Il giudizio sull'equivalenza delle mansioni deve tenere conto della capacità professionale dal lavoratore acquisita dal lavoratore anche se modesta

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, n.4/2004

Pdf pubblicazione

CASSAZIONE, SEZ. LAV., 11 dicembre 2003, n. 18984Pres. Sciarelli -  Rel. Curcuruto – Steccati Paolo (avv.ti Bruno Cossu e Benedetto Ricciardi) c/  Safta S.p.A. (avv.ti  Orlando Sivieri e Giovanni Cuminetti).



Categorie e qualifiche – mansioni diverse rispetto a quelle precedentemente svolte - giudizio di equivalenza ai fini dell’art. 2103 c.c.insussistenza – salvaguardia della professionalità acquisita anche per mansioni semplici ed esecutive.

 

In materia di equivalenza delle mansioni oltre alla loro inclusione nella stessa area professionale e salariale occorre considerare la loro affinità professionale, intesa quale nucleo di professionalità comune o almeno analogo, tale da rendere possibile l’armonizzazione delle nuove mansioni con le capacità professionali acquisite dall’interessato durante il rapporto lavorativo e consentirne ulteriori affinamenti e sviluppi, non assumendo invece rilievo, di per sé, i comuni caratteri di elementarità o semplicità delle precedenti e delle nuove mansioni.

 

IL GIUDIZIO SULL’EQUIVALENZA DELLE MANSIONI DEVE TENER CONTO DELLA CAPACITA’ PROFESSIONALE ACQUISITA DAL LAVORATORE ANCHE SE MODESTA. (1-5)

 

1 – Premessa in fatto.

La sentenza di Corte di Cassazione n. 18984 dell’11 dicembre 2003, costituisce un nuovo ed importante tassello nel variegato mosaico che la giurisprudenza sta cesellando negli ultimi anni in materia di equivalenza di mansioni e di dequalificazione professionale, anche se, quest’ultima fattispecie, nella sentenza che si annota, non viene espressamente riconosciuta ma, indubbiamente, ne risulta essere una necessaria e logica conseguenza proprio in virtù dei principi enunciati dai giudici di legittimità, che di seguito verranno analizzati.

Il profilo specifico del demansionamento, infatti, si configura ogni qual volta vi sia una violazione dell’art. 2103 c.c.;[1] d’altronde, parafrasando quanto autorevolmente sostenuto dalla dottrina, la dequalificazione altro non è che una “violazione della regola dell’equivalenza”.[2]

Ricostruiamo di seguito gli elementi essenziali della controversia per far comprendere l’iter logico-giuridico sviluppato dai giudici nei tre gradi di giudizio; si potranno osservare, così, le diverse interpretazioni adottate; quasi univoche, nei procedimenti di merito, con una analisi più innovativa e attenta, invece, nel giudizio di legittimità. 

La vicenda riguarda un lavoratore inquadrato per cinque anni con qualifica impiegatizia e che fino al 1995 ha svolto mansioni di addetto alla segreteria del servizio tecnico e di contabilità con compiti impiegatizi di segreteria e archivio quali “il fare fotocopie, riordinare documenti che provenivano da altri servizi, rimetterli insieme e trasferirli ad una serie di altre funzioni, battere le lettere, raccogliere, protocollare e archiviare documenti delle ditte esterne, segnare le ore di lavoro svolte dalle imprese, fare il riepilogo, usare il computer da impiegato applicativo, cioè da segretario,  per inserire dati, compilare moduli”, con l’inquadramento contrattuale nella categoria E, posizione organizzativa 2, profilo impiegati.

Successivamente, dall’aprile del 1995, il lavoratore è stato adibito a mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, quali quelle di “operatore di set up”, mansioni rientranti nella categoria E, posizione organizzativa 4, profilo operaio del contratto collettivo, svolgendo in particolare “attività collaterali di preparazione delle macchine che servono a tagliare le bobine di cellophane già prodotte, secondo la misura richiesta dai clienti.

In primo grado il lavoratore ha denunciato l’illegittimità della nuova assegnazione stante l’inferiorità delle nuove mansioni, situazione che ha creato al medesimo “notevoli disturbi e una situazione disadattativa, poi trasformatasi in depressione, con conseguente assenza dal lavoro”; il medesimo, conseguentemente, ha chiesto l’adibizione alle mansioni precedentemente svolte o ad altre equivalenti. La domanda è stata respinta.

Adito in seguito il Tribunale, il giudice di secondo grado ha respinto il ricorso in quanto  “le precedenti mansioni, benché impiegatizie, avevano un carattere routinario, elementare e meramente esecutivo, in nulla dissimile da quello delle nuove. Differenziarle da queste ultime, sul piano professionale, avrebbe comportato una considerazione privilegiata del lavoro impiegatizio rispetto a quello operaio, del tutto superata”.

Successivamente, la questione è stata proposta innanzi alla Corte di Cassazione la quale ha accolto il ricorso censurando i giudici di merito in quanto il giudizio sull’equivalenza delle mansioni non ha adeguatamente affrontato ed approfondito il profilo della salvaguardia della capacità professionale del lavoratore; tale professionalità, invece, deve essere sempre tutelata a prescindere dalla circostanza che il lavoratore svolga mansioni semplici o ripetitive.

Prima di approfondire la sentenza de quo è opportuna una disamina delle interpretazioni della dottrina e della giurisprudenza sull'art. 2103 c.c..

 

 

 

 

2 - Sulla dequalificazione professionale – cenni.

La decisione in epigrafe prende in considerazione l’orientamento sviluppatosi in giurisprudenza in merito all’equivalenza di mansioni, a prescindere dalla presunta semplicità o elementarietà delle stesse.

Occorre preliminarmente evidenziare, prima di entrare nel merito della questione, che gli atti di causa saranno riesaminati dalla Corte di Appello, la quale, dovrà decidere se la modesta professionalità acquisita dal lavoratore, possa essere conservata nelle nuove mansioni.

Al riguardo, si evidenzia che i giudici di merito, nel loro giudizio di equivalenza, dovranno comunque tener conto sia della circostanza che secondo i giudici della Cassazione queste ultime sono “all’apparenza assai lontane dalla prime”, sia del principio dai medesimi espresso per cui  le nuove mansioni dovranno “garantire al ricorrente prospettive di avanzamento professionale non dissimili da quelle collegabili alle mansioni precedenti”.

In virtù del fatto che la Suprema Corte, nella motivazione della sentenza in commento, afferma che le nuove mansioni assegnate al lavoratore sono “all’apparenza assai lontane dalla prime”, il giudice di rinvio dovrà stabilire, in concreto, se le mansioni successive sono equivalenti; in mancanza di un riconoscimento di tale equivalenza vorrà dire che nel caso di specie vi è stata una violazione dell’art. 2103 c.c., in quanto il lavoratore è stato adibito a mansioni inferiori.

La dequalificazione professionale,  i profili di risarcimento del danno ad essa conseguenti, nonché i criteri con cui essa deve essere provata, sono oggetto di numerose pronunce sia di merito sia di legittimità che, quantomeno, rappresentano un punto fermo e consolidato per comprendere quando e come le mansioni siano contrattualmente equivalenti e quando, invece, le stesse siano di un livello non corrispondente a quelle precedentemente svolte, con violazione dell’art. 2103 c.c. (cfr. Cass. 14 dicembre 2002, n. 17209; Cass. 12 novembre 2002, n. 15868;  Cass. 14 novembre 2001, n. 14199; Cass. 2 novembre 2001, n. 13580).[3]

L’indirizzo maggioritario della giurisprudenza sostiene che nel momento in cui il prestatore di lavoro denunci l’illegittima adibizione a mansioni inferiori da parte del datore di lavoro, con conseguente violazione dell’art. 2103 c.c., “il giudice deve stabilire se le mansioni dallo stesso svolte finiscano per impedire la piena utilizzazione e l’ulteriore arricchimento della professionalità acquisita nella fase pregressa del rapporto, tenendo conto che non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale,  in quanto tale fattispecie implica una sottrazione di mansioni tale (….) da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite e un consequenziale impoverimento della sua professionalità”.[4]

Pertanto, si ha un demansionamento nel momento in cui il lavoratore non venga assegnato a mansioni equivalenti rispetto a quelle precedentemente svolte o, al medesimo, vengano sottratti compiti e funzioni,  comprendendovi anche i casi in cui il prestatore venga lasciato inattivo.[5]

Risulta ormai consolidato in giurisprudenza il principio per cui “l’art. 2103 c.c. fonda un diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione di lavoro; (…)…il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, sia con la funzione del lavoro, che costituisce non solo un mezzo di sostentamento e di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore, ai sensi dell’art. 2, 1° comma, 4, 1° comma, e 35, 1° comma,  Cost.. La lesione di tale interesse della persona, che assurge a diritto soggettivo, con la stipulazione del contratto di lavoro prevedente una determinata prestazione, costituisce un inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro e determina, oltre all’obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l’obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale”. [6]

 

L’elaborazione della nozione di equivalenza da parte della dottrina con riferimento all’interesse tutelato dalla norma.

A questo punto, occorre prendere in considerazione gli orientamenti elaborati dalla dottrina in merito alla nozione di equivalenza di mansioni, [7] partendo dal presupposto che l’indeterminatezza dell’art. 2103 c.c., che si limita ad indicare un “generico criterio relazionale tra mansioni di provenienza e di destinazione”, [8] pone notevoli problemi interpretativi.

Di certo, la nozione di equivalenza non può essere “cristallizzata in un canone formale, immutabile, predeterminato in modo rigido”, essendo tale concetto “strutturalmente aperto e solo teologicamente determinato” essendovi così “l’impossibilità di fornire, sul piano astratto-concettuale, una definizione a priori della nozione”.[9]

Per una corretta interpretazione dell'art. 2103 c.c. e della nozione di equivalenza, è necessario comprendere, in concreto, quale sia il bene protetto dalla norma.

La dottrina ha fornito diverse chiavi di lettura al fine di individuare quale sia l’interesse tutelato da tale articolo; tale norma, infatti, limitandosi solo ad indicare che il lavoratore deve essere adibito a mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte, pone indiscutibili problemi sul “valore delle mansioni” da prendere in considerazione per distinguere “l’elemento o parametro tra i valori possibili in astratto (retribuzione, posizione, professionalità, ecc.) rispetto al quale commisurare tale valore”.[10]

Al riguardo,  si rileva che un condivisibile indirizzo della letteratura giuridica sostiene che l’unità di misura per determinare il valore delle mansioni deve avere come riferimento “l’interesse del lavoratore che la disposizione ha inteso proteggere: è in riferimento a tale interesse, infatti, che si specifica il significato dell’espressione mansioni equivalenti ed è solo sulla base della sussistenza o no del pregiudizio dello steso che può essere valutato il minore o l’eguale valore dei compiti (…..) e quindi la legittimità dello spostamento”.[11]

L’interesse che la norma in oggetto vuole tutelare sarà sicuramente quello relativo alla personalità morale del lavoratore per la salvaguardia della sua libertà e dignità, nel senso di una tutela della professionalità acquisita dal medesimo, di ciò che ha appreso e che sa fare,[12] in buona sostanza di quel “patrimonio professionale fatto di esperienza e di intelligenza”.[13] Per stabilire, allora, quando tale patrimonio professionale venga depauperato sarà necessario analizzare e misurare in concreto quelle che la dottrina ha definito come le “dimensioni qualitative dell’attività lavorativa”,  potendosi così affermare che “saranno equivalenti quelle mansioni che non risultino oggettivamente più sfavorevoli rispetto alle precedenti” per poter così concludere che “il livello della qualità del lavoro viene a fungere da criterio di controllo del non minor valore della nuova e diversa professionalità e, quindi, funge da criterio di controllo della non svantaggiosità dello spostamento”.[14]

Secondo la dottrina, quindi, il profilo della dignità preso in considerazione dall’art. 2103 c.c. è quello della dignità professionale della persona lavoratore, in altre parole “la tutela dello status tecnico professionale è la chiave di volta del giudizio di equivalenza” gravando datore di lavoro l’onere di provare il carattere equivalente delle mansioni e il legittimo esercizio dello jus variandi.[15]

In buona sostanza,  il concetto di equivalenza risulta essere “un argine alla mobilità orizzontale, un limite alla variazione qualitativa dell’oggetto della prestazione contrattualmente dovuta al lavoratore (…)” nonché “un criterio delimitativo rispettivamente delle mansioni dovute dal prestatore e delle mansioni esigibili dal datore di lavoro”.[16]

 

Il principio consolidato della tutela della professionalità acquisita dal lavoratore: orientamenti di dottrina e giurisprudenza.

Alla luce di quanto sopra riferito, si può affermare che l’equivalenza, quindi, va intesa in senso professionale, “operando il raffronto tra le mansioni non nell’ambito delle mansioni genericamente comprese nella qualifica contrattuale, ma nell’ambito delle mansioni effettive da cui il lavoratore è distolto dal loro contenuto specifico misurabile sulla base del livello di cognizioni e capacità professionali richieste per svolgerle”.[17] 

La nozione di equivalenza, pertanto, risulta “agganciata al concetto di professionalità, in quanto deve avere riguardo non solo al contenuto intrinseco delle mansioni ma anche, in caso di nuova assegnazione, alla idoneità delle stesse ad incidere, positivamente, sulla professionalità del lavoratore. La nozione di equivalenza assume, in tal modo, una duplice connotazione in quanto destinata ad assumere rilevanza su un piano obiettivo ed uno soggettivo”.[18]

Autorevole dottrina sostiene che “il criterio dell’equivalenza funge da parametro per la valutazione del mutamento di mansioni non soltanto sotto il profilo oggettivo (della classificazione) del posto di lavoro da cui dipende la individuazione delle mansioni, ma altresì sotto il profilo soggettivo dell’attitudine professionale dal cui livello di sviluppo dipende l’idoneità del prestatore alla variazione delle nuove mansioni”. [19]

Tali profili interpretativi della dottrina, relativi alla salvaguardia della professionalità acquisita dal lavoratore, sono poi confortati dall’indirizzo prevalente della giurisprudenza secondo cui l’accertamento comparativo deve avere riguardo alla “competenza richiesta, al livello professionale raggiunto e all’utilizzazione del patrimonio professionale acquisito nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta”. [20]

La Suprema Corte, nel tempo, ha ripetutamente affermato che il mutamento delle mansioni va valutato avendo come riferimento il piano qualitativo delle stesse nel senso che “l’equivalenza non deve esistere solo da punto di vista oggettivo, con l’assimilazione dei compiti nuovi assegnati ai precedenti e l’inquadramento di entrambi nella medesima categoria contrattuale, ma anche dal punto di vista soggettivo”.[21]  

Vi è ormai un principio consolidato dei giudici di legittimità secondo cui, “l’equivalenza fra mansioni di provenienza e mansioni di nuova assegnazione deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle posizioni di lavoro poste a confronto, considerate nella loro oggettività, ma anche come attitudine della nuova posizione a consentire al lavoratore la piena utilizzazione o, addirittura, l’arricchimento del patrimonio professionale acquisito dal lavoratore nella fase pregressa del rapporto”;[22] tale arricchimento professionale, deve essere inteso anche in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze.[23]

Altresì, secondo l’elaborazione giurisprudenziale, il lavoratore deve essere posto nella condizione di poter eseguire effettivamente la propria prestazione per poter apprendere nuove competenze e migliorare quelle già possedute, realizzando così un accrescimento professionale.[24]

La Corte di Cassazione, inoltre, ha più volte ribadito, come tra l'altro nella sentenza de quo e in altre decisioni di seguito riportate, che l’equivalenza delle mansioni di nuova assegnazione rispetto a quelle precedentemente svolte dal prestatore di lavoro deve essere valutata in concreto: “l’accertamento della violazione del divieto di dequalificazione stabilito dall’art. 2103 c.c. - per adibizione del lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quelle spettategli – deve essere compiuto raffrontando le mansioni in concreto attribuite al lavoratore con quelle proprie della qualifica rivestita dal medesimo”.[25]

Secondo la giurisprudenza, infatti, “non è sufficiente verificare se le nuove mansioni siano comprese nel livello contrattuale nel quale è inquadrato il dipendente, essendo necessario verificare altresì l’equivalenza in concreto delle mansioni, con quelle in precedenza assegnate alla stregua del contenuto, della natura e della modalità di svolgimento delle stesse, atteso che la suddetta equivalenza presuppone che le nuove mansioni, pur se non identiche a quelle in precedenza espletate, corrispondano alla specifica competenza tecnica del dipendente”.[26]

Si segnala, inoltre, una sentenza di merito che per certi aspetti risulta simile rispetto a quella in commento; si tratta di un caso dove il prestatore inizialmente ricopriva mansioni di prova gomme, su pista e strada, ma, successivamente, era stato adibito al semplice controllo del pneumatico, svolgendo un’attività meramente manuale, totalmente priva di responsabilità e autonomia nell’esecuzione del lavoro. In tale fattispecie, il giudice ha ritenuto che l’assegnazione di un lavoratore a mansioni non corrispondenti all’inquadramento contrattuale e che non consentivano al medesimo la piena utilizzazione o l’arricchimento della professionalità acquisita nella fase pregressa del rapporto comporta una dequalificazione professionale. [27]

Il giudizio di equivalenza, pertanto, secondo quanto affermato da un indirizzo di dottrina, deve essere “il frutto del raffronto del contenuto professionale delle singole mansioni allo scopo di rinvenire o escludere una comune radice di professionalità,  tenendo presente non la semplice elencazione delle fonti collettive, ma la possibilità per il lavoratore di svolgere le nuove mansioni con le stesse capacità ed attitudini con cui svolgeva le precedenti”.[28]

 

5 - I principi enunciati dalla Suprema Corte in materia di equivalenza di mansioni.  

La sentenza oggetto di nota, in virtù di quanto fin qui analizzato, risulta importante proprio per i principi in essa stabiliti in merito all’interpretazione dell’art. 2103 c.c., all’equivalenza delle mansioni e alla salvaguardia del livello professionale acquisito.

Innanzitutto i Giudici, nell’affrontare la tematica dell’equivalenza delle mansioni, hanno stabilito che “ le nuove devono armonizzarsi con le capacità professionali acquisite dall’interessato durante il rapporto lavorativo consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi; questo criterio va sempre affiancato al profilo oggettivo ossia alla inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione”.[29]

Tale principio rispecchia un consolidato orientamento della giurisprudenza secondo cui “l’equivalenza delle mansioni assegnate al lavoratore richiede, oltre alla parità di inquadramento e di retribuzione, che le nuove mansioni consentano, nel loro espletamento, l’utilizzazione ed il conseguente perfezionamento del corredo di nozioni, esperienza e perizia nella fase pregressa del rapporto”.[30]

Altresì, la Suprema Corte, nella sentenza oggetto dell’odierna analisi, ha censurato la prospettazione dei giudici di appello, secondo cui le mansioni poste a confronto “avevano i medesimi caratteri di sostanziale semplicità e che non vi era stata alcuna compromissione del livello e delle capacità professionali del lavoratore. In buona sostanza, secondo l’assunto dei giudici di secondo grado, “due mansioni del medesimo livello contrattuale si equivalgono quando esse siano egualmente semplici”.

La decisione in commento, invece, risulta importante perché pone a confronto in modo rigoroso le nuove mansioni con quelle precedentemente svolte, a prescindere dallo loro presunta semplicità o elementarità, analizzandone specificatamente il contenuto e avendo come riferimento principale la  professionalità acquisita dal lavoratore; al riguardo, tale Cassazione afferma che per poter stabilire se le nuove mansioni siano equivalenti a quelle precedenti, occorre considerare in concreto i compiti svolti dal lavoratore.

La Suprema Corte, quindi, mostra una “sensibilità giuridica” diversa rispetto a quella espressa dai Giudici di merito, i quali, si erano limitati ad un semplice assunto: “due mansioni semplici sono equivalenti”. A parere dei giudici di legittimità, invece, “questo assunto confonde però – ed in ciò sta la sua erroneità – la riconducibilità delle diverse mansioni ad un nucleo di professionalità comune o a nuclei diversi ma analoghi, nel che consiste l’essenza della loro equivalenza ai fini dell’art. 2103 c.c., con un predicato quale la semplicità o la elementarità che può esser comune ad attività o compiti molto diversi e professionalmente tutt’altro che affini. L’erroneo presupposto del ragionamento svolto dal giudice di appello ha poi determinato un’assoluta assenza di indagine sul modo in cui la professionalità, non importa se modesta, espressa..(dal ricorrente).. nelle mansioni che si sono già ricordate potesse venire conservata dalle nuove mansioni, all’apparenza assai lontane dalle prime”.

La Corte afferma poi, e questo forse è il profilo più interessante, che nella fattispecie in esame "risulta anche del tutto pretermesso il profilo concernente le eventuali differenze nella possibilità di crescita professionale collegata alle une e alle altre”.

La sentenza de quo, pertanto, si distingue per aver analizzato in maniera scrupoloso la problematica della valutazione dell’equivalenza delle mansioni; tale decisione ha il merito di non essere incorsa in semplici banalizzazioni o argomentazioni riduttive solo per il fatto di dover affrontare la questione di una professionalità di  profilo modesto. 

A completamento di quanto esposto in materia di equivalenza di mansioni e di tutela della professionalità acquisita, si può concludere la presente annotazione riportando l’importante principio di diritto espresso dalla Cassazione con la sentenza oggi commentata, principio che, tra l’altro, dovrà essere preso in considerazione dai giudici di appello: “in materia di equivalenza delle mansioni oltre alla loro inclusione nella stessa area professionale e salariale occorre considerare la loro affinità professionale, intesa quale nucleo di professionalità comune o almeno analogo, tale da rendere possibile l’armonizzazione delle nuove mansioni con le capacità professionali acquisite dall’interessato durante il rapporto lavorativo e consentirne ulteriori affinamenti e sviluppi, non assumendo invece rilievo, di per sé, i comuni caratteri di elementarità o semplicità delle precedenti e delle nuove mansioni”.

                                                                                                                       

[1] L’art. 2103 c.c., così come modificato dall’art. 13 St. Lav., dispone che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione”.

[2] Pisani C., “Equivalenza delle mansioni e oneri probatori”, R.I.D.L., 2003, I, 475.

[3] Cfr. Cass. 12 novembre 2002, n. 15868 e Cass. 14 dicembre 2002, n. 17209, con nota di Fontana G., "La risarcibilità dei pregiudizi alla persona del lavoratore nelle ipotesi di dequalificazione professionale”, Rivista Giuridica del Lavoro, n. 3, 2003, 540; Cass. 2 novembre 2001, n. 13580 e Cass. 14 novembre 2001, n. 14199, con nota di Milli F., “Essenza e profili del danni professionale: accertamento da parte del giudice e ricorso alla liquidazione equitativa”, Rivista Giuridica del Lavoro, n. 2, 2002, pagg. 233 e segg.;  Tribunale di Forlì, 15 marzo 2001, con nota di Fontana G, “Tecniche di tutela della professionalità e della personalità morale del prestatore”, Rivista Giuridica del Lavoro, n. 2, 2002,  pagg. 540 e segg.; Cass. 19 maggio 2001, n. 6856 in RGL News, 2001, 3, 8; Cass. 5 novembre 1999, n. 12339, G.Lav., 200, 11, 22.

[4] Cass. 19 maggio 2001, n. 6856, in Not. Giur. Lav., 2001, 595.

[5] Sullo svuotamento di mansioni e la forzata inattività si veda: Cass. 2 gennaio 2002, n. 10, in M.G.L., 7, 2002, 430 e segg., commentata anche in Lav. Prev. Oggi, 2002, 372;  Pret. Milano, 26 agosto 1996, Est. Martello, in Riv. It. Dir. Lav., ott. dic., 1997, 740.

[6] Cass. 1 giugno 2002, n. 7697, in Lav. Prev. Oggi, 10, 2002, 117.

[7] In merito si vedano gli scritto fondamentali in materia di equivalenza di mansioni Giugni, Mansioni e qualifiche nel rapporto di lavoro, Napoli, 1963; Giugni G., Mansioni e qualifiche (voce), in Enc Dir. Vol. XXV, 1975, Milano; Ghera E., Mobilità introaziendale e limiti all’art. 13 dello statuto dei lavoratori, M.G.L., 1984;.

[8] Bianchi D’Urso F. La mobilità orizzontale e l’equivalenza di mansioni, in Quad. Dir. Lav., 1987, n.1, 117; De Luca Tamajo e Bianchi D’Urso F., La mobilità professionale dei lavoratori, in Lav. dir., 1990, 223 ss.

[9] Brollo M., La mobilità interna del lavoratore. Mutamento di mansioni e trasferimento. Art. 2103, Commentario al Codice Civile, Giuffrè, Milano, 1997, 140 e 141. Sull'interpretazione estensiva dell'art. 2103 c.c., nel senso di una concezione dinamica e aperta,  si veda anche altro orientamento della letteratura giuridica secondo cui  “il carattere aperto e duttile della formula di mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte contenute nell’art. 13 St. lav., ha provocato una proliferazione di interpretazioni confliggenti sul contenuto di tale criterio relazionale che si possono schematicamente ricondurre a due opzioni di fondo: una lettura rigida del criterio di valore, imperniata su di una difesa statica della professionalità del lavoratore, quale corredo di nozioni, di esperienza, di perizia, acquisito nella fase pregressa del rapporto…(…invece la seconda opzione va interpretata nel senso) di una flessibilizzazione dei parametri di equivalenza, in relazione alle modificazioni della struttura organizzativa aziendale ed alla necessità di una tutela dinamica, proiettiva delle capacità professionali del lavoratore”.

[10] Pisani C., La modificazione delle mansioni, ed. Franco Angeli, Milano,1996, 127.

[11] Pisani C., ult. op. cit., 127.

[12] Pisani C., op. cit., 129, secondo cui, proprio in considerazione della circostanza che l’art. 13 è inserito nel titolo I dello Statuto, i valori richiamati da tale norma non possono essere altri che quelli della libertà e dignità del lavoratore a cui appunto il Titolo I si riferisce.

[13] Romagnoli, “Commento all’art. 13”, AA.VV., Statuto dei lavoratori. Art. 1-13., I, Zanichelli, Bologna, 1972, 231.

[14] In tal senso cfr. Pisani C., op. cit., 136 e 137, il quale mediando un concetto di tipo sociologico e citando Gallino, “Informatica e qualità del lavoro, Einaudi, Torino, 1983, p.84, si riferisce anche alle  “dimensioni centrali della qualità del lavoro” raggruppandole in tre grandi dimensioni e cioè a) quella della complessità, intendendo così il grado di complessità dei problemi decisionali in cui qualsiasi lavoro può essere scomposto avendo come riferimento la formazione professionale che consente tale compito;  b) quello della dimensione dell’autonomia, intendendo il grado di discrezionalità nell’esecuzione del lavoro e del controllo a cui soggiace il lavoratore; c) la dimensione dell’importanza,  cioè il prestigio che la mansione riveste per l’organizzazione;

[15] Brollo M., op. cit., 138.

[16] Brollo M., op. cit., 134.

[17] Mammone G., “Professionalità del lavoratore ed equivalenza di mansioni”, R.I.D.L., 1985, II, 715,  Romagnoli, in Statuto dei diritti dei lavoratori – art. 1-13, Milano 1979, 228;

[18] Occhipinti A. e Mimmo G. “Mansioni superiori e mansioni equivalenti”, 2002, Giuffrè ed., 153;

[19] Ghera E., Diritto del Lavoro, 2002, Cacucci, Bari, 199. 

[20] In tal senso Cass. 17 marzo 1999, n. 2428, cit. in Ghera E., Diritto del Lavoro, 2002, Cacucci, Bari, 199, nonché in senso conforme sul principio che le nuove mansioni devono “consentire l’utilizzo ed il conseguente perfezionamento del corredo di nozioni, esperienza e perizia acquisito nella fase pregressa del rapporto”, si veda Cass. 18 luglio 1998, n. 70083, Cass. 16 febbraio 1998, n. 1615.

[21] In tal senso Cass. 8 febbraio 1985, n. 1038, in R.I.D.L., II, 1985, con nota di Mammone G., in cui la Cassazione afferma che la valutazione da punto di vista soggettivo va intesa “nel senso che lo svolgimento delle nuove mansioni deve consentire l’utilizzazione e sviluppo delle stesse attitudini e capacità possedute e maturate dal lavoratore nello svolgimento del precedente impegno lavorativo”.

[22] Cass. 19 luglio 1990, n. 7370, M.G.C., 1990, 7, nonché, in senso conforme, Cass. 2 luglio 1992, n. 8114, M.G.C., 1992, 7, secondo cui in materia di equivalenza di mansioni vi è un criterio direttivo “consistente nella necessità di tener conto, da una parte, del contenuto e del modo di svolgimento delle mansioni e, dall’altra parte, dell’idoneità delle mansioni nuove ad arricchire il patrimonio professionale del lavoratore”.

[23] In tal senso Cass. 28 marzo 1995, n. 3623; Cass. 26 gennaio 1993, n. 9319, nonché Cass. 2 ottobre 2002, n. 14150, Pres. Ciciretti, Rel. Picone, in Lav. e Prev. Oggi, 2003, 34, decisione in cui i giudici di legittimità in base al principio “che la nuova collocazione deve consentire al lavoratore di utilizzare, ed anche di arricchire, il patrimonio professionale precedentemente acquisito, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze”, ha cassato la sentenza del Tribunale a cui giudizio la lavoratrice addetta a compiti di segreteria poteva essere assegnata a quelli di portalettere, in quanto formalmente inquadrati nello stesso livello contrattuale e pattiziamente dichiarati dagli agenti contrattuali equivalenti.

[24] In tal senso si confrontino tra le tante: Cass. 22 aprile 1995, n. 4561; Cass. 4 ottobre 1995, n. 10405, in Foro. It., 1995, I, 3133; Cass. 11 gennaio 1995, n. 276, Not. Giur. Lav., 1995, 276; Cass. 13 novembre 1991, n. 12088, Not. Giurisp. Lav.,1991, 80.

[25] Cfr. Cass. 26 gennaio 1989, n. 484, in Giust. Civ. Mass, I, 1989, secondo in ipotesi di mansioni equivalenti  “resta priva di rilievo, ove esse siano corrispondenti, la circostanza che altri lavoratori, prima svolgenti attività coordinata dal lavoratore che lamenti la dequalificazione siano stati inquadrati al suo stesso livello in sede di riorganizzazione aziendale”.

[26] Cass. 17 luglio 1998, n. 7040, R.I.D.L., 1999, 276, nonché in senso conforme Cass. 10 aprile 1996, n. 3340, R.I.D.L., 1996, II, 66, secondo cui “l’indagine circa l’equivalenza o meno, ai sensi dell’art. 2103 c.c., delle nuove mansioni assegnate al dipendente deve essere svolta non solo in base ad un criterio formalistico, ma anche alla stregua del contenuto, della natura e del modo di svolgimento delle prestazioni effettivamente svolte (…); le mansioni hanno carattere di specificità rispetto alla genericità dell’inquadramento, di guisa che il riferimento in astratto al livello o al grado del sistema di classificazione adottato dalla contrattazione collettiva di categoria non è di per sé sufficiente ai fini dell’equivalenza, posto che questa presuppone anche che nuove mansioni, pur se non identiche a quelle in precedenza espletate, siano aderenti alla specifica competenza tecnico-professionale, e siano in ogni caso tali da consentire la utilizzazione del patrimonio professionale acquisito nella pregressa fase del rapporto”.  

[27] Cfr. Pretura Milano, 23 settembre 1997, in DL Riv. crit. dir. lav., 1998, 992.

[28] Mammone G., “Professionalità del lavoratore ed equivalenza di mansioni”, R.I.D.L., 1985, II, 716.

[29] In merito, confronta la giurisprudenza richiamata dai giudici di Cassazione: Cass., 1 settembre 2000, n. 11457; Cass. 2 ottobre 2002, n. 14150; Cass. 15 febbraio 2003, n. 2328.

[30] In tal senso Cass. 16 febbraio 1998, n. 1615, M.G.C., 1998, 345, nonché Cass. 22 aprile 1995, n. 4561, M.G.L., 1995, 384, secondo cui “i limiti posti dall’art. 2103 c.c. allo ius variandi del datore di lavoro sono funzionali alla tutela della posizione professionale del lavoratore, nel senso che le nuove mansioni, cui questi sia eventualmente destinato, possono considerarsi equivalenti  a quelle di provenienza, ove siano idonee a consentire l’utilizzazione, il perfezionamento e l’accrescimento del patrimonio professionale acquisito”. Si vedano anche, in senso conforme, tra le tante: Cass. 28 marzo 1995, n. 3623; Cass. 11 gennaio 1995, n. 276; Cass. 13 novembre 1991, n. 12088; Cass. 10 febbraio 1988, n. 1437.