Errata corrige 14 APR 2022
Articolo di Michelangelo Salvagni pubblicato su Lavoro e Previdenza Oggi News.
Il Tribunale del lavoro di Roma, con sentenza del 23 marzo 2022, ha accertato nei confronti della Compagnia ITA Airways la discriminazione per la mancata assunzione di due lavoratrici in gravidanza, condannando la società al risarcimento del danno da perdita di chance quantificato in 15 mensilità delle relative retribuzioni.
La vicenda riguarda due ex-assistenti di volo di Alitalia che si sono candidate per essere assunte dalla Compagnia Aerea, presentando regolare domanda di “adesione” e che, tuttavia, non state neanche chiamate per la selezione.
Le ricorrenti, pertanto, hanno convenuto in giudizio la società proponendo ricorso ex art. 38 D.Lgs. n. 198/2006, deducendo, in punto di diritto, che si fosse configurata una discriminazione nella procedura di assunzione in ragione del loro stato di gravidanza. Le ricorrenti, inoltre, ai fini della dimostrazione di tale illegittima condotta, hanno indicato a fini statistici il nominativo di altre sei lavoratrici in gravidanza, del pari escluse dalla selezione. Le prestatrici hanno anche eccepito che i criteri di selezione adottati dalla società, nella scelta dei lavoratori assunti, risultavano del tutto oscuri.
La vicenda si incentra, quindi, sul tema della discriminazione relativa ad una procedura di assunzione del personale, antecedente la costituzione del rapporto di lavoro.
A parere del Tribunale di Roma, la società – vista l’azione di accertamento della discriminazione – non può trincerarsi dietro il principio di libertà d’impresa privata, né può eccepire di non essere soggetta ad altri criteri selettivi se non quelli condivisi con le OO.SS. nel Verbale di Accordo.
La sentenza è interessante perché, in maniera completa ed esaustiva, tratta tutti i punti evidenziati delle parti rispetto alla configurazione o meno di una discriminazione diretta o indiretta.
In buona sostanza, al fine di una migliore comprensione dell’intera vicenda, pare opportuno seguire il percorso argomentativo posto in essere dal magistrato il quale, ai fini della risoluzione della controversia, ha preso posizione su tutte le contestazioni effettuate dalla società a confutazione delle domande delle ricorrenti, ritenendole infondate e non pertinenti.
Un primo problema ha riguardato il fatto che la società ha dedotto che non poteva verificarsi una discriminazione in quanto la procedura selettiva era ancora all’inizio. Secondo la società solo quando il piano assunzionale fosse stato completato sarebbe stato possibile valutare la discriminatorietà della esclusione delle lavoratrici dalla selezione. Ebbene, il giudice, a seguito dell’istruttoria, ha invece accertato che, in realtà, il piano di assunzione previsto per il periodo 2021-2025 e formalizzato con Accordi Sindacali, ha previsto complessivamente l’assunzione di 5750 lavoratori e che, al momento del giudizio, era stato realizzato per oltre il 50%.
Alla luce di questi dati statistici, il giudice ha osservato che non può essere accolta l’eccezione della società secondo cui solo a completamento del piano di assunzione sarebbe possibile esercitare un’azione discriminatoria, in quanto una tale prospettazione introduce una condizione per l’esercizio dell’azione che, invece, ai sensi dell’articolo 38 del decreto legislativo 198 del 2006, non solo non è prevista nel diritto positivo, ma contrasta con il carattere di urgenza proprio di questa azione.
Secondo il Tribunale di Roma, infatti, la prospettazione della società non è condivisibile in quanto le assunzioni del personale verrebbero così rimesse alle decisioni unilaterali del datore che, così e sino all’anno 2025, resterebbe libero di non progredire nel piano assunzionale. Si configurerebbe quindi una sospensione delle tutele rimessa interamente alle decisioni datoriali e, pertanto, non ammissibile.
Il Tribunale di Roma, poi e al fine di stabilire se nel caso di specie ricorra una condotta antidiscriminatoria, ha analizzato la normativa nazionale e gli arresti della Corte di Giustizia e della Corte di Cassazione.
Il Tribunale rileva sul punto che il tenore letterale del dato normativo è inequivoco in quanto, ai sensi dell’articolo 27 comma 1, D.Lgs. n. 198 del 2006, è vietata qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l’accesso al lavoro. Del pari, ai sensi dello stesso articolo 27, al successivo comma 2, lettera a), è vietata la discriminazione anche se attuata attraverso il riferimento allo stato di gravidanza.
Al fine di corroborare il proprio ragionamento decisorio il magistrato ha richiamato i principi della Corte di Giustizia secondo cui il rifiuto di assunzione per un motivo di gravidanza configura una discriminazione diretta per motivo di sesso (cfr. sentenza CGUE dell’8 novembre 1990, causa C-177/88, Dekker). Inoltre, in virtù delle disposizioni relative alla tutela delle donne incinte, alle medesime non può essere riservato un trattamento sfavorevole per quanto riguarda l’accesso al lavoro, non potendo il datore di lavoro rifiutare l’assunzione di una candidata incinta (cfr. sentenza del 3 febbraio 2000 nella causa Silke Karin Mahlburg contro Land Mecklenburg-Vorpommern).
Tali principi, secondo il Tribunale di Roma, sono stati confermati anche dalla Suprema Corte di Cassazione che, con sentenza 26 febbraio 2021, n. 5476, ha richiamato i principi dei giudici di Lussemburgo con riferimento alla tematica del rinnovo di un contratto a termine di una lavoratrice in stato di gravidanza. Fattispecie, tuttavia, pienamente sovrapponibile ai principi sopra richiamati dalla Corte di Giustizia.
Partendo da tali presupposti normativi e giurisprudenziali, il giudice ha quindi affrontato le argomentazioni difensive della società: da una parte, l’insussistenza di una discriminazione per non essere a conoscenza dello stato di gravidanza delle ricorrenti; dall’altra, la mancanza di adeguata certificazione per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Sulla prima tematica, il Tribunale ha sostenuto che la gravidanza rileva oggettivamente e non è richiesta la prova dell’intento consapevolmente discriminatorio in ragione di tale condizione, in quanto la discriminazione opera di diritto, come stabilito dall’art. 40 del D. Lgs. 11 aprile 2006, n. 198.
Il secondo argomento è smentito dai fatti in quanto le ricorrenti, al momento in cui hanno presentato la domanda, erano in possesso sia del green pass, sia di certificazione di idoneità medico legale, nonchè dei requisiti per ottenere l’abilitazione per operare a bordo in qualità di membro di equipaggio di cabina.
Alla luce di quanto emerso in giudizio, il giudice ha giudicato fondate le allegazioni formulate dalle ricorrenti rispetto alla propria condizione, comprovate anche mediante l’indicazione di altre sette lavoratrici non selezionate in ragione di condizione analoga alla propria.
In tema di ripartizione dell’onere della prova, il giudice lo ha ritenuto assolto trattandosi di onere probatorio “allegerito” poiché, ai sensi dell’art. 28, co. 4 del D.Lgs. n. 150/2011 e dell’art. 40 del D.Lgs. n. 198/2006, è sufficiente fornire elementi di fatto, relativi alle assunzioni, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori. In tal caso, spetta al datore l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione.
Così ricostruita la suddivisione degli oneri probatori, il giudice ha affermato che la società, al fine di confutare la discriminazione, avrebbe dovuto indicare i nominativi di quelle assistenti di volo, tra le 412 assunte nel periodo in questione che, al momento dell’assunzione, erano in gravidanza; di contro, la Compagnia convenuta non ha riferito nessuna informazione su tale aspetto, desumendosi, pertanto, che delle 412 assunte neppure una era in stato di gravidanza.
A parere del Tribunale, la società, vista l’ordinaria gestione del personale e in ragione del principio di vicinanza della prova, disponeva di tutte le informazioni che le consentivano agevolmente di smentire la tesi delle lavoratrici. Il fatto che questo non sia avvenuto avvalora proprio la veridicità di questa tesi.
In ordine, infine, alla tutela applicabile in considerazione dell’accertamento della condotta discriminatoria, il giudice non ha ritenuto accoglibile la domanda delle ricorrenti volta ad obbligare la società ad assumerle, esorbitando dal potere giudiziale la costituzione coattiva di un rapporto di lavoro che verrebbe a confliggere con le prerogative riconosciute al datore di lavoro in base ai principi espressi dall’art. 41 Cost.
Invece, il Tribunale ha accolto l’azione risarcitoria dal momento che alle lavoratrici, proprio a causa della condotta illegittima della società convenuta, è derivato un danno visto che la loro domanda di assunzione non è stata in sostanza neppure presa in considerazione. Ciò determinando per le medesime una perdita di chance quantificabile nell’importo pari a 15 mensilità della retribuzione mensile, tenuto conto sia del periodo di astensione dal lavoro antecedente il parto sia dei sette mesi successivi dalla nascita del figlio.
Sul punto, osserva il giudice che la condanna al pagamento di una somma a titolo risarcitorio esprime anche una valenza dissuasiva perché elide il vantaggio che la società resistente ha inteso assicurarsi evitando l’assunzione di assistenti di volo in gravidanza, per le quali la presenza sul luogo di lavoro sarebbe stata sospesa per la durata del tempo a cui la condanna viene commisurata.