Jobs act e licenziamento per g.m.o.: obblighi formativi, repêchage e quantificazione dell’indennizzo in funzione dissuasiva

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, n.4/2020

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TRIBUNALE LECCE, 19.6.2020 - Est. Carbone, D.A.G. e M.P. (avv. Chironi I.) c. G.F.L S.r.l (avv.ti Gallozzi S., Tondi V. e Tolomeo A). 

Rapporto di lavoro – Contratto a tutele crescenti – Licenziamento per gmo – Repêchage – Oneri a carico datore di lavoro – Obblighi formativi ex art. 2103 c.c. – Costi formativi non eccessivamente onerosi  – Correttezza e buona fede  –  Violazione repêchage – Illegittimità del recesso.

Rapporto di lavoro – Licenziamento per gmo – Regime sanzionatorio ex art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 – Corte Costituzionale n. 194/2018 – Criteri di quantificazione dell’indennizzo – Condotta e condizioni delle parti – decisione Ceds – Illegittimità del recesso anche per violazione repêchage – Risarcimento in funzione dissuasiva.

 

In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’obbligo formativo previsto dalla riforma del 2015 appare una rilevantissima aggiunta normativa all’art. 2103 c.c. che si ritiene influenzi direttamente gli oneri datoriali in vista del repêchage, ampliando anche quelli di allegazione e prova del datore. Pertanto, il possibile ripescaggio dei dipendenti mediante un iter formativo deve considerarsi come un contraltare della maggiore flessibilità in uscita consentita dal d.lgs. 23/2015 che ha escluso, p. es., l’ipotesi di manifesta insussistenza del gmo e ha rimodulato il sistema degli indennizzi. (1)

 

La quantificazione dell’indennizzo previsto dall’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve tener conto della condotta del datore anche con riferimento alla possibilità di salvaguardare il posto di lavoro e le condizioni delle parti. Tutti questi elementi devono essere valutati complessivamente al fine di stabilire un indennizzo avente funzione effettivamente dissuasiva anche alla luce della decisione del Comitato europeo dei diritti sociali dell’112.2020. (2)

 

(1-2) Jobs act e licenziamento per g.m.o.: obblighi formativi, repêchage e quantificazione dell’indennizzo in funzione dissuasiva.

 

La sentenza oggetto di commento consente alcuni spunti di riflessione sulla fattispecie dei contratti a tutele crescenti e sul regime sanzionatorio previsto dall’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il provvedimento in analisi, infatti, tratta due argomenti: da una parte,l’obbligo di repêchage, dando risalto alla tematica dei relativi oneri di allegazione, con specifico riferimento anche alla formazione prevista dall’art. 2103 c.c., da considerarsi alla stregua di un dovere a carico del datore; dall’altra, le modalità per la quantificazione dell’indennizzo conseguente al recesso illegittimo dopo l’arresto della Corte cost. n. 194 del 2018 (in RGL, 2019, II, 3, con nota di Speziale; in RIDL, 2018, II, 1059, con nota di M.T. Carinci), che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui fa esclusivo riferimento all’anzianità di servizio. Secondo la sentenza in analisi, al fine di stabilire una sanzione avente funzione effettivamente dissuasiva, devono essere valutati complessivamente i seguenti criteri: il tipo di violazioni che hanno determinato il recesso, la condotta del datore, anche con riferimento alla possibilità di salvaguardare il posto di lavoro (soprattutto in contesti di grandi realtà aziendali) e le condizioni delle parti. Venendo al caso di specie, la vicenda prende le mosse da un licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo e disposto dalla societàin quanto l’appaltante aveva comunicato la cessazione del servizio.  In particolare, i lavoratori rappresentavano di aver svolto, in ragione dell’appalto, attività di addetti al trasporto di emoderivati e medicinali in favore del committente. La motivazione addotta a sostegno del provvedimento espulsivo faceva quindi riferimento alla dismissione di una parte dell’attività economica a cui erano addetti i ricorrenti. 

 

Ricostruiti in breve i passaggi essenziali della sentenza, occorre prendere posizione sulle questioni che appaiono di maggiore interesse ai fini della presente annotazione. Il giudice, a sostegno delle proprie argomentazioni, haeffettuato un’articolata e puntuale ricostruzione della giurisprudenza in tema di repêchage e dei relativi oneri di allegazionea carico del datore di lavoro (per una completa disamina in materia di licenziamento per gmo e violazione dell’obbligo di repêchage si veda: Maresca 2019, 553; Persiani 2016, 1164 ss.; Santoro Passarelli G. 2013, 236). Il Tribunale di Lecce, richiamando espressamente gli indirizzi giurisprudenziali formatisi sul punto (tra le tante, Cass. 2.5.2018, n. 10435, pubblicata rispettivamente in LPO, 2018, 7-8, 481, con nota di Salvagni, nonché in DML, 2019, I, 909 e ss., con nota di Ammassari; Cass. 5.1.2017, n. 160, Cass., 9.11.2016, n. 22798 e Cass. 21.12.2016, n. 26467, tutte pubblicate in RGL, 2017, II, 245, con nota di Calvellini; Cass. 10.5.2016, n. 9467, in ADL, 2016, 4-5, 88), ha stabilito l’illegittimità del recesso per violazione di tale obbligo, in quanto il datore non ha dimostrato in giudizio l’insussistenza di altre posizioni in cui ricollocare i lavoratori licenziati, anche con riferimento all’adibizione in mansioni inferiori (cfr. sull’obbligo di repêchage anche in mansioni inferiori, ex multis: Cass. 26.5.2017, n. 13379, in RGL, 2017a, II, 577, con nota di Salvagni; Cass. 19.11.2015, n. 23698, in RGL, 2016, II, 182, con nota di Giordano; Cass., 22.5.2014, n. 11395, in D&G, 2014; Cass. 23.10.2013, n. 24037, in RIDL, 2014, II, 296; per una ricostruzione sull’evoluzione giurisprudenziale in tema dell’obbligo di repêchage in mansioni inferiori, si rimanda a Salvagni 2017b, 254 e ss). Risulta, poi, particolarmente significativa la parte della motivazione in cui il magistrato salentino dà ampio risalto alla fattispecie dell’obbligo di formazione previsto a carico del datore di lavoro dall’articolo 2103 c.c., comma 3 (come modificato dal d.lgs. n. 81/2015), in caso di mutamento di mansioni. Infatti, il provvedimento in commento afferma che, poiché «la previsione legale amplia lo spettro delle soluzioni che il datore deve intraprendere» per tentare una riconversione del prestatore in posizioni alternative, il giudice deve verificare se l’imprenditore, in caso di recesso, abbia adempiuto esattamente, secondo i canoni della correttezza e buona fede, all’obbligo di formazione purché ciò non comporti un costo eccessivamente oneroso. A giudizio del Tribunale, l’inadempimento di tale dovere incide sulla decisione in merito alla violazione del repêchage. Secondo la dottrina tale obbligo formativo, a seguito della novella del 2015, assume una rilevanza maggiore rispetto al passato e, anche se non «assurge ad elemento costitutivo del contratto (…), costituisce generale espressione degli obblighi di correttezza e buona fede ex art. 1175 e 1375 c.c. nell’esecuzione dello stesso» (Buconi 2016, 92-93). In dottrina, tuttavia, è stato sostenuto che in caso di recesso non esiste un vero e proprio obbligo di formazione dei dipendenti ai fini della loro ricollocazione, se non in posizioni libere, perché l’imprenditore non può sopportare un carico economico eccessivo per mettere in condizione il lavoratore di espletare nuove mansioni (in tal senso, Pisani 2015, 150 secondo cui ciò sarebbe in contrasto con l’art. 41 Cost., imponendo al datore un “doppio costo” sia per la formazione sia per la retribuzione). La sentenza in analisi, invece, risulta innovativa in quanto qualifica il dovere formativo previsto dalla riforma del 2015 come «una rilevantissima aggiunta normativa all’articolo 2103 c.c. che si ritiene influenzi direttamente gli oneri datoriali in vista del repêchage, ampliando anche gli oneri di allegazione e prova del datore in simili ipotesi».  A riguardo, nella vicenda de qua la società ha argomentato l’impossibilità di ripescare i ricorrenti per mancanza di posizioni fungibili. Tuttavia, in base alla documentazione prodotta in giudizio, è emerso che vi erano altri dipendenti con il medesimo inquadramento di quelli licenziati che, però, erano adibiti ad altre attività’ (addetti “vending” e addetti parafarmacie). A parere del giudice, il recesso è illegittimo in quanto la società avrebbe dovuto effettuare un investimento formativo al fine di ricollocare i prestatori in mansioni alternative esistenti nella compagine aziendale. Ed infatti, la società non ha dimostrato che sarebbero stati necessari tempi e costi particolarmente onerosi per la formazione dei lavoratori oppure il conseguimento di uno specifico titolo per consentire ai dipendenti licenziati di svolgere mansioni differenti. Sul punto, il magistrato osserva che il possibile repêchage dei dipendenti mediante un iter formativo deve «considerarsi come un contraltare della maggiore flessibilità in uscita consentita dal d.lgs. 23/2015 che ha escluso, p. es., l’ipotesi di manifesta insussistenza del gmo e ha rimodulato (anche se cfr. C. Cost. 194/2018) il sistema degli indennizzi». Si tratta di una posizione che fa eco a quanto sostenuto in dottrina, laddove si osserva che «una volta travolto l’argine della tutela reale del posto di lavoro con il contratto a tutele crescenti”, l’attuale formulazione dell’art. 2103 c.c., mediante un allargamento della mobilità orizzontale, limita indirettamente il ricorso ai licenziamenti per gmo, poiché “viene contestualmente ampliato l’onere di repêchage posto in capo al datore di lavoro» (Corti 2016, 65). Pertanto, il recesso è illegittimo tutte le volte che, utilizzando il potere datoriale di variare le mansioni in orizzontale o in basso, si possano trovare spazi all’interno della organizzazione aziendale per l’utilizzo alternativo del dipendente (Brollo 2015, 42). Per concludere, a giudizio del Tribunale attribuire all’obbligo formativo il valore di rimedio qualificato per evitare la perdita del posto del lavoro rappresenta un’adeguata contropartita al fatto che il d.lgs. n. 23/2015 ha eroso notevolmente la tutela reintegratoria (per una disamina sulla tematica dell’erosione della tutela reale a seguito del Jobs Act, si v. Barbieri 2020, 85).

 

Appare poi di rilievo e ben argomentata anche la parte del provvedimento in commento relativa alla valutazione dei criteri da prendere in considerazione per stabilire la misura dell’indennizzo previsto dal d.lgs. n. 23/2015 per i contratti a tutele crescenti. Il magistrato, a sostegno della propria motivazione, richiama non solo i principi espressi da C. cost. n. 194 del 2018, ma anche, con argomentazione svolta a quanto consta per la prima volta in una sentenza, la decisione del Comitato europeo dei diritti sociali dell’11 febbraio 2020, promossa dalla Cgil contro l’Italia (cfr. Buffa 2020, 1; Tomasetti 2020, 209). Per completezza di esposizione, si evidenzia che la Cgil, mediante il ricorso al Comitato, ha sostenuto che il combinato disposto degli articoli 3, 4, 9, 10 del d.lgs. n. 23/2015, con riferimento alla fattispecie di licenziamento per gmo dichiarato illegittimo, risulta in contrasto con l'art. 24 della Carta sociale europea (ossia il «diritto ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione»), essendo inadeguata una tutela che prevede solo un indennizzo nei limiti della legge (cd. tetto massimo). In merito, il Comitato ha affermato che le norme del d.lgs. n. 23/2015 non sono in alcun modo adeguate a scoraggiare il datore ad effettuare recessi illegittimi e, non rappresentando un valido deterrente, sono contrarie a quanto stabilito nell’art. 24 della Cser, in quanto «sproporzionate e prive di carattere sufficientemente dissuasivo» (in merito si veda Perrone 2020, 3). Come sostenuto dal Comitato, un rimedio efficace contro tale “stortura” normativa del d.lgs. n. 23/2015, che stabilisce appunto un limite massimo al risarcimento, è quello di daremaggiore risalto sia ai criteri per la quantificazione del danno sia alla misura dello stesso mediante il riconoscimento «di una indennità di importo sufficientemente elevato» (cfr. punto 87 della decisione) che abbia lo scopo di sanzionare, in funzione dissuasiva, condotte apertamente ingiustificate da parte del datore di lavoro.

 

Tornando all’esame della sentenza in analisi, il Tribunale di Lecce, ispirandosi ai principi espressi sia da C. cost. n. 194 del 2018, sia dal Comitato europeo per un giusto bilanciamento degli interessi contrapposti, ha valutato con peculiare scrupolosità, ai fini della quantificazione dell’indennizzo, le circostanze di causa come l’infondatezza delle ragioni del recesso (insussistenza di una crisi economica) e la condotta datoriale con specifico riferimento alla violazione dell’obbligo del repêchage. Tali comportamenti - è il senso del ragionamento motivazionale del Tribunale di Lecce - devono essere condannati in maniera più efficace.

Il magistrato, poi, ha utilizzato eziologicamente nella determinazione del danno ulteriori criteri quali: il requisito dimensionale (stante l’elevato numero di dipendenti); la difficoltà di ricollocazione dei lavoratori (vista anche la loro età anagrafica); la disparità economica tra le parti. D’altronde, i primi arresti della giurisprudenza di merito, dopo la citata sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018, hanno evidenziato come i giudici, ai fini della definizione dell’indennizzo, si stiano orientando nel senso di valutare la condotta delle parti e, soprattutto, la gravità del recesso, le dimensioni aziendali e la consistenza economica della società per una «riconnotazione del danno in funzione dissuasiva per il datore» (cfr. T. Genova, 21.11.2018, Est. Basilico, in RGL, 2019, II, 276, con nota di Magnifico, nonché T. Roma, 19.5.200, Est., Pascarella, inedita). Tale chiave di lettura risulta in linea con quanto affermato dalla citata Corte costituzionale n. 194/2018 secondo cui «non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice» che risponde all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore (cfr. par.11) al fine di ristorare adeguatamente le conseguenze economiche subite dalla perdita del posto di lavoro. In virtù di tali principi, il Tribunale di Lecce ha ritenuto equo fissare in 12 mensilità l’indennizzo risarcitorio.

 

In conclusione, secondo il Tribunale di Lecce, l’indennizzo de quo, proprio alla luce della citata decisione del Comitato europeo dei diritti sociali, deve essere determinato in funzione dissuasiva rispetto all’uso distorto del potere di recesso datoriale. La sentenza è condivisibile in quanto tenta «un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà dell’organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro» (cfr. C. cost. n. 194/2018). Pertanto, il rimedio della sola sanzione indennitaria deve trovare un equo contemperamento (ossia un adeguato ristoro economico) a fronte della perdita della tutela reale stabilita dall’ordinamento. Per questo motivo è opportuno che, in caso di licenziamento per motivo oggettivo, vi sia da parte del magistrato un’attività di indagine molto rigorosa, affinché si evitino episodi di risoluzione del rapporto aventi natura pretestuosa.  In un certo senso, l’ampliamento della possibilità delle ipotesi di repêchage, per un verso, da ultimo elaborate dalla giurisprudenza anche con provvedimenti innovativi (in tal senso, Cass., 3.8.2018, n. 20497, in RGL, 2019, II, 67, con nota di Del Biondo, nonché Cass., 5.12.2018, n. 29376, in RGL, 2019, II, 211, con nota di Carbone) e, per un altro, codificate dalla novella del 2015 (possibilità di demansionamento di un livello in caso di riorganizzazione aziendale, patti di demansionamento, oneri formativi, scomparsa del principio di equivalenza), impegna il datore in una ricerca di posizioni lavorative alternative, non solo nel medesimo livello, ma anche in mansioni inferiori al fine di ricollocare il dipendente, preservandone così l’occupazione. In effetti, a parere di chi scrive, l’incremento dell’indennizzo in base ai criteri della sentenza come sopra citati, in caso di un recesso non solo privo delle ragioni poste a fondamento dello stesso ma disposto anche in violazione del repêchage, può scoraggiare il datore di lavoro dal porre in essere scelte inappropriate. D’altronde, anche la citata sentenza della C. cost. n. 194 del 2018 ha ritenuto che l’indennità deve avere una funzione dissuasiva per il datore «allontanandolo dall’intento di licenziare senza valida giustificazione» (par. 12.2), una sorta di “danno punitivo” avente efficacia deterrente rispetto alla perpetrazione di illeciti e operante mediante un modello sanzionatorio volto ad assicurare «la effettività della normativa giuslavoristica» (in tal senso, Balletti 2019, 11; sulla tematica del danno punitivo cfr. Cass., S.U., 5.7.2017, n. 16601, in FI, 2017; sul danno da illegittima precarizzazione nel pubblico impiego, cfr. Panetta 2016, 565). Un’impostazione che trovi riscontro negli orientamenti giurisprudenziali sanzionando il datore con indennizzi disposti in funzione dissuasiva e, comunque, adeguati rispetto ad una condotta illegittima e, in alcuni casi, addirittura ingiustificata (adottata in palese violazione del repêchage), potrebbe indurre il datore a porre effettivamente in essere tutti i rimedi del caso al fine di salvaguardare il posto di lavoro.

 

Riferimenti bibliografici

 

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