Il precario errante nella Scuola Pubblica: viaggio alla ricerca della stabilità

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Il Sole 24 Ore (Aprile 2012), Massimario di Giurisprudenza del Lavoro n.4/2012

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Il lavoro a termine nella Scuola pubblica potrebbe essere rappresentato con una metafora in cui il lavoratore assunto con più contratti flessibili intraprende un viaggio su un treno che non arriva mai alla sua destinazione finale. Tante stazioni intermedie. Brevi soste e ripartenze, dove però si rischia di finire, dopo un lungo e instabile percorso, su un binario morto; e alla fine, al massimo, ti viene rimborsato solo il costo del biglietto.

In questa similitudine si concentra il tema dei contratti a tempo determinato nella scuola pubblica, in quanto il sistema normativo vigente, che dovrebbe ispirarsi a principi di derivazione comunitaria anche nel settore pubblico, ha determinato un paradosso inaccettabile per il nostro diritto positivo: ovvero la stabilizzazione legalizzata del precariato.

Ci troviamo di fronte ad un sistema normativo complesso che ha istituito nei confronti dei lavoratori a termine un doppio binario: il primo, che si applica a tutti i lavoratori assunti nel settore privato, consente al lavoratore flessibile, in caso di violazione delle norme cogenti, l’agognato arrivo alla stazione della “stabilità” (ovvero la conversione del rapporto a tempo indeterminato); il secondo, applicato ai lavoratori a termine assunti nel settore pubblico, che appare invece, in particolar modo in quello della Scuola pubblica, come un viaggio senza fine e privo di prospettive.

Infatti, pur essendo innegabile che questa seconda fattispecie garantisce una certa continuità e remunerazione, il paradosso tuttavia persiste, in quanto il legislatore ha espressamente stabilito l’impossibilità della trasformazione  a tempo indeterminato dei rapporti precari con il datore di lavoro pubblico.

Fatta tale premessa, occorre tentare di orientarsi rispetto ai due temi principali delle sentenze in commento: il primo, inerente la possibilità o meno di conversione a tempo indeterminato dei contratti a termine nel comparto della Scuola; il secondo, avente ad oggetto il tema della quantificazione del risarcimento del danno.

Nell’analizzare le sentenze in esame, nelle loro diverse prospettazioni, devono essere necessariamente prese in considerazione le disposizioni in materia di contratti a tempo determinato nel pubblico impiego a cui si aggiungono quelle di tipo specialistico espressamente stabilite per il Settore Scuola.

Dal combinato disposto dell’art. 97 Cost. e 36 del D.Lgs. 165/2001, discende il corollario della impossibilità della costituzione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato per la violazione di norme sui contratti a termine.

L’art. 36 del D.Lgs. 165 del 2001 esclude espressamente la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato in caso di accertata nullità del termine apposto al contratto, prevedendo esclusivamente una sanzione a carico dal datore di lavoro pubblico, consistente in un risarcimento del danno alternativo e sostitutivo alla conversione senza, tuttavia, prevedere alcun criterio di quantificazione del medesimo.

Nel settore della Scuola pubblica la disciplina del conferimento delle supplenze che legittima l’instaurazione dei contratti di lavoro a tempo determinato ha natura specialistica. Essa è contenuta nel D.Lgs 297/94 e nella legge 124/99 e deve essere applicata, unitamente alla disciplina generale sul contratto a termine nel pubblico impiego di cui all’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001. Si discute, invece, se a tale settore possano applicarsi le norme del D.Lgs. n. 368/2001.

Per completare il quadro normativo d’insieme, occorre evidenziare che l’accesso in ruolo del personale scolastico trova la sua fonte originaria nel D.L. 357/89, convertito in L. 417/89, che aveva istituito il cosiddetto sistema del “doppio canale”, con cui, in alternativa ai docenti assunti attraverso concorso pubblico, si riservava una via di accesso ai docenti che avessero maturato un’esperienza come supplenti. Successivamente, sono intervenuti: 

dapprima, il D.lgs. 297/94, che ha mantenuto tale sistema di accesso, poi, la legge 124/99, che all’art. 4 ha introdotto la disciplina delle supplenze e ha reso permanenti le graduatorie inerenti ai concorsi interni per soli titoli, stabilendo le regole per conseguire l’abilitazione per l’inserimento in tali graduatorie, estendendo, peraltro, le norme in materia di supplenza anche al personale A.T.A. (amministrativo, tecnico e ausiliaro).     

La norma cardine di tale procedura è l’art. 4 della legge 3 maggio 1999, n. 124, ove, ai primi tre commi, sono stabilite le modalità di assunzione secondo le seguenti tipologie:

supplenze annuali cosiddette su “organico di diritto” (la definizione è della Corte di Appello di Perugia in epigrafe), in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali, per la copertura delle cattedre e dei posti di insegnamento che risultino effettivamente vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre e che rimangano prevedibilmente tali per l’intero anno scolastico. Tali incarichi sono assegnati solo a condizione che i medesimi non possano essere coperti da docenti di ruolo delle dotazioni organiche oppure siano stati già assegnati a personale di ruolo (comma 1, art. 4, L.124/99); supplenze temporanee, fino al termine delle attività didattiche, per coprire delle cattedre e dei posti di insegnamento non vacanti che si rendano di fatto disponibili entro la data del 31 dicembre e fino al termine dell’anno scolastico (comma 2, primo periodo, art. 4, L.124/99); supplenze temporanee, fino al termine delle attività didattiche,per la copertura delle ore di insegnamento che non concorrono a costituire cattedre o posti orario (comma 2, secondo periodo, art. 4, L.124/99); supplenze temporanee per coprire necessità diverse da quelle stabilite ai commi 1 e 2 (comma 3, art. 4, L.124/99).

In base a tale meccanismo emerge che le assunzioni a termine ex art 4 L.124/99, ed in particolare quelle disciplinate dal primo comma per le supplenze annuali su organico di diritto (che coprono appunto la normale attività didattica compresa dal primo settembre al trentuno agosto), non sono giustificate da esigenze provvisorie, ma espletate per fronteggiare carenze strutturali di personale: i posti sono “vacanti” in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali e tali potrebbero rimanere in attesa di un governo “illuminato” e di una finanziaria con solide basi economiche che consenta la possibilità di assorbimento dei precari di lungo corso.

È dato incontrovertibile che la mancata indizione delle procedure per consentire appunto l’assunzione di personale di ruolo ha generato un progressivo aumento dei supplenti. Accade ormai da lunghi anni (in alcune fattispecie per periodi superiori ai dieci anni) che l'Amministrazione Scolastica, per far fronte ad una cronica carenza di personale nelle sedi scolastiche al fine di coprire le ordinarie necessità di servizio, assuma docenti e personale ATA con contratti a termine in un numero pressoché costante e per l'intero anno scolastico (risulta infatti da fonte ministeriale che il personale precario, relativamente all’A.S. 2007/2008 – ultimo dato statistico rilevato – supera a livello nazionale 220.000 unità di cui almeno 140.000 docenti, a fronte di 700.000 circa docenti a tempo indeterminato, e 80.000 unità circa il personale ATA su un totale complessivo di poco più di 165.000 ATA a tempo indeterminato).

Altro dato evidente è che la normativa in oggetto non prevede alcun limite alla successione dei contratti, né di ordine numerico né temporale. Il meccanismo sopra delineato, al contrario, appare predisposto proprio per favorire una continua ripetizione dei contratti visto che, con tale sistema, il docente aumenta il proprio punteggio in graduatoria. 

Tutto ciò, ad oggi, ha consentito alla Scuola pubblica di beneficiare di un regime definito “speciale” con il quale, nei fatti, è stato elevato “a sistema” il reclutamento senza limiti dei docenti precari.

È nata così una nuova tipologia di lavoratore: il docente precario in attesa dell’immissione a ruolo.

L’unica fattispecie contrattuale in cui è stata praticamente legalizzata l’incertezza della stabilità del posto di lavoro. Gli ultimi interventi legislativi, difatti, hanno ridotto il numero delle cattedre accorpando le classi, con l’inevitabile conseguenza che molti insegnanti si sono ritrovati senza alcuna opportunità di collocazione o con l’alternativa di essere supplenti in eterno, mediante il continuo utilizzo delle assunzioni a termine.     

Oltretutto, con le periodiche immissioni in ruolo che comportano talvolta la saturazione delle cattedre o con la progressiva diminuzione delle ore previste dalla cosiddetta Riforma Gelmini, il docente precario si trova a non ricevere incarichi annuali fintanto che non si liberino ulteriori posti (ad esempio, attraverso i pensionamenti).

In altre parole, non vi è alcuna sicurezza e tutela nel conferimento dell'incarico annuale in quanto le immissioni in ruolo o le continue riforme della Scuola potrebbero rendere indisponibili le cattedre che annualmente vengono assegnate agli insegnanti precari (a questo punto, senza sede vacante).
Infatti, a cominciare dallo scorso anno scolastico (2010-2011) con la Riforma Gelmini tutte le cattedre sono state portate a 18 ore frontali (cioè da svolgere in classe) assorbendo le 3/4 ore così dette a disposizione per eventuali supplenze e portando matematicamente ad una riduzione di un gran numero di cattedre (una cattedra in meno ogni 5-6 insegnanti). Questo è avvenuto nella Scuola secondaria (medie e superiori) e sta portando a una progressiva diminuzione dei posti disponibili.

In ragione di quanto fin qui esposto il problema dei precari della Scuola pubblica appare gravissimo, anche in considerazione dell’ulteriore circostanza che la procedura concorsuale non viene indetta da anni (l’ultima risale al 1999).

In sostanza, è stato “istituzionalizzato” un meccanismo per cui accade che lo stesso “supplente” continui ad essere assunto sempre mediante la reiterazione di contratti a termine, senza però certezza di assunzione in ruolo a tempo indeterminato. 

Il tema centrale dei provvedimenti in epigrafe riguarda il rapporto tra le fonti normative che disciplinano tale particolare fattispecie, ove il nodo da sciogliere attiene all’applicabilità o meno, per i lavoratori assunti a termine nel settore scolastico, delle norme e dei principi comunitari che, invece, si applicano ai rapporti di lavoro di natura privatistica.

Le singole fattispecie oggetto delle sentenze sono tutte caratterizzate dalla successione di assunzioni a tempo determinato ed, in particolare, per soddisfare le esigenze del primo comma della L. 124/99 sull’organico di diritto. Nelle decisioni in esame si verte, in particolare, sull’abuso di tale tipologia contrattuale da parte dell’Amministrazione scolastica in ragione dalla reiterazione dei contratti a termine, proprio in virtù della loro durata e collocazione temporale. Si tratta, infatti, di rapporti che spesso si susseguono senza soluzione di continuità, a volte addirittura per decenni, per coprire sempre lo stesso periodo di supplenza compreso tra il primo settembre e il trentuno agosto di ogni anno.

In tali decisioni è stato accertato che l’Amministrazione scolastica ha utilizzato contratti flessibili in assenza di una reale temporaneità dell’esigenza e ciò, secondo le regole comuni, in violazione dei precetti di cui all’art. 1 e all’art. 5, comma 4 bis, del decreto legislativo 368/01, che stabilisce la conversione a tempo indeterminato nel caso di successioni di contratti a termine per una durata superiore a 36 mesi.

Ma il decreto legge 13 maggio 2011 n. 70 titolato “prime disposizioni urgenti per la economia,” (convertito con legge 12 luglio 2011 n. 106) nell’articolo 9 comma 18 dispone: «all’art. 10 del decreto legislativo 6 settembre 2001 n. 368, dopo il comma 4 è aggiunto il seguente : “4-bis  Stante quanto stabilito dalle disposizioni di cui alla legge 3 maggio 1999 n. 124, sono altresì esclusi dalla applicazione del presente decreto i contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze del personale docente ed ATA, considerata la necessità di garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo anche in caso di assenza temporanea del personale docente ed ATA, con rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed  anche a tempo determinato. In ogni caso non si applica l’art. 5 comma 4 bis del predetto decreto”.

Con tale disposizione il personale scolastico viene completamente escluso dalla disciplina nazionale del lavoro a termine.  

Si tratta del tentativo del legislatore di “arginare”, in maniera tardiva e approssimativa, le inevitabili ripercussioni dell’elaborazione giurisprudenziale in materia. Citando un passaggio di una delle motivazioni oggetto di nota (ordinanza Trib. Trento, 27.09.2011, est. Flaim), “il legislatore è intervenuto in reazione al formarsi di una giurisprudenza di merito” che ha statuito l’illegittimità delle clausole appositive del termine per contrasto con le prescrizioni contenute nel D.Lgs. n. 368/01 in tema di sussistenza delle ragioni  (art. 1, comma 1), dell’indicazione scritta delle stesse (art. 2, comma 2) e, soprattutto, dei limiti alla successione dei contratti a termine (art. 5).

Sul punto, la giurisprudenza in esame si è orientata con diverse soluzioni interpretative.

Il primo orientamento, prospettato dalla sentenza dell’8 marzo 2011 dalla Corte di Appello di Perugia, ha affermato la piena  legittimità della disciplina interna sul divieto di conversione dei contratti a tempo determinato nel pubblico impiego, richiamando sia i principi costituzionali (ovvero il rispetto dell’art. 97 Cost.), sia quelli comunitari. In particolare, i giudici perugini non ravvisano alcun contrasto tra la disciplina del reclutamento del personale a termine e la clausola 5, punto 1 della direttiva comunitaria in ragione delle “esigenze peculiari” che le assunzioni a tempo determinato sono destinate a soddisfare.

La Corte di Appello di Perugia fonda le proprie argomentazioni sulla “peculiarità” dell’organico del personale scolastico “caratterizzato da una certa variabilità in dipendenza del variare, di anno in anno, del numero degli utenti del servizio scolastico”. Tale  regime di specialità, secondo i giudizi di Appello, rende giustificato e ragionevole il ricorso alle assunzioni a termine sulla base di due presupposti: da una parte, in base a “ragioni di contenimento della spesa pubblica”, rilevando che la corretta gestione del servizio scolastico, di rilevanza costituzionale, impone “di evitare il sovradimensionamento degli organici, così da evitare esuberi di personale e costi inutili nei momenti di calo demografico o di diminuzione, per qualsiasi motivo, delle iscrizioni”; dall’altra, per “la necessità di assicurare la costante erogazione del servizio scolastico, finalizzato al soddisfacimento di un interesse costituzionalmente garantito”.

Di contro, il secondo indirizzo, fatto proprio dalle sentenze di Tribunale in epigrafe, ha ritenuto applicabile anche al settore pubblico della Scuola sia la disciplina generale dei contratti a termine ex D.Lgs. 368/2001, sia i principi comunitari della Direttiva 1999/70/CE.

Al riguardo, parte della giurisprudenza in commento afferma che se si dovesse seguire il ragionamento della Corte di Appello di Perugia, apparirebbe lecito “assumere un medesimo lavoratore, siccome collocato in una determinata posizione in graduatoria, ripetutamente da un anno all’altro, senza soluzione di continuità, senza indicazione delle specifiche ragioni a supporto del termine, per il solo fatto che vi è un posto vacante che sarà coperto in un momento futuro indeterminato cioè in attesa dell’espletamento di procedure concorsuali, ovvero perché persistono stabilmente esigenze di coperture di posti di fatto liberi” (Trib. Roma, 19 maggio 2011 e 17 maggio 2011).

Volendo ritenere legittimo un tale “sistema di reclutamento”, sempre secondo tali sentenze, un lavoratore, per assurdo, potrebbe “senza che ciò costituisca violazione delle norme specifiche di settore, trascorrere tutta la propria vita lavorativa quale “supplente annuale” o quale “supplente temporaneo”.

Sulla base di tali premesse, i giudici hanno ritenuto non condivisibile l’assunto della Corte di Appello di Perugia secondo cui il settore della Scuola pubblica sarebbe escluso dall’applicazione delle norme dettate al fine di dare attuazione alla citata direttiva comunitaria del 1999, ciò in considerazione del carattere vincolante delle vigenti disposizioni comunitarie che indicano puntuali condizioni affinché siano tutelati gli interessi e i diritti di tutti i lavoratori.

Ciò anche alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo cui il diritto dell’Unione deve necessariamente riferirsi a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla natura privata o pubblica del datore di lavoro (cfr. sentenza 4 luglio 2006, C-212/04, Adeneler, punto 56).

Le sentenze in esame partono tutte, tranne quella della Corte di Appello di Perugia, da un ragionamento comune: l’illegittimità dei contratti a termine in quanto l’Amministrazione pubblica scolastica ha coperto, in particolare per le supplenze disposte in esecuzione dell’art. 4 co. 1, L. 124/99, posti vacanti sull'organico di diritto, ciò a riprova dell'abusivo ricorso a tale tipologia contrattuale. L’assunto è pacifico: tali supplenze sono determinate dal fatto che il numero delle unità di personale in ruolo è inferiore a quello dei posti in organico.

In particolare, l’attenzione dei giudici si è concentrata sulla questione della successione dei contratti a termine, reiterazione questa che ha dimostrato, inequivocabilmente, che le assunzioni sono state determinate da ragioni permanenti e assolutamente non transitorie.

Ciò anche in ragione della circostanza inequivoca, in quanto documentale e non contestata dal Ministero convenuto, per cui il numero dei docenti di ruolo è inferiore a quello dei posti in organico. Dalla ricostruzione in fatto oggetto delle sentenze de quibus risultano acclarate due circostanze fondamentali: la prima, che non vi fosse alcuna esigenza oggettiva a giustificazione dei rinnovi, la seconda, del superamento del limite massimo dei trentasei mesi complessivi.

Le sentenze in esame, al fine di stabilire l’illegittimità delle clausole appositive del termine, hanno richiamato le fonti comunitarie. A sostegno del loro ragionamento decisorio tali provvedimenti hanno menzionato la regola secondo cui, nel nostro ordinamento, vige il principio generale per cui il contratto a termine deve essere indissolubilmente collegato alla indicazione di una causale oggettiva. Tale concetto trova, inoltre, il proprio fondamento giuridico sia nella clausola 5, punto 1, della Direttiva Comunitaria 99/70/CE, sia nel considerando n. 7 della medesima Direttiva secondo cui “l'utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato basata su ragioni oggettive è un modo per prevenire gli abusi".

La Direttiva, infatti, al fine di prevenire gli abusi che possono derivare da una successione di contratti a termine, ha onerato ogni Stato membro di adottare una o più misure relative a: a) l’indicazione di ragioni oggettive che giustifichino il rinnovo dei suddetti contratti; b) la durata massima totale dei contratti successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti.

È pacifico che la disciplina delle supplenze nel comparto scolastico non stabilisce limiti temporali o numerici alla successione dei contratti a termine. Le sentenze, sulla base di tale presupposto, hanno altresì ritenuto che il ricorso ai contratti a termine nel settore scolastico è strumentale a fronteggiare un fabbisogno durevole che copre un’elevata quota di posti in organico, e per tale ragione illegittimo, proprio perché in contrasto con i princìpi comunitari sopra esposti. Sul punto, il Tribunale di Genova ha affermato che quando il motivo, al di là della giustificazione formale, si rivelasse di fatto “non già provvisorio, ma, al contrario, «permanente e durevole», si porrebbe in contrasto con l’obiettivo perseguito dalla clausola in questione, la quale mira a prevenire in modo effettivo l’utilizzo abusivo di contratti o rapporti lavoro a tempo determinato successivi (v., per analogia, sentenza Adeneler e a., cit., punto 88, nonché ordinanza Vassilakis e a., cit., punto 110)” [sent. Angelidaki, pp. 103 e 107]

Secondo le sentenze di Tribunale in epigrafe la disciplina del contratto a termine ex D.Lgs. n. 368/2001 deve ritenersi direttamente “applicabile anche ai rapporti alle dipendenze di Pubbliche Amministrazioni, con la sola differenza che, in caso di violazione delle norme imperative in materia, non è possibile la conversione del rapporto, secondo quanto espressamente prevede l’art. 36, comma 5, del D.Lgs. n. 165/2001”.

Sulla base di tali considerazioni, le sentenze suddette hanno, dunque, affermato che la “disciplina dettata specificamente per la scuola non possa essere considerata avulsa dal sistema generale della disciplina dei rapporti a termine, come pure che le norme sui contratti di lavoro a termine debbano interpretarsi complessivamente in modo tale che non risulti comunque lecito assumere personale con plurimi contratti di lavoro a termine in successione, senza soluzione di continuità e per soddisfare un’esigenza connessa con il fabbisogno ordinario dell’Amministrazione”.

Tale assunto appare del tutto condivisibile in quanto se si dovesse ritenere la disciplina speciale del settore scolastico svincolata dai limiti propri di tutti gli altri rapporti a termine, la medesima sarebbe in “contrasto insanabile con la disciplina vincolante comunitaria”.

In virtù di tali enunciazioni, le sentenze in commento hanno stabilito che anche per il settore scolastico non possono ritenersi legittime “assunzioni a termine successive in difetto di “ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti” individuate dalle norme di attuazione della disciplina comunitaria”.

Afferma poi il Tribunale di Genova, con la sentenza del 25 marzo 2011, che la norma dell’art. 5, c. 4-bis, D.Lgs n. 368/2001 non è incompatibile con quella dell’art. 4, primo comma, l. 124/99 in quanto “i confini temporali entro cui essa consente il rinnovo di contratti a tempo determinato sono anzi coerenti coi generali ostacoli posti all’impiego del lavoro flessibile presso le pubbliche amministrazioni dall’art. 36 d.lgs 165/2001, così come modificato a sua volta dalla l. 247/2007.” Il giudice genovese, a sostegno di tale argomentazione, rileva appunto che la durata massima fissata dall’art. 5, D.Lgs. n. 368/2001 è stata riconosciuta come limite per “evitare il ricorso abusivo ai contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico” dal Governo italiano stesso nel giudizio tenutosi davanti alla Corte di giustizia UE nel 2010 (Corte giust., Affatato, p. 48, cit.)”.

Il Tribunale genovese, quindi, in base a tale postulato osserva che le assunzioni a termine del personale scolastico, motivate dalle ragioni di cui all’art. 4, primo comma, l. 124/99, non possano essere protratte oltre i trentasei mesi complessivi previsti dall’art. 5, c. 4-bis, d. lgs 368/2001. Per il giudice di merito, quindi, tale soluzione trova fondamento nei princìpi che regolano nel nostro ordinamento i rapporti tra norma generale e norma speciale di comparto, essendo primaria l’esigenza di “dare attuazione all’ordinamento europeo e di conseguire dunque il risultato perseguito dalla citata direttiva di prevenire gli abusi nell’adozione di contratti a tempo determinato da parte dell’Amministrazione nei confronti dei lavoratori suoi dipendenti”.

Secondo l’indirizzo maggioritario delle sentenze oggetto di nota l’illegittimità delle assunzioni a termine, in virtù del combinato disposto dell’art. 36 del D.Lgs. n. 165 del 2001 e, in particolare per il settore scolastico, dell’ art. 4, comma 14-bis, l. n. 124/1999, non comporta la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’Amministrazione pubblica, ma unicamente la risarcibilità del danno.

Queste sentenze affermano che una normativa nazionale che in materia di pubblico impiego non contempli, quale sanzione, la conversione in un contratto a tempo indeterminato di reiterati rapporti a termine non è di per sé incostituzionale, né risulta incompatibile con la Direttiva Comunitaria, purché lo Stato membro stabilisca l’adozione di misure effettive dirette a prevenire e contrastare l’utilizzazione abusiva di contratti a termine in successione (in tal senso, Corte di giustizia 7.9.2006, causa C-180/04, Vassallo; Corte di giustizia 22.04.2009, Angelidaki).

La norma, in tal caso, deve avere effettiva efficacia non solo ristoratrice, ma anche dissuasiva. Il compito di valutare se l’ordinamento appresti strumenti idonei a ristorare tali abusi è demandato al giudice dello Stato membro.

In tal senso, secondo le sentenze in commento, il risarcimento dei danni previsto dall’art. 36 del D.Lgs. n. 165 del 2001 possiede tutti i requisiti individuati dalle sentenze della Corte di Giustizia, in quanto la tutela risarcitoria costituisce sia un idoneo ristoro del danno conseguente alla illegittimità del termine, sia un’appropriata misura dissuasiva contro l’abusivo ricorso alle assunzioni a termine.

Sul punto, i giudici di merito affermano che utilizzare quale parametro di riferimento l’indennità risarcitoria di cui all’art. 18 st. lav., oltre ad essere un criterio adeguato, ha l’ulteriore vantaggio  - non onerando il lavoratore dal dimostrare in giudizio il danno stesso - di rendere agevole per il medesimo “l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario”, e dunque di rispettare il “principio di effettività” richiamato dal punto 95 della sentenza Adeneler (sui criteri di risarcimento del danno si veda anche la nota di A. Raffi, Gli insegnanti precari della Pubblica Amministrazione: stabilizzazione o risarcimento del danno?, Rivista giur. lav, 2011, I, pp. 595 e ss.).

Per completezza, occorre evidenziare che tale parametro risarcitorio si discosta rispetto a quello utilizzato in altri precedenti giudizi di merito, ove invece è stato ritenuto maggiormente satisfattivo il criterio delle 20 mensilità di retribuzione globale, discendenti sempre dall’art. 18, L. 300/70, corrispondenti alle 15 mensilità di indennità dovuta a titolo di opzione, oltre alle cinque minime di risarcimento del danno.

In merito, la giurisprudenza che si esamina ritiene di non aderire a tale quantificazione in quanto le cinque mensilità sono dovute a titolo di penale o di risarcimento per il periodo successivo al licenziamento, mentre le “altre quindici sono proprio il “valore” (ovviamente indicativo e convenzionale) del posto di lavoro, poiché rappresentano le mensilità che il dipendente può chiedere in alternativa alla reintegrazione” (in tal senso Trib. Roma, 17 maggio 2011; Trib. Roma 19 maggio 2011).

Invece, il Tribunale di Treviso reputa  quale utile parametro di quantificazione del danno da abusiva reiterazione di contratti di lavoro a termine, quello stabilito dall’art. 32 della recente legge 183 del 2010. Secondo il giudice trevigiano tale misura avrebbe “il vantaggio di evitare l’incertezza del diritto derivante dall’applicazione di regimi di tutela differenziati sul territorio nazionale”, assicurerebbe altresì “il tendenziale rispetto del principio di equivalenza” nonché consentirebbe “al Giudice di personalizzare e graduare la sanzione risarcitoria tenendo conto delle peculiari circostanze del caso concreto sottoposto al suo vaglio (es. complessiva durata dei rapporti a termine)”.

Di contro il Tribunale di Genova ritiene che il disposto dell’art. 32, quinto comma, L. 183/2010 è concepito solo per i casi di conversione del contratto, mentre la parametrazione delle 15 mensilità di retribuzione ex art. 18 L. 300/70 è adeguata rispetto agli scopi perseguiti dalla direttiva europea, perché determina “il valore minimale del posto di lavoro” nel caso di rinuncia al medesimo dopo la declaratoria di illegittimità del recesso. Orbene, citando le stesse parole del giudice genovese, se la norma “riconosce un indennizzo compreso tra 2,5 e 12 mensilità quando il lavoratore benefici della conversione del contratto in rapporto a tempo determinato, non è certamente esagerato un risarcimento pari a 15 mensilità nell’ipotesi in cui conversione non possa esservi”.

 

La sentenza del Tribunale di Siena, tra le decisioni in commento, è l’unica ad adottare la soluzione della conversione del contratto di lavoro a termine in contratto a tempo indeterminato, quale unica sanzione effettiva e rispettosa dei principi comunitari (nello stesso senso: Trib. Livorno, 25 gennaio 2011, in Guida lav., 2011, 10, pp. 17 e ss., con nota di F.M. Putaturo Donati; Trib. Siena, 27 settembre 2010, in Lav. giur., 2010, pp.1107, con Nota di V. Di Michele; per un’analisi complessiva di entrambe le sentenze si veda anche A. Federici, La conversione a termine nel pubblico impiego è una ipotesi sempre meno isolata, Rivista giur. lav., 2010, III, 418).

Secondo il Tribunale di Siena la perdita del lavoro conseguente alla scadenza di un termine illecitamente apposto è equiparabile alla perdita del posto di lavoro a seguito di licenziamento. Secondo il giudice toscano, a fronte di una vicenda risolutiva del rapporto ritenuta illegittima, la tutelabilità in forma specifica del diritto del lavoratore è degna di una medesima applicazione di norme tanto in caso di licenziamento, che in caso di apposizione del termine, realizzandosi in difetto una discriminazione “tra lavoratori comparabili”. La scadenza del termine, illegittimamente apposto, a parere del Tribunale di Siena “non è altro che un licenziamento programmato privo di giustificazione causale, arbitrario” a fronte del quale il giudice ha ritenuto di dover assicurare “la tutelabilità in forma specifica del diritto del lavoratore a fronte di una vicenda risolutiva del rapporto”.

Il giudice toscano, altresì, cerca di superare anche un altro principio considerato invece "insormontabile" dall’orientamento maggioritario della giurisprudenza: secondo la decisione in epigrafe la trasformazione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato non è infatti preclusa dal principio costituzionale di cui all’art. 97, secondo il quale “agli impieghi nelle P.A. si accede mediante concorso”. Al riguardo, il giudice sostiene che è lo stesso art. 97, comma 3, che consente al legislatore di derogare al principio della concorsualità; tuttavia, tale deroga, nel caso di specie, non risulta necessaria poiché è la stessa struttura dell’art. 36, comma 1, del D.Lgs. 165/01, che consente di effettuare assunzioni a termine nel rispetto delle procedure di reclutamento dell’art. 35 dello stesso decreto. Ciò risulta maggiormente avvalorato dalla circostanza che in base al meccanismo del cosiddetto doppio canale (previsto dall’art. 399 del D.lgs. 297/94 modificato dalla L. 124/99 all’art. 1 co. 1), la graduatoria ad esaurimento costituisce una forma selettiva idonea al reclutamento del personale docente, per cui con la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato si realizza il requisito concorsuale, in rispetto dell’art. 97 Cost..

In conclusione, se l’assunzione, avviene mediante procedure selettive idonee a garantire il rispetto dell’art. 97, comma 3, Cost., come avvenuto nel caso posto al vaglio del giudice toscano, e risultano violate le norme individuate dal D.Lgs. n. 368/01, espressione diretta del diritto comunitario, non vi è alcuna giustificazione che possa vietare la conversione del rapporto.

Afferma ancora la sentenza in esame che per il settore scolastico proprio il CCNL 2006/2009 Comparto Scuola (art. 40) contempla la possibilità di trasformare il rapporto a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato per effetto di specifiche disposizioni normative.

In conclusione l'incertezza interpretativa in relazione all’adozione di un criterio effettivo ed adeguato del valore del posto di lavoro porta a dubitare sulla effettività della sanzione utilizzata, che in realtà, a dispetto dell’orientamento maggioritario della giurisprudenza, non appare satisfattoria rispetto alla mancata conversione del rapporto di lavoro.   

Al fine di determinare quale sia la sanzione adeguata rispetto all’illegittima apposizione del termine nel settore pubblico, si deve tenere conto dell'importante principio espresso nella sentenza n. 141 del 2006 delle Sezioni Unite della Cassazione. I giudici di legittimità, infatti, dopo aver affermato di non condividere la “tesi che considera la tutela per equivalente del diritto soggettivo come regola….”, hanno poi sostenuto che in materia di norme sul lavoro “il diritto del lavoratore al proprio posto, protetto dagli art. 1,4 e 35 Cost., subirebbe una sostanziale espropriazione se ridotto in via di regola al diritto ad una somma” (si veda in tal senso A. Preteroti, A proposito di una possibile “disapplicazione” del divieto di costituzione di rapporti di lavoro a tempo determinato nella P.A., Il Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, 2009, pp. 885 e segg.).     .

Va ricordato, infatti, che secondo la Carta Costituzionale lo Stato basa le sue fondamenta sul lavoro  e, quindi, dovrebbe essere il principale garante di tale bene primario, favorendo tutte le condizioni affinché lo stesso sia stabile e duraturo, per assicurare al cittadino prima, e al lavoratore dopo, un’esistenza libera e dignitosa.

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