L’obbligo datoriale di “dare lavoro”: inadempimento, onere della prova e tutela della professionalità

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, n.3/2020

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Corte App. Napoli, sentenza 19 dicembre 2019, Est. Chiodi, M.D.M. (avv.ti E. Cirillo e F. Cirillo) c. T. S.p.a. (avv.ti Maresca, De Luca Tamajo, Morrico e Boccia).

Rapporto di lavoro – Cessione di ramo di azienda – Illegittimità – Mancato ripristino rapporto con il cedente – Diritto al lavoro – Obblighi ex art. 2103 c.c. - Demansionamento – Totale inattività – Ripartizione onere della prova – Danni conseguenti al demansionamento – Risarcimento del danno professionale – Indici – Gravità inadempimento datoriale. 

 

L’obbligo datoriale di “dare lavoro”: inadempimento, onere della prova e tutela della professionalità.

 

“In caso di mancato rispristino del rapporto di lavoro a seguito di una cessione di ramo di azienda dichiarata illegittima, il datore di lavoro che lascia il dipendente in condizione di forzata inattività risulta inadempiente rispetto all’obbligo contrattuale di dare lavoro e deve essere condannato al risarcimento del danno per il pregiudizio arrecato sia alla persona-lavoratore che alla professionalità dello stesso”.

 

La sentenza in commento è di particolare interesse in quanto pone l’accento su diverse fattispecie che sono centrali nel rapporto di lavoro: l’obbligo datoriale di dare lavoro, il conseguente inadempimento del sinallagma contrattuale nel caso di forzata inattività del lavoratore e la salvaguardia della professionalità (per un’analisi approfondita in dottrina e giurisprudenza sul diritto a lavorare si veda De Margheriti 2006, 341). Partendo dal presupposto che il contratto individuale di lavoro è caratterizzato geneticamente da una “pattuizione – che ne costituisce elemento essenziale – dello scambio tra le due prestazioni principali: quella lavorativa e quella retributiva” (Ichino 2003, 23), occorre comprendere quali siano le conseguenze giuridiche per il datore in caso di inadempimento di una delle due prestazioni tipiche, ossia quella lavorativa. Il presente contributo verrà sviluppato tenendo conto di questi aspetti e di come i medesimi siano stati interpretati nel tempo dalla giurisprudenza. Fatta tale premessa di ordine sistematico, queste, in breve, le circostanze oggetto della causa in esame. La controversia trae le mosse da un precedente contenzioso ove il prestatore aveva impugnato una cessione di ramo di azienda. Tale operazione era stata dichiarata illegittima sia in primo che in secondo grado senza poi essere oggetto di successivo gravame in Cassazione e, quindi, divenuta cosa giudicata. La società cedente, nonostante il lavoratore avesse sin da subito offerto le proprie energie lavorative (dal 2012), non ha mai ripristinato il rapporto di lavoro. Il prestatore, quindi, di fatto, rimaneva privo di occupazione, ovvero totalmente inattivo. Il dipendente proponeva ricorso al Tribunale di Napoli per ottenere l’accertamento del demansionamento ed il ristoro dei danni conseguenti a tale condizione di forzata inattività. Il primo giudice, tuttavia, escludeva la responsabilità della società cedente per i vari danni conseguenti al mancato ripristino del rapporto di lavoro. La Corte di Appello di Napoli, invece, in riforma di quanto stabilito dal Tribunale, ha ritenuto la condotta inadempiente della società cedente, che immotivatamente si è rifiutata di ripristinare il rapporto di lavoro, “causativa di danni in conseguenza” in ragione proprio “dello stato di inattività cui è stato costretto il dipendente”.

     

Riprendendo il filo del ragionamento inziale con riferimento al concetto di “diritto al lavoro” (rimandandosi, per chiarezza espositiva, immediatamente al punto successivo la tematica dell’inadempimento e dell’onere della prova), si evidenzia che giurisprudenza ha enunciato il principio per cui vi è un vero e proprio obbligo datoriale di “dare lavoro”. In merito, si segnala una decisione della Suprema Corte (cfr. Cass. 15 settembre 2004, n. 18537, LG, 237, con nota di Casamassima) che, riferita ad una fattispecie inerente il licenziamento di una lavoratrice in maternità, ben evidenzia nella propria motivazione la insopprimibile e fondamentale esigenza di essere messi nelle condizioni di lavorare; pare opportuno, anche ai fini della presente annotazione, riportare un breve passaggio della motivazione: “l’'esecuzione della prestazione, quindi, corrisponde non soltanto, come normalmente accade nello schema tipico dell’obbligazione, all’interesse del creditore, ma anche ad un interesse del debitore diverso ed ulteriore rispetto a quello di liberarsi dell'obbligo e della correlativa responsabilità. Sicchè la prestazione lavorativa, oltre a costituire per il lavoratore l'adempimento della sua obbligazione, rappresenta anche l'oggetto di un suo diritto cui corrisponde l'obbligo del datore di dare lavoro” (in merito, vedano anche Cass. 30 gennaio 2008, n. 11142, RIDL, 2009, II, 81; Cass. 2 agosto 2006, n. 17564, ADL, 2007, 228; in dottrina, sulla sussistenza di un vero e proprio diritto a lavorare si veda: De Angelis 1973, 223, nonché Pera 1991, 388; tra coloro che, invece, negano una tale impostazione affermando che in caso di impedimento della prestazione lavorativa vi sarebbe solo una lesione dell’interesse alla percezione della retribuzione cfr. Vallebona 1996, 364). La giurisprudenza di legittimità ha, poi, più volte chiarito che, in relazione alle disposizioni di cui all’art. 2103 c.c., il prestatore ha diritto a svolgere il proprio lavoro e deve essere adibito a mansioni equivalenti o a quelle riferibili al proprio livello di appartenenza. Il datore di lavoro, di conseguenza, ha l’obbligo sinallagmatico di consentire l’esecuzione della prestazione e, quindi, di porre in essere ogni comportamento che risulti funzionale alla concreta realizzazione di tale adempimento, non lasciando il lavoratore in forzata inattività “poiché il lavoro costituisce un mezzo non solo di guadagno ma anche di estrinsecazione della personalità (ex multis: Cass. 13 febbraio 1998, n. 1530, RIDL, 1998, II, 450 ss., con nota di Gragnoli; ex multis: Cass. 2 gennaio 2002, n. 10, MGL, 2002, 7, 430; Cass. 1 giugno 2002, 7967, NGL, 2002, 761; Cass. 3 giugno 1995, n. 6265, FI, 1996, I, 1000, nonché in RIDL, 1996, II, 363 ss., con nota di Vallebona). Nel caso in cui ciò non accada, come è avvenuto nella vicenda in analisi, si verifica un inadempimento contrattuale e il dipendente può chiedere al giudice la condanna del datore di lavoro all’adempimento, oltre al risarcimento del danno per le conseguenze patrimoniali e non patrimoniali subite.

 

In merito, poi, alla vexata quaestio relativa alla dequalificazione o demansionamento e al conseguente risarcimento del danno, è opinione ormai consolidata in seno alla giurisprudenza di legittimità quella secondo cui, trattandosi di inadempimento contrattuale, l’onere della prova circa l’adibizione del lavoratore a mansioni equivalenti e, comunque, riferibili e/o rientranti nel livello di appartenenza gravi sul datore di lavoro. Pertanto, ogni qual volta si affronti una fattispecie di inadempimento datoriale per la mancata assegnazione di lavoro (demansionamento o dequalificazione), occorre comprendere, da un lato, come debba intendersi ripartito l’onere della prova tra le parti e, dall’altro, quali siano le conseguenze risarcitorie scaturenti da tale condotta. Secondo la giurisprudenza, nel caso in cui il prestatore venga lasciato senza lavoro, l’onere della prova incombente sul datore di lavoro risulta più stringente. In modo speculare, a parere di un ormai consolidato orientamento della Cassazione, quando il lavoratore sia lasciato completamente inattivo l’onere probatorio a carico del medesimo si alleggerisce ulteriormente, fino ad annullarsi completamente laddove tale assenza di lavoro si sia protratta per un tempo particolarmente lungo (in tal senso, da ultimo cfr. Cass. 13 dicembre 2019, n. 32982 in www.italgiure.it. Si veda in proposito anche Cass., Sez. Un.,6 marzo 2009, n. 5454. Rep.FI, 2009, voce Lavoro, n. 994, secondo cui solo lo svuotamento totale di mansioni integra gli estremi dell’inadempimento datoriale). In ordine al regime di ripartizione dell’onere della prova in tema di dequalificazione professionale ex art. 2103 c.c., pare opportuno partire da quanto statuito dalle Sezioni Unite con sentenza del 6 marzo 2006, n. 4766 (in RCDL, 2006, II, 387). Tale arresto ha richiamato gli istituti generali in tema di adempimento contrattuale nella diversa contrapposizione tra gli obblighi del creditore e quelli del debitore. In particolare, la citata sentenza del 2006 richiama nelle proprie argomentazioni i principi in tema di obbligazioni contrattuali espressi dalle Sezioni Unite del 2001 (cfr. Cass. S.U. 30 ottobre 2001, n. 13533, FI, 2002, I, coll. 769, con nota di Laghezza) secondo cui, con riferimento alla prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto”, potendo limitarsialla mera allegazione della circostanza dellinadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dellonere della prova del fatto estintivo dellaltrui pretesa, costituito dallavvenuto adempimento”. In estrema sintesi, nel momento in cui il prestatore (creditore) abbia dimostrato l’esistenza di un diritto destinato ad essere osservato, grava sul datore (debitore) l’onere di dimostrare l’adempimento. In merito, si segnala anche l’importante principio espresso sempre dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 24 marzo 2006, n. 6572 (in RIDL, 2006, II, 696, con nota di Scognamiglio) in materia di danno professionale e ripartizione dell’onus probandi. A riguardo, i giudici di legittimità hanno osservato che, in ragione “della peculiarità del rapporto di lavoro”, quando il lavoratore lamenti un danno come quello alla professionalità tale lesione si configura come conseguenza di un illecito di tipo contrattuale. Si verifica, infatti, una violazione dell’obbligo ex art. 2103 c.c. (divieto di dequalificazione) e ciò comporta che “il datore versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolato dall'art. 1218 cod. civ., con conseguente esonero dell’onere della prova della sua imputabilità”. Per concludere sul punto, e partendo dal presupposto che il dipendente ha diritto all’esecuzione della prestazione lavorativa, la citata Suprema Corte del 6 marzo 2006, n. 4766, ha affermato che allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o un demansionamento o comunque un inesatto adempimento dellobbligo del datore di lavoro ex art. 2103 c.c. è su questultimo che incombe lonere di provare lesatto adempimento del suo obbligo”. Pertanto, alla luce di tale arresto, appare ormai pacifico che l’onere di provare l’esatto adempimento dell’obbligo di dare lavoro sia a carico del datore di lavoro, come peraltro confermato dalla ormai granitica giurisprudenza di legittimità (in tal senso cfr: Cass. 3 luglio 2018, n. 17365, consultabile su www.italgiure.it; Cass. 18 gennaio 2018, n. 1169, inedita a quanto consta; Cass. 3 marzo 2016, n. 4211, GI, 2017, 619 ss., con nota di Baldini; Cass. 17 settembre 2015, n. 18223, ADL, 6, 2015, 1338 ss., con nota di Panizza; Cass. 26 marzo 2008, n. 7871, q. Riv., 2008, II, 880, con nota di Terenzio).

 

La sentenza in annotazione conferma, poi, anche un altro consolidato orientamento della Cassazione, richiamato in motivazione dalla stessa Corte Appello di Napoli, secondo cui la condotta del datore di lavoro “che lascia il lavoratore in condizione di forzata inattività il dipendente non solo viola l’art. 2103 c.c. ma al è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente”. Sempre secondo i giudici di legittimità, la lesione della dignità professionale del prestatore produce “automaticamente un danno rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore) suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa” (cfr. Cass. 12 aprile 2012, n. 7963, MGL, 2013, 300, con nota di Natali, nonché in RIDL, 2013, II, 104, con nota di Petrillo; da ultimo, Cass. 13 dicembre 2019, n. 32982). Tali principi giurisprudenziali confermano tutta la rilevanza della tutela della professionalità del lavoratore “intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo” (in tal senso, Cass. 12 aprile 2012, n. 7963, cit.), concetto che sembrava essersi appannato o sbiadito a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 81 del 2015 all’art. 2103 c.c. che, appunto, hanno abolito il principio dell’equivalenza delle mansioni. Ed infatti, prima della riforma di tale disposizione, l’inosservanza della regola dell’equivalenza integrava la violazione di un obbligo del datore e, quindi, un inadempimento contrattuale (in tal senso, Brollo 1997, 246). Tuttavia, occorre rammentare che da sempre, nell’esegesi giurisprudenziale, l’interesse tutelato dall’art. 2103 c.c. è quello relativo alla protezione della libertà, della dignità e della personalità morale del lavoratore, ove la tutela della professionalità acquisita dal medesimo è un diritto fondamentale nel rapporto di lavoro (ex multis: Cass. 7 luglio 2001, n. 9228, LPO, 2001, 1405; Cass. 1 settembre 2000, n. 11457, NGL, 2001, 38) In merito, si evidenzia che la Suprema Corte ha dato risalto a questi valori della persona ritenendo che nel momento in cui il lavoratore venga lasciato in una condizione di inattività si verifichi “un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell'impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare” (Corte di Cassazione, ord. 20 giugno 2019, ord. n. 16595, inedita). Il lavoratore, infatti, anche nell’attuale sistema normativo deve essere messo nella condizione di esercitare la propria attività, e ciò al duplice scopo di consentirgli sia di conservare quanto appreso durante il rapporto di lavoro, sia di aggiornare e migliorare le proprie capacità, in una concezione dinamica del patrimonio professionale che deve tendere alla tutela dello stesso. Il principio dell’equivalenza delle mansioni, a parere di chi scrive, è stato sostituito con un nuovo obbligo, che non appare tuttavia meno cogente, di assegnare il dipendente a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento rispetto alle ultime effettivamente svolte. Il nuovo art. 2103 c.c., pertanto, non sembra autorizzare tout court una lesione della professionalità, visto che le ipotesi di ius variandi in tema di adibizione a mansioni inferiori sono legittimate solo da fattispecie tipiche, come ad esempio: la dequalificazione di un livello, ma solo in caso di una riorganizzazione che incida sulla posizione del lavoratore (cfr. art. 2103, comma 2); un patto di dequalificazione con il lavoratore (nelle forme e modalità del comma 6), ma solo in presenza di interessi tassativamente individuati e tipizzati (e, in particolare, l’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita). Il datore di lavoro, quindi, ha l’obbligo di cooperare al fine di mettere il prestatore nelle condizioni di lavorare, garantendo che l’esecuzione della prestazione assicuri la salvaguardia della professionalità. Per concludere, alla luce dell’esegesi giurisprudenziale sin qui esaminata e parafrasando un’autorevole dottrina, si può affermare che il “diritto al lavoro” non è solo un mezzo per assicurare una retribuzione (Giugni 1973, 14 ss), ma anche, e soprattutto, un diritto fondamentale di estrinsecazione della dignità e personalità del lavoratore.

Riferimenti bibliografici

 

Brollo M. (1997), La mobilità interna del lavoratore, in P. Schelesinger, Commentario al codice civile, Milano, 246. Casamassima L. (2005), Regime protettivo invocabile dalla lavoratrice madre licenziata, LG, 3, 237 ss. De Angelis L. (1973), Considerazioni sul diritto al lavoro e sulla tutela, Riv., I, 223. De Margheriti M.L. (2006), Obbligo e diritto a lavorare quale strumento di tutela della professionalità, Riv., I, 341. Gragnoli E. (1998), Mutamento delle mansioni e informazione del lavoratore, RIDL, II, 450- 453. Giugni G. (1973), Qualifica, mansioni, e tutela della professionalità, q. Riv., I, 14 ss.. Ichino P. (2003), Il contratto di lavoro, in Trattato di diritto civile e commerciale, Giuffrè, Milano, 23. Laghezza P. (2002), Inadempimenti ed onere della prova: le sezioni unite e la difficile arte del rammendo, FI, I, col. 769. Panizza G. (2015), Ius variandi e oneri probatori: su chi grava la prova dell’osservanza o dell’inosservanza della regola dell’equivalenza, ADL, 6, 1338 ss. Pera G. (1991), Sul diritto del lavoratore a lavorare, RIDL, II, 388 ss. Petrillo A. (2013), Diritto del lavoratore all’esecuzione della prestazione e danno non patrimoniale: incertezze interpretative e spunti evolutivi, RIDL, II, Scognamiglio R. (2006), Le Sezioni Unite sull’allegazione e la prova dei danni cagionati da demansionamento o dequalificazione, RIDL, II, 696. Terenzio E. M. (2008), L’onere della prova del danno da dequalificazione può essere assolto anche per presunzioni, q. Riv., II, 880. Vallebona A. (1996), Spunti critici sula questione del diritto del lavoratore allo svolgimento della prestazione, RIDL, II, 364 ss..