La responsabilità del datore di lavoro per gli infortuni derivanti da attività criminose

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, n.1/2014

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I

 

CORTE DI CASSAZIONE, 8 aprile 2013, Sez. lav., n. 8486 – Pres. Vidiri – Rel. Arienzo – Poste Italiane S.p.A. (avv. Fiorillo) c. P.F.E.A. (avv. Fatigato).  Conf. Corte di Appello di Bari del 16.03.2009.

 

Lavoro subordinato (Rapporto di) - Tutela delle condizioni di lavoro - sicurezza e prevenzione infortuni  – Obbligo di prevenzione dai rischi da rapine – Onere del datore di lavoro valutazione a priori di rischi extra-lavorativi - Insufficienza di adeguate misure di tutela –– Ripartizione dell’onere della prova – Responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell’obbligo di sicurezza per l’attività criminosa di terzi – Sussistenza.

L’art. 2087 cod. civ. pone in capo al datore di lavoro l’onere di valutare se l’attività svolta dalla propria azienda comporti o meno rischi extra lavorativi. Conseguentemente, in caso di aggressione criminose di terzi l’obbligo prevenzionistico avrà un contenuto non teorizzabile a priori, ma ben individuabile nella realtà alla luce elle tecniche di sicurezza comunemente adottate, onere quindi che presuppone una concreta indagine sull’attività svolta nella propria azienda.

 

II

 

CORTE DI CASSAZIONE, 17 maggio 2013, Sez. lav., n. 12089 – Pres. Vidiri – Rel. Balestrieri – P. G. (avv.ti Rossi e Lauretti) c. La Milano Assicurazioni (avv. Spinelli). Conf. Corte di Appello di Roma del 13.06.2008.

 

Lavoro subordinato (Rapporto di) - Tutela delle condizioni di lavoro in genere - Tutela da aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi – Non configurabilità di una responsabilità oggettiva del datore di lavoro per il verificarsi di eventi criminosi - Non risarcibilità di ogni ipotesi di danno ex art. 2087 cod. civ..

 

In riferimento alla tutela dell’integrità fisiopsichica dei lavoratori dalle aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi, l’ambito di responsabilità datoriale di cui all’art. 2087 cod. civ. non può essere dilatato fino a comprendervi ogni ipotesi di danno, sull’assunto che comunque il rischio non si sarebbe verificato in presenza di ulteriori accorgimenti di valido contrasto, perché, in tal modo, si perverrebbe all’abnorme applicazione di un principio di responsabilità oggettiva, ancorata al presupposto teorico secondo cui il verificarsi dell’evento costituisce circostanza che assurge in ogni caso ad inequivoca riprova del mancato uso dei mezzi tecnici più evoluti del momento, atteso il superamento criminoso di quelli in concreto apprestati dal datore di lavoro

 

(*) Il testo delle sentenze è pubblicato in www.ediesseonline.it/riviste/rgl

 

LA RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO

 

PER GLI INFORTUNI DERIVANTI DA ATTIVITÀ CRIMINOSE

 

SOMMARIO: 1. Considerazioni preliminari sul sistema di norme prevenzionistiche a tutela del lavoratore. In particolare, l’art. 2087 c.c. – 2. Precedenti giurisprudenziali in materia di responsabilità ex art. 2087 c.c. per aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi. Brevi cenni  -  3. Il caso di specie. La sentenza n. 8486 dell’8 aprile 2013: il nesso di causalità tra condotta criminosa del terzo e l’evento lesivo occorso al lavoratore. La valutazione ex ante del rischio da evitare. – 4. Orientamenti giurisprudenziali sull’insussistenza di una responsabilità oggettiva del datore per gli eventi criminosi dei terzi. In particolare, la sentenza del 17 maggio 2013, n. 12089.      

 

– Considerazioni preliminari sul sistema di norme prevenzionistiche a tutela del lavoratore. In particolare, l’art. 2087 c.c. – Entrambe le sentenze che si annotano offrono interessanti spunti per un nuovo approfondimento sul sistema normativo posto dall’ordinamento a difesa dell’integrità psico-fisica del lavoratore; un sistema costituito da norme costituzionali, speciali e ordinarie che trova nell’art. 2087 del codice civile la norma-cardine del sistema prevenzionistico italiano.

Tale disposizione, nello stabilire l’obbligo posto in capo al datore di lavoro di tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore attraverso l’adozione di misure idonee in base alla particolarità del lavoro, all’esperienza e alla tecnica, rappresenta una c.d. “norma in bianco”, una norma di raccordo tra le diverse disposizioni presenti nell’ordinamento nazionale.

Per una migliore comprensione delle vicende oggetto di nota è necessario tracciare un sintetico quadro del sistema di leggi che afferiscono alla protezione del lavoro. A tal proposito occorre quindi partire – in primo luogo – da quelle norme che, nella gerarchia delle fonti, sono poste a fondamento dell’intero sistema normativo: gli articoli 32, 35 e 41 della Costituzione.[1]

Il primo – l’art. 32 Cost. – nel garantire la salute come diritto fondamentale dell’individuo, pone un limite invalicabile nella difesa di tale bene supremo in ogni ambito in cui si svolga la vita del cittadino; tale articolo, letto in combinato disposto con il successivo art. 35 Cost. – che tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni – fa sì che la difesa della salute venga estesa anche nell’esecuzione dell’attività lavorativa.

Il suesposto principio viene, poi, con ancor più forza rimarcato nel successivo articolo 41 della Costituzione, con il quale la Suprema Carta pone “precisi limiti alla libertà di iniziativa economica privata stabilendo – fra l’altro – che la stessa non può svolgersi in modo da arrecare danno alla dignità umana”.[2]

Gli articoli costituzionali sopra richiamati trovano perfetta aderenza nell’enunciato dell’art. 2087 c.c.. Tale norma, infatti, s’innesta perfettamente nel tessuto normativo disegnato dalla Costituzione facendo sorgere, in capo all’imprenditore, un’obbligazione di origine contrattuale che lo vincola ad adottare – ai fini della tutela delle condizioni di lavoro e, quindi, della salute dei lavoratori – non solo particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata, ma anche quelle dettate dalle comuni regole della prudenza e tutte quelle che, in concreto, si rendano necessarie per la tutela delle condizioni di lavoro.

Il contenuto dell’obbligo previsto dall’art. 2087 c.c. non può ritenersi, quindi, limitato al rispetto della legislazione in materia di prevenzione degli infortuni, ma comporta, per il datore di lavoro, il divieto di porre in essere, nell’ambito aziendale, qualsivoglia comportamento lesivo del diritto all’integrità psico-fisica del lavoratore.

In effetti, però, la formulazione astratta dell’art. 2087 c.c. crea non pochi dubbi interpretativi riguardo all’ambito di applicazione: se da un lato, infatti, la genericità della previsione viene interpretata nel senso di un’adattabilità automatica del principio normativo ai mutamenti della realtà fattuale, dall’altro, viene anche utilizzata, in maniera strumentale, per giustificare le eventuali carenze delle misure di tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro adottate dal datore di lavoro, sulla base della circostanza che la norma non le individua specificamente.

La giurisprudenza, per ovviare a tale uso distorto dello strumento normativo, è più volte intervenuta per valorizzare le potenzialità dell’art. 2087 c.c. affermando che la violazione degli obblighi di sicurezza previsti da tale articolo comporta necessariamente una responsabilità di tipo contrattuale.[3]

Secondo un ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale, trattandosi di responsabilità contrattuale, la ripartizione dell’onere della prova deve essere interpretata nel modo seguente: da una parte, vi è la necessità per il lavoratore di dimostrare il nesso di causalità tra il danno e l’omissione datoriale; dall’altra, l’obbligo per l’imprenditore di provare di aver fatto di tutto quanto in proprio potere per evitare il verificarsi dell’evento dannoso.[4]

Nel tempo, peraltro, si è sempre più consolidato l’orientamento giurisprudenziale della “massima sicurezza tecnologicamente fattibile”,[5] secondo cui il datore di lavoro è onerato ex art. 2087 c.c. di un’attività continua di aggiornamento e di adeguamento delle misure di protezione del lavoratore, volta ad impedire il verificarsi del danno.[6]

Sul punto, osserva infatti la Corte di Cassazione che il “datore di lavoro ha l’obbligo di tenere conto delle tecnologie adottate ed adottabili nello stesso settore, di tenere conto delle indicazioni della scienza e della tecnica per quel settore di attività al fine di prevenire le malattie professionali o al fine di ridurre-abbattere finché è tecnicamente possibile i rischi di malattie professionali”.[7]

I recenti orientamenti giurisprudenziali che si commentano, non fanno altro che rimarcare il principio più volte espresso dalla Suprema Corte secondo cui la responsabilità del datore di lavoro può ritenersi esclusa solo quando questi sia in grado di provare di aver apprestato tutte le misure per evitare il danno occorso al lavoratore.

Le due sentenze di Cassazione che si annotano stabiliscono, seppur in maniera opposta rispetto alla conclusioni a cui giungono, un principio di favor assoluto della tutela della salute del lavoratore.

 

– Precedenti giurisprudenziali in materia di responsabilità ex art. 2087 c.c. per aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi. Brevi cenni. – Per completezza di trattazione, appare utile comprendere se e in che modo la giurisprudenza abbia affrontato la fattispecie della tutela della salute del lavoratore negli eventi criminosi.

Vi sono vari orientamenti giurisprudenziali antecedenti alle sentenze che si commentano i quali trattano, principalmente, tematiche riguardanti rapine compiute nei confronti di uffici postali, di istituti di credito, di caselli autostradali. Per ovvie esigenze di brevità di esposizione, non è possibile esaminare compiutamente nella presente nota tutti i precedenti giurisprudenziali formatisi nel tempo su tale fattispecie.[8]

Tuttavia, risulta opportuno qui richiamare i principi espressi dalla sentenza di Cassazione n. 5048 del 1988 che, in maniera analitica, ha approfondito la tematica della sicurezza sul lavoro correlata a situazioni di ordine pubblico e criminalità.[9]

Tale decisione risulta importante per l’interpretazione adottata rispetto alla fattispecie della tutela della integrità psicofisica del lavoratore da attività criminose di terzi, non espressamente salvaguardata dal legislatore.[10]

Il tema centrale preso in considerazione da tale sentenza del 1988, che specularmente interessa il ragionamento decisorio delle decisioni che si annotano, riguarda infatti l’individuazione delle misure che il datore di lavoro debba o meno adottare per prevenire il danno derivante dall’evento  criminoso sul luogo di lavoro. Sul punto, i giudici di legittimità hanno stabilito che sia necessariamente correlato al rischio di impresa un dovere di protezione dell’integrità psico-fisica del prestatore di lavoro ex art. 2087 c.c. quando l’attività aziendale comporti rischi extra lavorativi.

Secondo la Corte dei Cassazione, tale obbligo avrà un contenuto non teorizzabile a priori, ma ben individuabile nella realtà lavorativa alla stregua delle tecniche di sicurezza generalmente adottate rispetto alla comune esperienza, dovendosi valutare ex ante, con riferimento alla singola unità produttiva, il tipo di attività esercitata e i rischi che ad essa sono naturalmente collegati.

 

3 – Il caso di specie. La sentenza n. 8486 dell’8 aprile 2013: il nesso di causalità tra condotta criminosa del terzo e l’evento lesivo occorso al lavoratore. La valutazione ex ante del rischio da evitare. -  La prima sentenza che si annota riguarda la vicenda di un dipendente di Poste Italiane che, a seguito di una rapina a mano armata avvenuta nel 1999 presso l’ufficio postale ove presta servizio, ha riportato un’invalidità accertata dal C.T.U. nella misura del 15%. La Corte di Appello di Bari, in riforma della sentenza emanata dal Tribunale di primo grado, ha ritenuto sussistente il nesso di causalità tra il danno subìto dal lavoratore e la violazione, da parte del datore di lavoro, dell’adozione di idonee norme di sicurezza imposte dall’art. 2087 c.c..

La società, infatti, durante il giudizio non ha dimostrato di aver mantenuto in efficienza il sistema di sicurezza e protezione in uso presso l’ufficio postale nel quale si è verificata la rapina, né ha provato di aver adottato ogni ulteriore misura di sicurezza in modo da scongiurare eventi criminosi già verificatisi in precedenza presso i medesimi locali. In più, durante il giudizio di Appello, è emerso che le carenze dell’impianto di sicurezza erano note al datore di lavoro avendo, i lavoratori, più volte denunciato i vizi del sistema di allarme.

Poste Italiane ha impugnato tale decisione dinanzi la Suprema Corte sostenendo che i motivi esposti in sentenza dalla Corte d’Appello erano fondati su presupposti probabilistici piuttosto che su dati oggettivi; secondo la tesi difensiva della società ricorrente, infatti, non è possibile conoscere a priori le modalità di svolgimento di un fatto criminoso, né il danno che da esso può scaturire. A parere della società Poste Italiane, quindi, l’impostazione ermeneutica della Corte d’Appello di Bari porterebbe alla paradossale conseguenza per cui ogni misura di sicurezza adottata dal datore di lavoro risulterebbe inadeguata se valutata successivamente all’accadimento dell’evento criminoso; in altre parole, sempre in base ai motivi di doglianza prospettati dalla società, se si aderisse tout cort alla tesi prospettata dai giudici di primo grado, qualora si verifichi un danno alla salute del lavoratore a causa di un evento criminoso, la causa di tale danno sarebbe riconducibile – sempre e unicamente – alla mancata adozione, da parte del datore di lavoro, di idonee misure di sicurezza.

La Suprema Corte nella sentenza n. 8486 dell’8 aprile 2013 rifiuta fermamente tale impostazione difensiva, respingendo il ricorso di Poste Italiane. I giudici di legittimità, a sostegno di tale decisione, affermano che la norma contenuta nell’art. 2087 c.c. non rappresenta fonte di responsabilità oggettiva del datore di lavoro; non può affermarsi che ogni ipotesi di danno verificatasi a discapito del lavoratore sia sempre e comunque riferibile a una negligenza del datore di lavoro.

Tuttavia, secondo il ragionamento decisorio affrontato dalla Suprema Corte, gli obblighi prevenzionistici che l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro non si riferiscono solo alle cosiddette misure nominate, ossia le attrezzature, i macchinari o ai servizi che espletano, ma, soprattutto, si “estendono, nella fase dinamica dell’espletamento del lavoro, anche all’ambiente di lavoro, in relazione al quale le misure e le cautele da adottarsi dall’imprenditore devono prevenire sia i rischi insiti in quell’ambiente, sia i rischi derivanti dall’azione di fattori ad esso esterni e inerenti il luogo di lavoro in cui tale ambiente si trova”. 

A parere dei giudici di legittimità, la responsabilità prevista dall’art. 2087 c.c. va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legale ovvero suggerita dalle conoscenze sperimentali e tecniche del momento.[11]

Affrontando poi nel merito le eccezioni della società ricorrente e, in particolare, l’assunto per cui sarebbe impossibile per l’imprenditore prevenire “le modalità concrete con cui ogni rapina può realizzarsi”,  osserva che l’art. 2087 c.c. pone in capo al datore di lavoro l’onere di valutare se l’attività svolta dalla propria azienda comporti o meno rischi extra lavorativi.

Conseguentemente, secondo la decisione che si commenta, l’obbligo prevenzionistico “avrà un contenuto non teorizzabile a priori, ma ben individuabile nella realtà alla luce delle tecniche di sicurezza comunemente adottate”, onere quindi  che presuppone una concreta indagine  sull’attività svolta nella propria azienda.

Per rafforzare maggiormente tale impostazione ermeneutica, la sentenza qui in esame afferma che  la salvaguardia della tutela della salute e sicurezza del lavoratore è, comunque, funzionalmente collegata al rispetto dei principi di correttezza e buona fede che caratterizzano tutti i rapporti tra le parti e, in particolar modo, quello di lavoro ove tali doveri assumono il valore di una vera e propria  “obbligazione ex lege, accessoria e collaterale rispetto a quelle principali proprie del rapporto di lavoro, involgente quindi la diligenza nell’adempimento ex art. 1176 c.c. (Cass. 7786/95) eventualmente correlata alla natura dell’attività esercitata, e comunque improntata nella sua esecuzione a quei criteri di comportamento delle parti  di ogni rapporto di lavoro costituiti, ex art. 1175 e 1375 c.c., dalla correttezza e buona fede, ormai ampiamente valorizzati dalla giurisprudenza “Cass.  n. 5048/88; n. 7768/95 n. 5696/99 cit.)”.

Alla luce delle considerazioni sopra individuate, la Suprema Corte ritiene corretta l’impostazione della Corte d’Appello di Bari stabilendo che Poste Italiane, con riferimento all’esercizio dell’attività creditizia svolta presso i propri uffici postali oggetto di causa, avrebbe dovuto verificare l’efficienza del sistema di allarme che, invece, è stato più volte segnalato dai lavoratori come non funzionante, circostanza ammessa anche dalla stessa società nel giudizio di merito.

Sul punto, i giudici di legittimità osservano, altresì, che il ragionamento della Corte di Appello di Bari è incensurabile, in quanto correttamente motivato, essendo stato accertato nel merito che non erano state adottate idonee misure di protezione dell’ufficio postale, come ad esempio la predisposizione di “vetrate antisfondamento e antiproiettile, doppie porte con apertura alternata e comando di blocco automatico, con impianti di videoregistrazione, di vigilanza a mezzo guardie giurate, nella adeguata protezione del cortile condominiale, da cui avveniva l’accesso dei dipendenti e del pubblico”.

A conclusione delle proprie argomentazioni decisorie, la sentenza stabilisce che le summenzionate  misure di sicurezza “lungi dall’essere inesigibili dal datore di lavoro”, rientrano nell’ambito di adeguati criteri di prevedibilità dell’evento richiesti dal sistema normativo nella sua interezza e, in particolare, dall’art. 2087 c.c. e, in ogni caso, ricollegabili alla particolarità del lavoro caratterizzata proprio dall’offerta al pubblico di servizi creditizi con movimentazione di denaro liquido.

Il datore di lavoro quindi, secondo la tesi della Suprema Corte che qui si commenta, non potrà invocare la mancanza di responsabilità rispetto all’evento criminoso allorché non dimostri di aver adottato quelle misure idonee e che erano prevedibili ex ante, proprio in base al criterio dell’ordinaria diligenza.       

  

 

 

 

– Orientamenti giurisprudenziali sull’insussistenza di una responsabilità oggettiva del datore per gli eventi criminosi dei terzi. In particolare, la sentenza del 17 maggio 2013, n. 12089.   

Con la seconda pronuncia oggetto della presente nota, ossia la decisione n. 13089 del 17 maggio 2013, i giudici di legittimità tornano a ribadire il principio della non configurabilità di una responsabilità oggettiva del datore di lavoro per i danni subiti dai propri dipendenti a causa di eventi criminosi.

In particolare, la Corte di Cassazione, benché adotti una motivazione a contrario rispetto a quella contenuta nella sentenza n. 8486 del 2013 (respingendo infatti la domanda del lavoratore), tuttavia, ne conferma il medesimo principio di diritto in ordine alla configurabilità di una responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. ove sussista una condotta colposa dell’imprenditore nel caso di un evento dannoso conseguente ad un’azione delittuosa di terzi. Affermano infatti sul punto i giudici della Suprema Corte che il datore di lavoro deve essere ritenuto responsabile dell’evento criminoso quando, a fronte di ripetuti e denunciati episodi criminali, non si sia adoperato per adottare idonee misure per evitare il danno.

Occorre però sin da subito evidenziare che la decisione della Corte di Cassazione in commento risulta “condizionata” da rilevanti carenze probatorie; ed infatti, i giudici di legittimità hanno respinto la domanda del lavoratore proprio sul presupposto che la descrizione degli eventi offerta in giudizio dal prestatore era risultata non circostanziata, non essendo state specificatamente indicate né le misure di prevenzione ex art. 2087 c.c. violate,  né in che cosa fosse consistita la colpa del datore di lavoro.

Entrando poi nel merito poi dei fatti di causa, si evidenzia che la vicenda riguarda una richiesta di risarcimento danni patiti da una guardia giurata aggredita e malmenata da alcuni giovani durante l’espletamento del servizio notturno di vigilanza e pattugliamento in una zona ove era in corso una festa politica.

Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Latina l’accertamento della responsabilità del proprio datore di lavoro in ordine al danno subìto a seguito delle percosse ricevute; la guardia giurata ha invocato la responsabilità dell’imprenditore per non avere quest’ultimo adottato tutte le cautele necessarie al fine di evitare l’evento dannoso, impostando la propria tesi difensiva sul mancato invio di altre guardie giurate sul luogo ove era avvenuta l’aggressione. Tuttavia, è emerso, a seguito dell’istruttoria, che la guardia giurata era in possesso dell’arma di servizio e che la sua auto era dotata di apparecchio radio, con cui egli stesso ha chiesto ed ottenuto l’intervento dei Carabinieri. Nessuna delle testimonianze raccolte però ha confermato la circostanza secondo cui il lavoratore ha chiamato la centrale operativa dell’Istituto di Vigilanza.  

La Suprema Corte, proprio in base a tale rilevante insufficienza probatoria sulla dimostrazione della responsabilità colposa del datore di lavoro negli eventi oggetto di causa, stabilisce che “in riferimento alla tutela dell’integrità fisiopsichica dei lavoratori dalle aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi, l’ambito di responsabilità datoriale di cui all’art. 2087 cod. civ. non può essere dilatato fino a comprendervi ogni ipotesi di danno, sull’assunto che comunque il rischio non si sarebbe verificato in presenza di ulteriori accorgimenti di valido contrasto, perché, in tal modo, si perverrebbe all’abnorme applicazione di un principio di responsabilità oggettiva, ancorata al presupposto teorico secondo cui il verificarsi dell’evento costituisce circostanza che assurge in ogni caso ad inequivoca riprova del mancato uso dei mezzi tecnici più evoluti del momento, atteso il superamento criminoso di quelli in concreto apprestati dal datore di lavoro”.

I giudici di legittimità concludono così il proprio ragionamento decisorio stabilendo che il danno è  derivato da fatto penalmente illecito ed imprevedibile di terzi e che non è configurabile alcuna responsabilità del datore di lavoro, non avendo il lavoratore dedotto e dimostrato specifici profili di colpa dell’imprenditore.

Per completezza di trattazione, pare opportuno segnalare un altro precedente giurisprudenziale di poco antecedente all’ultima sentenza in commento, ossia la pronuncia di Cassazione n. 8855 dell’11 aprile 2013[12] che, sempre in materia di responsabilità del datore di lavoro per attività criminose, enuncia il medesimo principio di diritto affermato nella citata sentenza del 17 maggio 2013.

Protagonista della vicenda oggetto di valutazione da parte della Suprema Corte è un lavoratore di un istituto di credito, vittima, durante i primi anni della propria esperienza lavorativa in qualità di addetto allo sportello bancario, di numerose rapine; a seguito di tali rapine, il lavoratore è stato trasferito ad attività impiegatizie – non di sportello – presso altra agenzia. Dopo oltre 15 anni, l’impiegato è stato nuovamente trasferito ad attività di sportello ed è rimasto nuovamente vittima di ben due rapine. Ebbene, in primo grado la domanda è stata respinta, così pure in fase di appello per genericità dei motivi. La Corte di Cassazione, sulla scia delle sentenze di merito, respinge per infondatezza il ricorso osservando che “la responsabilità datoriale ai sensi della norma citata [art. 2087 c.c. – n.d.r.] non è suscettibile di essere ampliata fino al punto da comprendere ogni ipotesi di lesione dell’integrità psico-fisica dei dipendenti, atteso che nel nostro ordinamento non ha cittadinanza il principio della responsabilità oggettiva, che, ove applicabile, sollecite renne l’aberrante conseguenza dell’ascrivibilità al datore di lavoro di qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile”.

In conclusione, si può affermare che in virtù dei recenti orientamenti giurisprudenziali qui esaminati la responsabilità del datore di lavoro ex art 2087 c.c. per i danni subiti dal lavoratore a causa di attività criminose di terzi non può in alcun modo considerarsi oggettiva, ma sussiste nel momento in cui venga provato dal prestatore di lavoro che la mancata adozione delle misure di prevenzione sia dovuta ad una condotta colposa dell’imprenditore il quale, in ogni caso, ha l’onere di valutare a priori se l’attività svolta nella propria azienda comporti o meno rischi extra lavorativi.

 

[1] Secondo la dottrina la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro, in virtù della lettura combinata degli artt. 32 e 41 della Costituzione, costituiscono beni cardine di rango costituzionale, unitariamente rappresentativi della centralità della persona umana, volti alla sua concreta realizzazione ed affermazione giuridica, rispetto ai quali ogni altro valore e interesse deve cedere il passo Smuraglia, La tutela della salute del lavoratore tra principi costituzionali, norme vigenti e prospettive di riforma, in Riv. It. Dir. Lav., 1988, I, 415 ed ancora  Culotta, Di Lecce, Attività e strumenti di prevenzione, Prevenzione e repressione nella sicurezza e igiene del lavoro, in Quaderni del C.S.M., Roma, 1988,22. Sul primato del diritto alla salute sulla libertà di impresa  che “non lascia (o non dovrebbe lasciare) varchi scoperti né aree immuni, comportando che sia l’organizzazione dei mezzi produttivi a dover essere calibrata e costruita a misura d’uomo, e non viceversa” si veda Montuschi l., L’incerto cammino della sicurezza del lavoro tra esigenze di tutela, onerosità e disordine normativo,in Riv. Giur. Lav.,n. 4, 2001, 503.

[2] Così Cassazione civile, sez. lav., 2 maggio 2000, n. 5491 nella quale la S.C. stabilisce che l’integrità psicofisica e morale dell’individuo trova riconoscimento giuridico non solo quale interesse tutelato da leggi ordinarie (si pensi agli artt. 581, 582, 590 e 185 c.p. o all’art. 5 c.c.) e da leggi speciali (come l’art. 9 dello stat. lav.) , ma addirittura da norme di rango costituzionale, quali quelle contenute nell’art. 32 Cost. che garantisce la salute “come fondamentale diritto dell’individuo”, nell’art. 41 che pone precisi limiti all’esplicazione dell’iniziativa economica privata stabilendo, fra l’altro, che la stessa non può svolgersi “in modo da arrecare danno ... alla dignità umana” e nell’ art. 2 che tutela i diritti inviolabili dell’uomo anche “nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità” e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà sociale.

[3] Si veda per una puntuale disamina di tale principio, tra le tante, Cass. Civ. 7 agosto 1998, n.7792, con nota di Marco Marazza, Giurisprudenza It., 1999, II, 1167, secondo cui “il carattere contrattuale dell’illecito e l’operatività della presunzione di colpa stabilita dall’articolo 1218 c.c. non escludono che la responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c. (che non configura un caso di responsabilità oggettiva) in tanto possa essere affermata in quanto sussista una lesione del bene tutelato che derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali e tecniche”.

[4] In tal senso,  si vedano, ex multis, Cass., n. 6169 del 1998; Cass., n. 3510 del 1996; Cass., n. 11351 del 1993; Cass., n. 3115 del 1991

[5] Del Punta R., Diritti della persona e contratto di lavoro, in Il danno alla persona del lavoratore, Atti del Convegno Nazionale A.I.D.La.S.S. Napoli 2006, Giuffrè, Milano, 2007, 43, il quale afferma che “la vera questione  non è la responsabilità, ma l’obbligo: è la latitudine sostanziale ad esso assegnata da dottrina e giurisprudenza in chiave di massima sicurezza tecnologicamente fattibile”; in giurisprudenza, ex multis: Cass. 12863/2004; Cass. 12467/2003; Cass. 12763/1998. 

[6] Si vedano, sul punto, Cass. 9 marzo 1992, n° 835, Mass. Giur. Civ., 1992, in cui si afferma che “gli obblighi che l’art. 2087 c.c. impone all’imprenditore in tema di tutela delle condizioni di lavoro non si riferiscono soltanto alle attrezzature ma anche ai macchinari e ai servizi che il datore di lavoro fornisce o deve fornire, ma si estendono, nella fase dinamica dell’espletamento del lavoro, ai comportamenti necessari per prevenire, specie in condizioni di particolari difficoltà di esecuzione di fasi lavorative, possibili incidenti”. Altresì, Cass., 8 settembre 1995, n° 9401, Mass. Giur. Civ., 1995, afferma che, “in relazione alle cautele e misure che l’imprenditore deve adottare nell’ambiente di lavoro, si “devono prevenire sia i rischi insiti in quell’ambiente, sia i rischi derivanti dalla azione di fattori ad esso esterni e inerenti al luogo in cui tale ambiente si trova”.

[7] Cass. 20 marzo 2000, in ISL, 2000, 6, 327, in cui si afferma inoltre che “il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare in assoluta sicurezza”, massima citata da R. Guariniello in “Al lavoro sicuri. Obblighi e responsabilità delle imprese nella giurisprudenza penale”, in Riv. Giur. Del Lav. , 4, 531, il quale, tra le tante, richiama in senso conforme: Cass. 30 ottobre 1999, in ISL 2000, 2, 92, Cass., 3 novembre 1998, ibidem, 1999,2, 94.

[8] La questione della tutela della salute del lavoratore negli eventi criminosi è stata affrontata da numerose sentenze della Corte di Cassazione tra le quali ex multis: Cass. 17 luglio 1992, n. 8724, in q. Riv., 1992, 988, con nota di F. Petracci, Rapina negli Istituti di credito e tutela della salute; Cass. 3 settembre 1997, n. 8422, Giust. Civ., 1998, II, 79, con nota di V. Marino, La colpa quale presupposto della dichiarazione di responsabilità ex art. 2087. In particolare, risultano determinanti i principi espressi dalla sentenza di Cassazione del 20 aprile 1998, n. 4012 in Riv.It.Dir.Lav., 1999, II, 326, con nota di G. Mautone, Sul contenuto specifico dell’obbligo di prevenzione delle rapine a carico dell’istituto di credito e sulle conseguenze del suo inadempimento che, richiamando nel suo ragionamento decisorio la precedente Cassazione n. 5048 del 1988, ha affermato che “a norma dell’art. 2087 c.c. che è norma di chiusura del sistema antinfortunistico estendibile a situazioni e ipotesi non espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, l’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisiopsichica dei dipendenti impone l’adozione non solo di tipo igienico sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comune tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di detta integrità anche in relazione  al rischio di aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi, tenuto  conto della frequenza assunta da tale fenomeno rispetto a determinate imprese e alla probabilità del verificarsi di tale rischio, non essendo detti eventi protetti dalla tutela antinfortunistica di cui D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 e giustificandosi l’interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art 32 della Cost.) sia dei principi di correttala e buona fede  (art. 1175 e 1375 c.c.) cui deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto”.     

[9] Cass. n. 5048 del 1988 in Giust. Civ., 1988, II, 2868, con nota di V. Marino, Sul confine tra inadempimento della obbligazione di sicurezza e oggettivazione della responsabilità per danno ai dipendenti.

[10] In merito occorre evidenziare ancora che la sentenza di Cassazione n. 5048 del 1988 risulta fondamentale per il ragionamento espresso ai fine della salvaguardia della salute e sicurezza del lavoratore nelle situazioni in cui il legislatore non ha previsto  una specifica disciplina normativa. Affermano infatti i giudici di legittimità che è necessario tutelare “quegli interessi emergenti che non sono stati ancora considerati e valutati dal legislatore alla cui inevitabile lentezza l'ordinamento stesso è in grado di sopperire con la predisposizione di clausole generali, nella cui volutamente lata e indeterminata formulazione l'interprete, in sede dottrinaria come in sede giurisprudenziale, può appunto cogliere già nel loro nascere nuove esigenze meritevoli di tutela ed attribuire loro (ove appaia consentito alla stregua dell'ordinamento, dal suo insieme e in primo luogo sulla base dei principi costituzionali), veste e dignità di posizioni soggettive tutelate. È significativo il fatto che i nuovi interessi trovino frequentemente un loro referente normativo nella carta costituzionale, nei cui enunciati spesso è dato rinvenire posizioni soggettive in nuce, o non ancora compiutamente disciplinate dal legislatore ordinario, che peraltro consentono un flessibile adeguamento dell'ordinamento alla realtà sociale”.

 

 

[11] Sul punto, si veda Cass. civ., sez. lav., 20 aprile 1998, n. 4012, in Riv. It. dir. lav., 1999, II, p. 236, secondo cui “Ai sensi dell’art. 2087 c.c., che è norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, l’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisiopsichica dei dipendenti impone l’adozione - ed il mantenimento - non solo di misure di tipo igienico - sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di detta integrità nell’ambiente od in costanza di lavoro in relazione ad attività pur se allo stesso non collegate direttamente come le aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi, in relazione alla frequenza assunta da tale fenomeno rispetto a determinate imprese (in particolare, banche) ed alla probabilità del verificarsi del relativo rischio, non essendo detti eventi coperti dalla tutela antinfortunistica di cui al D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 e giustificandosi l’interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 cost.) sia dei principi di correttezza e buona fede (art. 1175 e 1375 c.c.) cui deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro, (nella specie, l’impugnata sentenza - confermata, sul punto, dalla S.C. - aveva affermato la risarcibilità dei danni subiti da un impiegato di banca, rimasto coinvolto in tre rapine, a seguito delle quali aveva riportato un grave stato di malattia nervosa, avendo rilevato come il datore di lavoro, pur mettendo in opera le misure di sicurezza minime previste da un accordo aziendale in materia, non aveva provveduto a garantire il piantonamento dell’agenzia alla quale era addetto il lavoratore né ad attivare un sistema d’allarme collegato con istituti di vigilanza o con le forze dell’ordine).

[12] Su tale sentenza si veda anche la nota di M. Scofferi, “La banca non risponde del danno che una rapina cagiona al proprio dipendente” in Dir. Giust.,  2013, p. 512 in cui l’autore sottolinea come “nel nostro ordinamento non esiste la responsabilità oggettiva. Anche dal punto di vista del merito la Corte, […], avalla integralmente la pronuncia di Appello. Costituisce oggi principio granitico quello per cui «la parte che subisce l’inadempimento, pur non dovendo dimostrare la colpa dell’altra parte [....] è tuttavia soggetta all’onere di allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l’asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o alle misure che debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica dei lavoratori». Allegazioni che, nel caso di specie, erano mancate. L’art. 2087 c.c. non sanziona ogni ipotesi di danno ai dipendenti. La Cassazione esclude quindi la responsabilità del datore di lavoro che abbia correttamente ed esaustivamente adempiuto ai propri obblighi, in modo tale che non sia ravvisabile a suo carico alcun margine di colpa. Ed infatti, la responsabilità ex art. 2087 c.c. «non può essere dilata fino a comprendere ogni ipotesi di danno ai dipendenti, pur se in conseguenza di eventi incolpevoli, sostenendosi che, comunque, il rischio non si sarebbe verificato in presenza di ulteriori accorgimenti di valido contrasto che, in tal modo opinando, si perverrebbe alla abnorme applicazione di un principio di responsabilità oggettiva ancorata al presupposto teorico che qualsiasi rischio possa essere evitato, pur se esorbitante da ogni umana prevedibilità».