Immodificabilità della contestazione disciplinare e vizio di ultra petizione

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Lavoro e Previdenza Oggi, n.9/10 2020

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Nota a Corte di Cassazione, Sez. Lav., sentenza 10 febbraio 2020, n. 3079, Pres. Patti - Est. Cinque - D. G. R. (avv.ti Punzi, Dentici) c. Poste Italiane S.p.a. (avv. Granozzi)

 

Rapporto di lavoro - Contestazione disciplinare – Condotte illegittime - Licenziamento per giusta causa – Immodificabilità della contestazione – Circostanze nuove – Diversa valutazione infrazione – Conversione sanzione – Vizio ultra petizione.

 

In tema di licenziamento disciplinare, il fatto contestato ben può essere ricondotto ad una diversa ipotesi disciplinare ma l’immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far poi valere, a sostegno della legittimità del recesso stesso, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell’addebito (Massima a cura dell’A.).

 

La sentenza oggetto di commento riguarda la vicenda di un licenziamento disciplinare in cui veniva contestata al prestatore, direttore e reggente di un ufficio postale, la violazione di alcune disposizioni interne alla cui osservanza dovevano attenersi tutti gli operatori dello sportello. In particolare, al lavoratore veniva addebitato di aver autorizzato operazioni concernenti la vendita di titoli, rimborsi ed accrediti su un libretto di risparmio cointestato tra due persone sulla base di disposizioni provenienti da uno soltanto dei clienti titolari che, tuttavia, risultavano sottoscritte in data successiva al decesso di uno dei due. Il dipendente si opponeva al provvedimento espulsivo affermando di essere stato tratto in inganno dalla sorella del defunto (cointestataria), la quale aveva dichiarato l’esistenza in vita di quest’ultimo. La società irrogava il recesso in quanto la condotta del lavoratore era idonea a concretizzare una lesione dell’elemento fiduciario tale da minare in maniera irreversibile il rapporto di lavoro. Il comportamento contestato costituiva, a parere del datore, una violazione degli obblighi e delle disposizioni interne, richiamando espressamente nella lettera di addebito la norma relativa a gravi irregolarità procedurali, fattispecie tipizzata dall’art. 54, co. V, lett. c), CCNL Poste, che prevede l’applicazione della sanzione del recesso con preavviso. Il Tribunale di Termini Imerese dichiarava illegittimo il recesso. La Corte di Appello, invece, riformava la sentenza di prime cure ritenendo che la condotta dovesse essere riqualificata sotto altra fattispecie rispetto a quella contestata - ossia il citato art. 54, co. V, lett. c) - riconducendo l’infrazione oggetto di causa all’articolo 54, comma VI, lettera c) del CCNL di settore, che punisce con il licenziamento senza preavviso “le violazioni di legge o di regolamenti o dei doveri di ufficio che possono arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio alla società o a terzi”. I giudici di secondo grado, pertanto, effettuavano una nuova qualificazione della infrazione disciplinare, ritenendo che la stessa fosse sussumibile sotto altra norma del contratto collettivo e non nell’ambito di quella individuata dalla società. La Corte di Appello di Palermo, in riforma della sentenza di prime cure, rigettava quindi il ricorso originario ed avente ad oggetto l’impugnazione del licenziamento.

Il nodo della controversia si incentra sul principio di immutabilità della contestazione[1] e sul vizio di ultra petizione. In sostanza, ciò che viene censurato in Cassazione è l’errore della Corte territoriale che, nello stabilire una nuova sanzione disciplinare, avrebbe erroneamente ampliato il thema decidendum sostituendosi al datore di lavoro. Secondo parte ricorrente, i giudici di merito avrebbero dovuto limitarsi a verificare se la condotta rientrasse o meno in quella contestata e fosse sanzionata con il licenziamento con preavviso[2].

Al fine di una migliore comprensione delle tematiche trattate dal provvedimento in commento, occorre evidenziare che, in virtù del noto principio di cristallizzazione della contestazione, la giurisprudenza ha stabilito, con orientamento ormai consolidato, che la preventiva comunicazione dell’infrazione disciplinare ha quale obiettivo quello di garantire al lavoratore di prendere posizione sui fatti che gli vengono imputati; pertanto, l’addebito deve necessariamente individuare in maniera circostanziata il comportamento ritenuto suscettibile di sanzione, contenendo un’esposizione “dei dati e degli aspetti essenziali del fatto materiale”, affinché lo stesso prestatore possa difendersi concretamente sui fatti addotti[3]. Tali principi trovano precipuo supporto normativo nelle regole ex art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, che tutelano il prestatore da un utilizzo arbitrario del potere disciplinare da parte del datore. Al riguardo, pare opportuno evidenziare come la recente sentenza della Corte costituzionale n. 150 del 2020[4] ha posto l’accento sulla fondamentale rilevanza del procedimento disciplinare ex art. 7 che si “estrinseca nel rispetto di precise regole e si snoda attraverso fasi successive” come: la preventiva contestazione, l’obbligo di motivazione, l’immutabilità della stessa e l’audizione orale. Garanzie queste che, a parere della Consulta, incidono sull'effettività del diritto di difesa del lavoratore e rappresentano, pertanto, non “vuote prescrizioni formali” ma “opportuni temperamenti” al recesso del datore di lavoro.[5] Peraltro, proprio alla luce delle argomentazioni espresse dai giudici della Consulta, la formulazione di una contestazione effettuata in maniera generica appare contraria anche ai doveri di correttezza e buona fede ex art. 1175 e 1375 c.c., determinando un affievolimento delle garanzie e del diritto di difesa endoprocedimentale. Ed infatti, solo una precisa indicazione dei fatti posti a sostegno dell’addebito consente al lavoratore di esercitare appieno le proprie difese, permettendogli così di prendere puntuale posizione sugli stessi mediante le proprie giustificazioni. Peraltro, una contestazione non specifica o incompleta incide anche sulla possibilità stessa di compiere la verifica circa la sussistenza del fatto contestato o sulla sua riconducibilità a previsioni del codice disciplinare[6].

In particolare, ciò che deve essere scrupolosamente indagato nell’ambito di un procedimento disciplinare è la sussistenza o meno del requisito della specificità della contestazione, connotazione, questa, che non va intesa rigidamente, ma che deve consentire al dipendente di individuare gli elementi necessari ed essenziali del fatto materiale addebitatogli[7].

In tal senso, è principio granitico nella giurisprudenza quello della immodificabilità del fatto imputato al lavoratore in relazione al quale la Suprema Corte ha sostenuto che “in tema di licenziamento disciplinare, ove la contestazione sia stata formulata in maniera generica per una parte dell’addebito, è corretto l’operato del giudice di merito che abbia valutato, ai fini della verifica circa la legittimità o meno della sanzione solo i fatti specificamente contestati, senza tener conto dei fatti genericamente indicati[8].

Il tema centrale che governa la fattispecie in analisi riguarda proprio i comportamenti che sono contestati al lavoratore, i quali devono corrispondere esattamente a quelli posti a sostegno del recesso. Sul punto, la sentenza di Corte di Cassazione oggetto di annotazione, con ragionamento ben articolato, richiama i propri precedenti con riferimento al principio di immutabilità della contestazione disciplinare affermando che il giudice può valutare fatti diversi ma solo quando i medesimi siano strettamente connessi all’addebito disciplinare. A parere dei giudici di legittimità, sono violate le regole ex art. 7 dello St. Lav. quando la sanzione sia irrogata per una ragione diversa da quella contenuta nella contestazione. Ciò, tuttavia, si verifica solo se vi sia stata una mutazione del fatto in questo caso “inteso con riferimento alle modalità dell’episodio e al complesso degli elementi di fatto connessi all’azione del dipendente”. Osserva poi la Suprema Corte, sempre nel provvedimento in analisi, che si configura una modifica dell’addebito allorché “il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa[9]”. Tuttavia, è possibile ricondurre il fatto ad una differente ipotesi disciplinare, in sostanza un diverso “apprezzamento” del caso concreto, ove però il limite oltre il quale il datore e il giudice non può spingersi è quello di far valere circostanze nuove o, comunque, emerse solo in giudizio[10], che comportino una differente valutazione della condotta oggetto di addebito che, peraltro, viene diversamente tipizzata dal contratto collettivo[11].

La ratio di tale principio risiede nel garantire al lavoratore il diritto di difesa, come previsto dal procedimento disciplinare ex art. 7, L. n. 300 del 1970 e dall’art 24 Cost., che risulterebbe violato nel caso in cui il lavoratore fosse licenziato per episodi diversi da quelli oggetto della contestazione e sui quali non ha preso posizione.

Una diversa impostazione consentirebbe al datore di lavoro di aggiungere arbitrariamente elementi nuovi rispetto a quelli dedotti nella contestazione, allargando in modo indiscriminato le maglie dell’esercizio del potere disciplinare attraverso un’inammissibile formazione progressiva della condotta oggetto di addebito “con fatti adattati in relazione alle difese del lavoratore[12]. Del pari, al giudice non è consentito convertire il licenziamento, ad esempio, da giusta causa a giustificato motivo soggettivo, mutando le ragioni poste a sostegno della contestazione quando ciò comporti un accertamento di circostanze nuove ed ulteriori rispetto a quelle indicate dal datore. In tal caso, infatti, si verificherebbe un’indebita ingerenza nelle determinazioni del datore di lavoro nonché il vizio di ultra petizione, in quanto il giudice si sostituirebbe alla parte disponendo su fatti differenti da quelli oggetto di accertamento[13].

Per concludere sul punto, a parere della Cassazione, la Corte di Appello è incorsa nel suddetto vizio di ultra petizione perché ha proceduto ad una modifica della contestazione disciplinare alterando in questo modo il thema decidendum e statuendo all’esterno del perimetro delimitato dalle parti in causa mediante l’esame di fatti nuovi che non erano stati addotti dal datore di lavoro a sostegno del recesso. Nel caso di specie, pertanto, la sentenza di secondo grado, attuando una diversa qualificazione giuridica dei fatti oggetto di addebito, non ha fatto corretta applicazione di quell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui, nell’indagine circa le circostanze poste a sostegno del licenziamento disciplinare, il giudice deve necessariamente verificare la corrispondenza tra fatto contestato e provvedimento irrogato.

 

[1] Per un approfondimento sul principio di cristallizzazione della contestazione disciplinare si veda: D. Zavalloni, Sul principio di immutabilità della contestazione del licenziamento, nota a C. App. Bologna, 11 luglio 2019, in Guida al Lav., 2019, 45, 43; F. M. Gallo, Tempestività ed immutabilità della contestazione disciplinare in presenza di procedimento penale, nota a Cass. 20 giugno 2014, n. 14103, in Lav. giur., 2015, 69; A. Rota, Rilievi sull’immutabilità della contestazione dell’addebito nel licenziamento disciplinare e sui poteri del giudice in sede di controllo di legittimità, nota a Cass. 5 marzo 2010, n. 5401, in Arg. dir. lav., 2010, 1355.

[2] Sul punto, per un approfondimento sulla tematica inerente alla possibilità o meno, per il giudice di merito, di far ricorso all’interpretazione estensiva o all’analogia al fine di ricondurre una condotta non tipizzata dal contratto collettivo nell’alveo di una sanzione disciplinare si veda: M. Salvagni, Licenziamento disciplinare e sanzione conservativa: reintegra solo per condotte tipizzate dal CCNL non suscettibili di interpretazione estensiva o analogica, in Lavoro e prev. oggi, 2019, 11-12, 694.

[3] In tal senso, si veda Cass. 20 marzo 2018, n. 6889, in Nuova giur. civ., 2018, 1252 e ss., con nota di Rizzato; Cass. 12 gennaio 2017, n. 619, inedita, nonché Cass. 08 aprile 2016, n. 6898, inedita.

[4] Cfr. Corte costituzionale n. 150/2020, in Dir. prat. lav., 2020, 36, 2195. La sentenza tratta la questione della illegittimità costituzionale dell’art. 4 del D.Lgs. 23/2015 sollevata dal Tribunale di Bari, con ordinanza n. 214 del 18 aprile 2019, pubblicata in G.U. n. 49 del 4 dicembre 2019. La Consulta, con riferimento alla tematica dell’indennizzo spettante in caso di licenziamento affetto da vizio formale, ha dichiarato l’illegittimità di tale norma nella parte in cui ha stabilito il parametro per la liquidazione nella sola anzianità di servizio.

[5] A completamento di tale assunto, i giudici della Corte costituzionale n. 150 del 2020 affermano che “l'obbligo di motivazione e la regola del contraddittorio sono riconducibili al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli artt. 4 e 35 Cost., che impone al legislatore di circondare di "doverose garanzie" e di "opportuni temperamenti" il recesso del datore di lavoro (sentenza n. 45 del 1965, punto 4. del Considerato in diritto), come questa Corte ha ribadito da ultimo nella sentenza n. 194 del 2018 (punto 9.1. del Considerato in diritto). Anche i vincoli di forma e di procedura rientrano nell'àmbito delle garanzie prescritte dalle norme ora richiamate, lette congiuntamente, proprio perché volte ad ampliare il perimetro delle tutele che circonda la persona del lavoratore”.

[6] Sul punto si veda P. Sordi, Il nuovo rito per le controversie in materia di licenziamenti, in L. Di Paola (a cura di), La riforma del lavoro. Primi orientamenti giurisprudenziali dopo la Legge Fornero, Milano, 2013, 328.

[7] Cass. 9 ottobre 2015, n. 20319, in Lav. giur., 2016, 467 e ss., con nota di Piovesana, in Notiz. giur. lav., 2016, 43 e ss.; nonché Cass. 15 maggio 2015, n. 10662, in Riv. it. dir. lav., 2015, II, 17 e ss., con nota di Centamore.

[8] Cass. 24 luglio 2018, n. 19632, in Il Foro it., Rep. 2018, voce Lavoro (rapporto), n. 1137; in senso conforme, Cass. 28 agosto 2018, n. 21265, inedita; Cass. 25 marzo 2019, n. 8293, in Il Foro it., Rep. 2019, voce Lavoro (rapporto), n. 1575; Cass. 14 dicembre 2016, n. 25745, inedita.

[9] Si veda Cass. n. 2935 del 2012, inedita.

[10] Sulla immodificabilità della contestazione con riferimento alla impossibilità di prendere in considerazione integrazioni emerse solo in sede giudiziale si vedano: Cass. 5 luglio 2018, n. 17676, Cass. 28 agosto 2018, n. 21265 e Cass. 25 marzo 2019, n. 8293, inedite.  

[11] Cfr. Cass. 22 marzo 2011, n. 6499, in Riv. it. dir. lav., 2011, II, 1117 e ss.

[12] C. Lanzinger, L’immutabilità “flessibile” della contestazione di addebito disciplinare, in Riv. giur. lav., 2, II, 2011,163.

[13] Sul principio dispositivo, v., per tutti, A. Barletta, Extra e Ultra petizione: studio sui limiti del dovere decisorio del giudice civile, Milano, 2012; A. Carratta, Dei poteri del giudice, in S. Chiarloni (diretto da), Commentario del codice di procedura civile, 2011, 200 e ss.; E. Ricci, Il principio dispositivo come problema di diritto vigente, in Riv. dir. proc., 1974, 382 e ss.; E. T. Liebman, Fondamento del principio dispositivo, in Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo, II, Milano, 1963, 441 e ss..