Licenziamento collettivo in area contratto a tutele crescenti: reintegrazione per omessa procedura d’informazione e consultazione.

Errata corrige  14 APR 2022

Articolo di Michelangelo Salvagni.

Pubblicato in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, n.1/2022, Parte II, RGL Giurisprudenza on line - Newsletter n.3/2022

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TRIBUNALE ROMA, 12.10.2021 - Est. Pascarella - C.R. + 4 (avv. De Francesco) c. T. F. Soc. Coop. (avv. Bruni) e C. A. e S. S.r.l. (avv. Marano).  

Appalto – Cessazione appalto – Cambio appalto – Licenziamento di tutti i lavoratori addetti all’appalto – Mancata riassunzione dell’appaltatore subentrante – Non applicazione clausola sociale per mancata previsione nel CCNL – Qualificazione dei licenziamenti come collettivi in ambito Jobs Act – Mancata effettuazione della procedura di licenziamento collettiva ex l. n. 223/91 – Omissione obblighi di consultazione e informazione –  Regime sanzionatorio applicabile – Nullità del recesso – Reintegrazione ex art 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015. 

Nell’ambito di rapporti di lavoro instaurati con contratti a tutele crescenti ex d.lgs. n. 23/2015 e nel caso in cui il recesso, a seguito di un licenziamento per cessazione di un appalto, debba qualificarsi come licenziamento collettivo - non essendo applicabile l’art. 7, c. 4-bis, della l. n. 31/08, in quanto i prestatori non sono stati “riassunti” dall’appaltatore subentrante –, l’omesso espletamento della procedura ex art. 24 della l. n. 223/91 e delle informazioni e consultazioni con le parti sociali e le autorità pubbliche determina la nullità del recesso, trattandosi di norma imperativa di origine eurounitaria la cui violazione si traduce in un esercizio abusivo del potere di licenziamento collettivo, configurandosi così un negozio nullo poiché in frode alla legge ex art. 1344 c.c.., con conseguente applicazione della reintegra del lavoratore ex art. 2, c. 1, d.lgs. n. 23/15 e non della sola tutela indennitaria per vizi formali della procedura. (1)

La vicenda in esame tratta il caso di un gruppo di lavoratrici che avevano prestato servizio, per circa dieci anni, in qualità di operaie addette alle pulizie presso una concessionaria di auto in forza di diversi appalti che, nel tempo, si erano succeduti nella gestione dei servizi di pulizia. Le lavoratrici, a cui si applicava il Ccnl Imprese di Pulizie Multiservizi, venivano licenziate per giustificato motivo oggettivo in ragione della cessazione dell’appalto. Tuttavia, la società subentrata nella commessa non assumeva nessuna delle precedenti lavoratrici, eccependo l’applicazione di un diverso contratto collettivo, ossia quello delle imprese edili, che non prevedeva alcuna clausola sociale di riassunzione. Il Tribunale di Roma, in prima battuta, ha respinto la domanda di riassunzione presso la nuova società, stante l’inesistenza di una clausola sociale che prevedesse tale obbligo; lo stesso giudice tuttavia, vista l’esistenza dei requisiti numerici e dimensionali, ha qualificato il recesso ad opera della vecchia società come collettivo, precisando che non potesse invocarsi la deroga alle norme di cui alla l. n. 223/91 prevista nei casi di cambio appalto dall’art. 7, c. 4-bis, l. 28.2.2008, n. 31. La sentenza in esame afferma che costituisce principio giurisprudenziale consolidato quello per cui, in caso di licenziamento per cessazione dell’appalto, l’esclusione dell’applicazione della procedura collettiva presuppone la necessaria riassunzione dei lavoratori nell’azienda subentrante a parità di condizioni economiche e normative previste dai contratti collettivi nazionali di settore. Riassunzione che nel caso di specie non è avvenuta (cfr. in tal senso: Trib. Roma, ord. 15.5.2020, in www.wikilabour.it, 2020). Sulla base di tali presupposti normativi, il magistrato ha statuito l’illegittimità (rectius invalidità per le ragioni di cui si dirà meglio oltre) del licenziamento collettivo configurandosi, in particolare, una completa omissione della procedura di informazione e consultazione prevista dagli artt. 4 e 5 della l. n. 223/91.

 

Il provvedimento qui annotato, a quanto consta, è il primo che, in un caso di licenziamento collettivo, reintegra dei lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti.

In merito si evidenzia che, a norma dell’art. 10, cc. 1 e 2, d.lgs. n. 23/15, trova applicazione il solo regime indennitario anche nei casi di licenziamento collettivo illegittimo per violazione della procedura prescritta dalla legge (in particolare, le procedure richiamate all’art. 4, c. 12, l. 223/91) o per violazione dei criteri di scelta (art. 5, c. 1). Allo stato, pertanto, l’applicazione della reintegrazione è stabilita solo nel caso della mancanza di forma scritta, ipotesi che appare residuale e sulla quale non vi sono specifici precedenti giurisprudenziali (per una disamina dell’erosione della tutela reale a seguito del d.lgs. 23/15 v. Barbieri 2020, 85).

In relazione al regime sanzionatorio in caso di licenziamento collettivo dichiarato illegittimo, la Corte d’Appello di Napoli ha sollevato la questione dinanzi al giudice delle leggi, oltre che con un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia (v. rispettivamente C. App. Napoli ord. 18.9.2019 e C. App. Napoli ord. 18.9.2019, entrambe in RGL, 2020, II, 291, con nota di Bologna; la Corte UE è stata sollecitata a decidere sul tema anche da Trib. Milano, ord. 5.8.2019; sulle ordinanze v. Cosio 2020, 1). Le ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale e di rinvio pregiudiziale alla Corte Ue hanno evidenziato la violazione del principio di uguaglianza e la disparità di trattamento tra lavoratori in ragione dell’esistenza di un duplice regime sanzionatorio in caso di licenziamento collettivo dichiarato illegittimo per violazione dei criteri di scelta: per alcuni la reintegrazione; per altri, ossia per quelli assunti con contratti a tutele crescenti a partire dal 7 marzo 2015, la sola tutela indennitaria.

Appare opportuno segnalare, seppure brevemente, quali sono stati i provvedimenti adottati dalle Alti Corti su tale fattispecie. La Corte di Giustizia, si è dichiarata manifestamente incompetente ad esaminare la questione, poiché la Direttiva n. 98/59 in materia di licenziamenti collettivi regola solo gli aspetti inerenti alla informazione e consultazione sindacale, mentre nulla stabilisce in relazione ai criteri di scelta, materia pertanto non rientrante nel perimetro della Direttiva (cfr. C. Giust., 17.3.2021, C- 652/19, KO c. Consulmarketing, avente a oggetto l’ordinanza del Tribunale di Milano e C. Giust. 4.6.2020, C-32/2020, Romagnuolo c. Balga Srl, riguardante invece l’ordinanza della Corte di Appello di Napoli). La Corte costituzionale, con sentenza 26.11.2020, n. 254, ha invece affermato che il giudice rimettente non avesse sufficientemente motivato sulla rilevanza delle questioni sollevate, non avendo peraltro chiarito il tipo di intervento richiesto ai giudici delle leggi. In ragione di tale statuizione di inammissibilità, permangono i dubbi interpretativi in merito alla legittimità (quantomeno quella costituzionale) delle norme del d.lgs. n. 23/15 con riferimento alla disparità di trattamento nell’applicazione ai lavoratori di due diversi regimi di tutela in caso di licenziamento collettivo illegittimo; perplessità queste avvalorate anche dalle osservazioni critiche della dottrina rispetto alle motivazioni delle sentenze testé richiamate (v. Orlandini 2021, 333, rispetto a C. Giust., 17.3.2021, cit.; Aiello 2021, 205, con riferimento a Corte cost. n. 254/2020).

 

A questo punto, visto che tutte le lavoratrici licenziate erano state assunte dall’ultima appaltatrice in data 1.10.2018 e, quindi, con contratti a tutele crescenti ex d.lgs. n. 23/15, il tema di rilevante interesse, ai fini del presente commento, attiene alla sanzione applicabile per la mancata effettuazione della procedura collettiva.

Secondo il Tribunale di Roma, i diritti di informazione e consultazione previsti dalla l. n. 223/91 costituiscono specifici vincoli di carattere procedurale di derivazione eurounitaria; essi sono disciplinati da Direttive (nella specie la n. 29/1975, modificata dalla Dir. n. 98/59) e richiamati dall’art. 27 della CdfUe. A parere del giudice, pertanto, la procedura di informazione e consultazione rappresenta “l’elemento costitutivo della fattispecie” “licenziamento collettivo”, ciò che la “identifica”. La sentenza in esame richiama l’orientamento della Corte di Giustizia per cui tali obblighi di informazione sorgono anteriormente alla decisione di risolvere il rapporto e vanno comunicati in “tempo utile” per consentire alle parti di raggiungere un accordo (in tal senso, C. Giust. 23.9.2017, C-149/16). Conseguentemente, la mancata informazione e consultazione delle parti sociali e istituzionali deve interpretarsi in maniera più rigorosa rispetto alla violazione delle regole procedurali o dei criteri di scelta, ipotesi per le quali la disciplina del d.lgs. n. 23/15 prevede solo una sanzione indennitaria (sul rispetto delle procedure di informazione e consultazione del sindacato quale obbligo “rafforzato” si v. Trib. Firenze, decr. 23.9.2021, in RGL Giurisprudenza on line n. 12/2021, con nota di Salvagni, riguardante il caso dei licenziamenti collettivi adottati dalla società GKN Driveline).

Alla luce di tale ricognizione sistematico normativa, il giudice prende posizione in merito alla questione dell’adeguatezza delle sanzioni previste dal d.lgs. 23/15 rispetto alle violazioni della procedura collettiva. Il tema centrale è quello dell’effettività dei rimedi, come interpretato dalla sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale (sul punto, tra i vari contributi, v. Persiani 2019, 1; Sordi 2020, 115; Speziale 2020, 733). Il Tribunale evidenzia come il giudice delle leggi, a supporto di tale principio di effettività, abbia richiamato sia l’art. 24 della Cse, sia la decisione del Comitato europeo dei diritti sociali (Ceds) dell’11.2.2020 sul reclamo CGIL c. Italia (cfr. Buffa 2020). Il Ceds – osserva il Tribunale - ha evidenziato come la disciplina di forfettizzazione del danno prevista dal sistema del contratto a tutele crescenti sia in contrasto con le prescrizioni dell’art. 24 Cse; ciò in quanto i rimedi previsti dal d.lgs. n. 23/15, di carattere meramente indennitario, possono considerarsi adeguati soltanto quando siano tali da reintegrare il lavoratore illegittimamente danneggiato in una situazione non meno favorevole di quella in cui egli si sarebbe trovato se l’illecito non fosse stato commesso. A parere del Tribunale, la violazione della Cse costituisce un dato da cui l’interprete non può prescindere nell’individuare i meccanismi sanzionatori di cui al d.lgs. n. 23/15. Alla luce sia delle disposizioni eurounitarie sia dei recenti arresti della Corte costituzionale e del Ceds, la procedura d’informazione e consultazione costituisce il presupposto logico e normativo del diritto individuale del lavoratore a non subire un licenziamento ingiustificato.

 

4.- Il Tribunale, ben consapevole dei limiti legali ex d.lgs. n. 23/15, ha affrontato il problema delle conseguenze sanzionatorie ai fini dell’eventuale applicazione della tutela reintegratoria. Secondo il giudice, la totale assenza della procedura mina in radice la struttura della fattispecie “licenziamento collettivo”, vanificando così il principio di giustificazione del recesso di cui all’art 24 Cse, nonché la forma di tutela assicurata ai lavoratori coinvolti in tale procedura. La fattispecie, quindi, non ricade nella previsione dell’art. 10 del d.lgs. n. 23/15, per cui i casi di violazione delle procedure richiamate all’art. 4, c. 12, della l. n. 223/91, costituiscono vizi formali per i quali è prevista una mera sanzione indennitaria. Si configura, invece, la diversa ipotesi della totale carenza della procedura, che determina l’applicazione della reintegrazione. La mancata effettuazione della procedura collettiva e l’omissione delle comunicazioni ai soggetti titolari del diritto di informazione determina la nullità del recesso poiché in frode alla legge ex art. 1344 c.c., trattandosi di norma imperativa di origine comunitaria la cui violazione si traduce anche in un esercizio abusivo del potere di licenziamento collettivo. In conclusione, per il Tribunale la reintegrazione del lavoratore ex art. 2, c. 1, del d.lgs. n. 23/15, risulta la soluzione più adeguata all’esigenza di assicurare una sanzione connotata dai caratteri di effettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva. 

 

 

Michelangelo Salvagni

 Avvocato in Roma

 

 

Riferimenti bibliografici

 

Aiello F. (2021), La Corte costituzionale e la differenza di tutele nel licenziamento collettivo dopo il Jobs Act per il non liquet, in RGL, n. 2, II, 205 ss.

Buffa F. (2020), Licenziamenti illegittimi: la pronuncia del Comitato Europeo dei diritti sociali in www.questionegiustizia.it.

Cosio R. (2020), Le ordinanze di Milano e Napoli sul Jobs Act: il problema della doppia pregiudizialità, in LDE, 1, 1 ss.

Barbieri M. (2020), Statuto e tutele contro i licenziamenti illegittimi. Erosione e necessità della reintegrazione, in RGL, n. 1, II, 85 ss.

Orlandini G. (2021), Strabismo ideologico e strategie elusive della Corte di Giustizia nella sentenza Consulmarketing, in RGL, n. 3, II, 333 ss.

Persiani M. (2019), La sentenza della Corte cost. n. 194/18. Una riflessione sul dibattito dottrinale, in LDE, n. 1, 1 ss.

Salvagni M. (2021), I licenziamenti collettivi della GKN: un caso di condotta antisindacale per violazione dell’obbligo di informazione, in RGL Giurisprudenza on line, n.11, 1 ss.

Sordi P. (2020), La quantificazione dell’indennità di licenziamento illegittimo dopo la sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale, in DRI, 115 ss.

Speziale V. (2020), La giurisprudenza della Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti, in RGL, n. 4, I, 733 ss.