al tasso legale sugli importi annualmente rivalutati, dalla maturazione dei crediti al saldo, nonché a versare i contributi previdenziali ed assistenziali;
Condanna la società convenuta al pagamento delle spese di lite, che si liquidano in € 1.800,00, oltre IVA e CPA, in favore del ricorrente.
Nota a Tribunale di Roma, ordinanza 24 dicembre 2015
di Michelangelo Salvagni*
I fatti di causa
L’ordinanza in commento tratta del caso di un dipendente di una società di trasporti licenziato per giustificato motivo oggettivo con la motivazione di scarso rendimento per aver reso la prestazione lavorativa in maniera insufficiente a causa delle frammentarie ed imprevedibili assenze per malattia.
Il lavoratore impugnava il licenziamento lamentando il carattere discriminatorio del recesso datoriale, l’insussistenza del fatto contestato e la violazione delle procedure di cui alle Leggi nn. 223/91 e 604/66, art. 7.
La società, costituendosi in giudizio, deduceva un assenteismo del prestatore che andava ben oltre “i limiti di tolleranza fisiologica” e che impediva il corretto svolgimento del servizio espletato in appalto. Il datore di lavoro, in particolare, nell’intimare il recesso poneva l’accento sulla circostanza che le continue, immotivate e discontinue assenze del dipendente, di cui alcune agganciate ai giorni di riposo, erano da considerarsi come una mancanza di rispetto nei confronti degli altri lavoratori che, al contrario, nello svolgimento delle proprie mansioni, dimostravano rispetto e spirito collaborativo. Orbene, secondo l’azienda tale condotta integrava un profilo di colpa del ricorrente il quale si era assentato dal lavoro per motivi di salute senza essere effettivamente malato e, comunque, non avendo un impedimento di gravità tale da non consentirgli di lavorare. Conseguentemente, la residua prestazione del lavoratore non risultava essere sufficientemente e proficuamente utilizzabile, configurandosi così un inadempimento degli obblighi contrattuali.
In concreto, in base all’impostazione difensiva della società, le ragioni del licenziamento non erano incentrate sulla questione della eccessiva morbilità ma esclusivamente sull’incidenza delle assenze sulla regolarità del servizio.
Il compito preliminare del Tribunale di Roma è stato quello di comprendere la reale natura del recesso in base alle deduzioni datoriali che connotavano lo stesso quale fattispecie di giustificato motivo oggettivo. A parere del giudice il licenziamento, per come era stato rappresentato dalla società sia nelle lettere stragiudiziali sia in quella di recesso, nonché nelle successive deduzioni della memoria di costituzione in giudizio, doveva qualificarsi quale fattispecie di tipo disciplinare per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, risoluzione prevista dall’articolo 1453 c.c.. Il Tribunale riteneva sul punto che il profilo disciplinare era desumibile dalla rilevante circostanza che era stata contestata al prestatore la colpa di essersi “assentato per motivi di salute senza essere effettivamente malato, o essersi assentato pur non avendo una malattia che gli impediva di lavorare”.
Il giudice poi, entrando nel merito dei fatti oggetto di causa, affermava un ulteriore importante principio di diritto sulla problematica del controllo dello stato di salute del prestatore. Il Tribunale capitolino, infatti, riteneva l’insussistenza del fatto contestato in quanto, proprio in ragione degli addebiti mossi al lavoratore, le assenze in realtà risultavano regolarmente giustificate da opportuna certificazione medica. Al riguardo, il giudice stabiliva che il datore di lavoro non può contestare apoditticamente al prestatore l’effettività delle malattie quando invece le medesime risultino ritualmente certificate, gravando invece sulla società, ai sensi dell’art. 5 della L. 604/66, l’onere di dimostrare l’insussistenza della malattie o della loro incidenza sulla prestazione lavorativa.
Nel caso di specie, tuttavia, il datore non aveva richiesto alcuna visita fiscale nei confronti del dipendente. Pertanto, secondo l’ordinanza de qua, la certificazione medica fornita dal dipendente risultava conforme ai requisiti richiesti dalla legge e quindi idonea a comprovare la sussistenza della malattia. Si legge ancora nel provvedimento che la società si era limitata a contestare detta certificazione eccependo, indirettamente, che il medico avesse dichiarato il falso senza, tuttavia, porre in essere alcuna azione sulla inidoneità di tali attestazioni.
In base a tali considerazioni, il Tribunale riteneva il fatto insussistente e dichiarava l’illegittimità del licenziamento, ordinando alla società di reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, oltre a corrispondergli le retribuzioni globali di fatto dal recesso alla reintegra.
Problemi interpretativi sulla qualificazione del recesso per scarso rendimento rispetto al caso di specie: la natura disciplinare.
L’ordinanza in esame offre spunti di riflessione su una tematica controversa, ossia la qualificazione della natura del licenziamento per scarso rendimento, foriera di dibattiti dottrinali e giurisprudenziali.[1]
Infatti, non sempre è facile connotare giuridicamente la natura di tale fattispecie risolutoria, anche in ragione del fatto che molte volte, come avviene nel caso in annotazione, è proprio il datore di lavoro che, nell’intimare il recesso per scarso rendimento, tende a sovrapporre circostanze diverse che ne rendono complessa la corretta collocazione in ambito normativo.
Conseguentemente, sarà compito preliminare del magistrato comprendere se nella questione posta al proprio vaglio si ricada nel campo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo per ragioni inerenti all’attività produttiva o in quello disciplinare, per giustificato motivo soggettivo, per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali assunti dal lavoratore o per giusta causa.
Di certo, anche per ragioni di spazio espositivo, non è possibile ripercorrere in questo commento la completa evoluzione dell'istituto dello scarso rendimento, soprattutto con riferimento alle varie casistiche affrontate dalla giurisprudenza nel corso del tempo.
Tuttavia, si tenterà di tratteggiare le principali differenze tra le varie ipotesi risolutive relative allo scarso rendimento al fine di delineare la natura del recesso con riferimento al caso di specie.
Come già anticipato nella ricostruzione fattuale della controversia, il datore di lavoro qualificava il licenziamento come ipotesi di giustificato motivo oggettivo, ancorandolo ad un andamento anomalo dello stato di servizio del lavoratore. Secondo la società le assenze discontinue e irregolari effettuate dal dipendente integravano gli estremi dello scarso rendimento, rendendo la prestazione lavorativa non sufficientemente utilizzabile. In ragione della documentazione posta alla base del recesso, richiamata nella motivazione dell’ordinanza in analisi, si evinceva che la condotta assenteista del lavoratore aveva avuto ripercussioni negative sull'assetto organizzativo aziendale.
Il Tribunale di Roma, sul punto, ha correttamente osservato che il licenziamento sovrappone due piani diversi: da una parte, l'impossibilità di utilizzare proficuamente la prestazione del ricorrente, dall'altra, l'inadempimento colpevole di quest'ultimo dei propri obblighi contrattuali che creava disservizi all'azienda.
Ai fini di una migliore comprensione della presente vicenda, occorre evidenziare che, sia in base alle deduzioni della società nel corso del giudizio sia con riferimento a quanto statuito dalla ordinanza, si può escludere che le ragioni del licenziamento prendano in considerazione la malattia in quanto tale e, comunque, l’eccessiva morbilità e la conseguente applicabilità al rapporto del superamento del periodo comporto. La tesi datoriale, invece, prende le mosse da un assunto diverso, che non tiene conto della giustificazione formale delle assenze, ossia lo stato di salute del prestatore, in quanto ritiene che “la regolarità formale delle assenze non implica la loro regolarità sostanziale”.
L’oggetto del recesso è quindi la ricaduta delle assenze sulla regolarità del servizio, ciò a prescindere dal fatto che le stesse siano giustificate da certificati medici. Il profilo del licenziamento, come giustamente rilevato dal giudice, è di tipo disciplinare, in quanto fondato sulla colpa del prestatore per aver effettuato assenze per malattia non veritiere.
In ragione di tali motivazioni, il Tribunale di Roma ha qualificato il licenziamento come disciplinare per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, risoluzione prevista dall'articolo 1453 c.c..
Sullo scarso rendimento determinato dalla eccessiva morbilità quale ipotesi risolutoria di tipo disciplinare.
Con riferimento alla problematica delle assenze sul lavoro che danno luogo ad una prestazione non proficuamente utilizzabile, l’ordinanza oggetto di nota richiama uno specifico precedente della Corte di Cassazione che, con sentenza n. 18678 del 2014, per un caso analogo a quello in esame (sistematiche assenze per malattia che però non superavano il periodo di comporto), ha tuttavia ritenuto di qualificare lo scarso rendimento addebitato al lavoratore quale ipotesi di giustificato motivo oggettivo.[2]
La decisione della Suprema Corte del 2014, in ogni caso, afferma un principio importante in materia di scarso rendimento utilizzabile per analogia anche per la odierna controversia, ove infatti le assenze del lavoratore, come nel caso in analisi, assumono particolare rilievo non in ragione della malattia ma sotto il diverso profilo dell’inadempimento, risultando la prestazione del lavoratore non proficuamente utilizzabile. Stabiliscono al riguardo i giudici di legittimità che “è legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione”.[3]
Nel caso in annotazione, la malattia non viene in rilievo di per sé ma in quanto le assenze davano luogo a scarso rendimento, rendendo la prestazione non più utile per il datore di lavoro incidendo negativamente sulla produzione aziendale.[4]
Sul punto occorre precisare che, secondo un ormai unanime orientamento della Corte di Cassazione, la malattia, nei limiti del periodo di comporto, deve essere valutata come fatto neutro che non integra ex se lo scarso rendimento. Ed infatti, a partire dalle tre rinomate sentenze Sezioni delle Unite del 1980, la giurisprudenza ha sempre affermato che “anche in ipotesi di reiterate assenze del dipendente per malattia, il datore di lavoro non può licenziarlo per giustificato motivo, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3, ma può esercitare il recesso solo dopo che si sia esaurito il periodo all’uopo fissato dalla contrattazione collettiva”. [5] In base a tale consolidata interpretazione di legittimità, le assenze per malattie sono estranee alla fattispecie dell’inadempimento, né possono incidere sulla eventuale valutazione di una colpa addebitabile al prestatore.
Il licenziamento oggetto di nota, tuttavia, non è fondato meramente sulla durata dei periodi di malattia fruiti da lavoratore, ma sullo scarso rendimento della prestazione da lui resa in rapporto alla compagine organizzativa della società.
In merito, si evidenzia che secondo un indirizzo della Suprema Corte la natura dello scarso rendimento deve essere valutata quale fattispecie costitutiva del giustificato motivo soggettivo in quanto connessa eziologicamente all’imperizia o alla negligenza del lavoratore, condotte queste che diventano elementi costitutivi del recesso; l’inadempimento della prestazione, quindi, si connota in termini di valutazione del comportamento del prestatore che non ha fornito la propria prestazione con la dovuta diligenza.[6]
Con riferimento alla esegesi giurisprudenziale dell’istituto dello scarso rendimento avente natura disciplinare, si indica anche un altro precedente della Cassazione che ha ritenuto legittimo il licenziamento, considerandolo quale inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, sul presupposto che il datore di lavoro era riuscito a dimostrare un’evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente e a lui imputabile.[7]
Tale orientamento trova conferma anche in una recente interpretazione del Tribunale di Milano del 19 gennaio 2015 (a quanto consta inedita) che, su una vicenda analoga a quella in esame, ha ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente ove, tuttavia, il recesso risultava giustificato da ragioni non solo più solide ma sicuramente meglio circostanziate e dimostrate. Si trattava, infatti, del caso di un prestatore che, negli ultimi sei anni del rapporto di lavoro, aveva lavorato in maniera limitatissima e discontinua (compresa tra un massimo di 135 giorni e un minimo di 80 giorni lavorati a fronte di un massimo di 175 giorni di malattia e un minimo di 127 giorni annuali di malattia), non consentendo evidentemente al datore di confidare su una “utile” e funzionale futura collaborazione del lavoratore.[8]
Il caso affrontato dal Tribunale meneghino risulta di notevole interesse con riferimento alla tematica in commento, rappresentando una vera e propria ipotesi di scuola, in quanto connotato da tutti quegli elementi che qualificano lo scarso rendimento quale ipotesi di giustificato motivo soggettivo. Ed infatti, l’inadempimento era motivato da evidenti disservizi sopportati continuativamente dall’azienda, dai suoi clienti e dai colleghi del lavoratore a causa delle numerose, continuative e spesso improvvise assenze di quest’ultimo. Tale condotta del prestatore costringeva la società a dover organizzare i singoli servizi in tempi strettissimi, con verosimili contestuali disfunzioni, di scopertura o ritardi, per i singoli clienti, e disagi per gli altri dipendenti che potevano essere richiamati in servizio all’ultimo momento da periodi di riposo o da altri turni lavorativi, tutto ciò giustificando, a parere del Tribunale di Milano, il recesso per scarso rendimento.
Ad ogni buon conto, al fine di una completa rappresentazione della fattispecie in esame, occorre evidenziare che in realtà l’obbligazione dovuta dal prestatore non è di risultato, non essendo tenuto il medesimo ad un rendimento minimo ma solo ad un facere, ossia alla corretta esecuzione della propria prestazione.[9]
Nel momento in cui il rendimento del lavoratore sia inferiore al normale, tale esecuzione della prestazione può essere fonte di responsabilità solo se è imputabile ad una condotta colpevole del dipendente e comporta una irregolarità del servizio talmente grave da non rendere conveniente l’interesse del datore di lavoro al mantenimento del rapporto.[10]
Sul punto pare opportuno segnalare che, secondo la Suprema Corte, il rendimento lavorativo inferiore al minimo contrattuale non integra tout court l'inesatto adempimento, in virtù del fatto che il lavoratore è obbligato ad un facere e non ad un risultato e la inadeguatezza della prestazione resa può essere imputabile alla stessa organizzazione dell'impresa o, comunque, a fattori non dipendenti dal lavoratore.[11]
Tuttavia, non è mancata una certa giurisprudenza che ha qualificato lo scarso rendimento quale ipotesi di giustificato motivo soggettivo ritenendo inadempiente la condotta di un operaio che non era riuscito a raggiungere il risultato atteso; in tale fattispecie, i giudici di legittimità hanno fondato tale convincimento su elementi presuntivi visto che le mansioni ripetitive e di esecuzione elementare consentivano un adempimento per così dire oggettivo.[12]
Anche in dottrina c’è chi ha sostenuto che lo scarso rendimento può essere valutato con elementi presuntivi ricavati da un confronto tra lavoratori che espletano la medesima attività. In tal caso rileverebbe, al fine di stabilire se l’inadempimento sia notevole, non tanto il cosiddetto elemento soggettivo, difficile da dimostrare, ma le condotte del dipendente misurabili in maniera oggettiva dalle quali deriverebbe un rendimento negligente.[13]
Per concludere, si può sostenere che appare del tutto condivisibile la soluzione interpretativa adottata dal Tribunale capitolino per la risoluzione del caso di specie. Tale determinazione si inserisce, infatti, nel solco di un precedente indirizzo del Supremo Collegio per cui lo scarso rendimento può essere ricondotto, a seconda delle circostanze, nella fattispecie del giustificato motivo oggettivo di licenziamento oppure in quella del giustificato motivo soggettivo “quando esso sia l’effetto di un adempimento degli obblighi contrattuali. Alla valutazione della sussistenza e gravità di tale inadempimento deve concorrere l’apprezzamento di tutte le circostanze del caso”.[14]
Alla luce di quanto sin qui esposto, risulta evidente che il presupposto giuridico necessario alla realizzazione della fattispecie risolutoria che connota lo scarso rendimento quale ipotesi disciplinare è sempre il notevole inadempimento colpevole del prestatore, il cui onere della prova incombe necessariamente sul datore di lavoro.
* Segue nota di Michelangelo Salvagni
[1] Per una completa disamina sulle interpretazioni dottrinali in tema di qualificazione dello scarso rendimento si segnalano: M. Delfino, Il licenziamento per scarso rendimento e la rilevante negligenza imputabile, in Dir. rel. ind., 2010, I, 181 e ss.; V. Cester, Profili dello scarso rendimento del lavoratore, in AA. VV., Diritto del Lavoro, I nuovi problemi. L’omaggio dell’accademia a Mattia Persiani, Padova, 2005, I, 632 e ss.; A. Preteroti, Scarso rendimento: indice sintomatico e segno non equivoco della negligenza?, in Arg. dir. lav., 2004, 375-395; A. Mattei, Licenziamento per “scarso rendimento”: un percorso giurisprudenziale, in Lav. giur., 2011, 8, 790 e ss.; M. Manicastri, Licenziamento per scarso rendimento, in Dir. prat. lav., 2012, 26, 1621.
[2] Quali contributi in dottrina in commento a Cass. 4 settembre 2014, n. 18678, si indicano le diverse posizioni espresse dalla letteratura giuridica con riferimento alla tesi della Suprema Corte sullo scarso rendimento quale ipotesi di giustificato motivo oggettivo: in senso adesivo, si veda E. Gragnoli, Il licenziamento per scarso rendimento e il giustificato motivo oggettivo, Lav. giur., 2015, 1, 40; in senso critico, R. Voza, Licenziamento e malattia: le parole e silenzi del legislatore, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona.”IT,, n. 248, 7, 2015. Sul punto, si segnalano anche le seguenti interpretazioni critiche: R. Lama, Trent’anni dopo le Sezioni Unite: la Cassazione riesuma l’eccessiva morbilità come giustificato motivo di licenziamento, in Riv. it. dir. lav., 2014, 4, 969, nonché M. Talarico, Licenziamento per scarso rendimento da eccessiva morbilità, in Riv. giur. lav., 2015, 1, I, 72. Sul punto si veda anche J. La Mendola, Licenziamento per assenteismo tattico, in Dir. prat. lav., 2015, 8, 516-521.
[3] Nella specie, la Cassazione con pronuncia n. 18678 del 2014 ha confermato la sentenza impugnata, che aveva affermato la legittimità del licenziamento intimato, sul presupposto che le reiterate assenze effettuate dal lavoratore, comunicate all'ultimo momento ed “agganciate” ai giorni di riposo, determinavano uno scarso rendimento ed una prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale.
[4] Per quanto riguarda una ricostruzione della fattispecie dello scarso rendimento collegato alla eccessiva morbilità, si vedano, in sintesi, i seguenti contributi di giurisprudenza e dottrina risalenti nel tempo: Pret. Desio, 8 giugno 1977, in Riv. giur. lav., 1977, 1, II, 57; Pret. Milano, 30 gennaio 1991, in Dir. prat. lav, 1991, 17, 1105; Cass. 7 febbraio 2011, n. 2971, in Notiz. giur. lav., 2011, 2, 202. Sulla eccessiva morbilità del dipendente autoferrotranviere si veda, quale precedente specifico: Cass. 22 novembre 1996, n. 10286, con nota di G. Frontini, L’interpretazione dello scarso rendimento dell’art. 27, comma 1, lettera d, dell’allegato A, al Regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148, e il diritto alla salute, in Riv. giur. lav., 1997, 1, I, 179.
[5] In tal senso, Cass., Sez. Un., 29 marzo 1980, nn. 2072, 2073 e 2074, pubblicate rispettivamente in Giur. it, 1980, I, 1438; in Il Foro it., 1980, I, 936; in Riv. giur, lav., 1980, II, 929 e Mass. giur. lav., 1980, 419.
[6] Secondo Cass. 1 dicembre 2010, n. 24361, pubblicata in Lav. giur., 2011, 214, è legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia risultata provata una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente, e a lui imputabile, in conseguenza dell’enorme sproporzione fra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferiti a una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione.
[7] In tal senso, Cass. 22 gennaio 2009, n. 1632, con nota di M. Delfino, op. cit., 181 e ss.
[8] Al fine di una migliore comprensione della vicenda sottesa alla decisione del Tribunale meneghino del 19 gennaio 2015, est. F. Scarzella, pare opportuno richiamare qui in nota, per evidenti ragioni di spazio espositivo, le argomentazioni decisorie della sentenza ove il giudice afferma: “i dati numerici appena esposti, già di per sé idonei a giustificare l’interruzione, per ragioni oggettive, di qualsivoglia rapporto di lavoro, stante la rilevante entità, continuità temporale e pluriennale durata delle assenze in oggetto, sono ancor più incisivi nel caso di specie, ex art. 3 L. n. 604/1966, tenuto conto che l’attività di vigilanza e di guardiania svolta dalla resistente è organizzata su tre turni di lavoro per tutti i giorni dell’anno; che la resistente ha pertanto evidente necessità di poter confidare, con ragionevole continuità temporale, sulla presenza quotidiana dei singoli addetti pena la scopertura di alcuni dei servizi resi e la conseguente possibile perdita di alcuni appalti; che ai fini di una migliore resa del servizio svolto dalla resistente appare poi evidente la necessità dell’azienda di adibire ad un appalto le stesse persone, già a conoscenza delle specificità del servizio; che appare altrettanto evidente la necessità della resistente di conoscere, con congruo preavviso, l’eventuale assenza di un lavoratore al fine di non lasciare scoperto un servizio e di poter reperire tempestivamente un sostituto già a conoscenza delle peculiarità del singolo appalto; che nel caso di specie il ricorrente, in svariate circostanze, comunicava il proprio impedimento in orari serali e notturni e con preavviso anche di soli 30/40 minuti (v. doc. 10 bis di parte resistente e par. 27 della memoria, non specificamente contestato dal ricorrente);che spesso le assenze del ricorrente venivano intervallate solo da brevi rientri lavorativi (v. doc. 4 e ss. di parte resistente)…”.
[9] Cfr. Cass. 5 marzo 2003, con nota di A. Federici, Lo scarso rendimento e il rendimento inadeguato nelle causali di giustificazione del licenziamento, in Riv. giur. lav., 2003, 3, II, 512-519.
[10] Sul punto, vi è una notevolissima produzione giurisprudenziale risalente nel tempo tra cui, ex multis: Cass. 20 gennaio 1987, n. 476, in Il Foro it., 1987, I, 1057; Cass. 21 febbraio 1985, n. 1578, in Giust. civ., 1985, I, 1311; Cass. 18 novembre 1981, n. 6126, in Il Foro it. Mass, 1981.
[11] Secondo Cass. 19 agosto 2000, n. 11001, in Orient. giur. lav., 2000, 752: “in relazione al cosiddetto scarso rendimento, il datore di lavoro che intende farlo valere quale giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ai sensi dell'art. 3, L. n. 604/66, non può limitarsi - neanche nei casi in cui il risultato della prestazione non è collegato ad elementi intrinsecamente aleatori - a provare il mancato raggiungimento del risultato atteso ed eventualmente la sua oggettiva esigibilità, ma è onerato della dimostrazione di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, quale fatto complesso alla cui valutazione deve concorrere anche l'apprezzamento degli aspetti concreti del fatto addebitato, tra cui il grado di diligenza richiesto dalla prestazione e quello usato dal lavoratore”; sentenza pubblicata anche in Riv. it. dir. lav., 2001, 346, con nota di Bartalotta, Scarso rendimento e prova per presunzioni della sua imputabilità a condotte negligenti del lavoratore.
[12] In tal senso, Cass. 20 agosto 1991, n. 8973, in Riv. giur. lav.,1991, II, 185, con nota di A. Viscomi.
[13] In merito si veda V. Cester, op. cit, 634 e ss.. Sulla teoria del ricorso alla prova per presunzioni per provare la gravità dell’inadempimento si segnala anche E. Gragnoli, op. cit., 44, secondo cui “con il ricorso alle prove per presunzioni, non è impossibile cogliere le situazioni nelle quali vi sia una condotta deviante dalle attese fondate dal creditore e basate sul contratto, con l’identificazione non solo del rendimento difettoso, ma della sua imputabilità a negligenza o imperizia”.
[14] Si veda Cass. 5 marzo 2003, n. 3250, con nota di P. Ichino, Sullo scarso rendimento come fattispecie anfibia, suscettibile di costituire al tempo stesso giustificato motivo oggettivo e soggettivo di licenziamento, in Riv. it. dir. lav, , 2003, 2, 694-696. Su una completa disamina dell’inadempimento per scarso rendimento con riferimento a Cass. 5 marzo 2003, n. 3250 si veda A. Federici, op. cit., 512-519.