La flessibilità «insicura» dell’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368 del 2001: la disapplicazione della norma nell’ esegesi giurisprudenziale successiva alla sentenza della Corte Costituzionale n. 214 del 2009

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Rivista Giuridica del Lavoro n.2/2010

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TRIBUNALE SIENA, 23 novembre 2009, Sez. lav. – Est. Cammorasano – C. G. c. Poste Italiane Spa.

 Lavoro subordinato – Contratto a termine – Imprese concessionarie di servizi nel settore postale – Art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368 del 2001 – Condizioni legittimanti la clausola appositiva del termine nella norma a-causale – Violazioni princìpi comunitari anche in ipotesi di un unico contratto a termine – Interpretazione della giurisprudenza comunitaria – Disapplicazione della norma per contrasto con il diritto comunitario – Nullità del termine – Trasformazione a tempo indeterminato.

I princìpi affermati dalla Corte di Giustizia, in relazione al fenomeno della successione dei contratti a termine, sono pienamente applicabili al singolo rapporto di lavoro a termine, nella logica di proteggere i lavoratori dall’instabilità dell’impiego e del principio secondo il quale i contratti a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro. L’abuso dei contratti a termine può essere accertato andando a considerare la globale utilizzazione del lavoro precario in ambito aziendale ove nel medesimo stabile posto di lavoro, nella medesima ordinaria mansione, per dodici mesi su dodici l’anno, tanto è abusivo utilizzare in successione temporizzata un medesimo lavoratore, quanto farvi ruotare lavoratori diversi con singoli contratti. In entrambi i casi abbiamo un sostanziale fenomeno di successione di rapporti. La presupposizione della Corte, nella conclusione del par. 90, della sentenza Angelidaki, è e non può non essere, che per quella mansione, per quel posto, non vi sia ricorso a una successione ancorché indiretta, cioè con altri lavoratori a termine.

II

TRIBUNALE TRANI, 23 novembre 2009, Sez. lav., ord. – Est. La Notte Chirone – V. C. D. (avv. Carpagnano) c. Poste Italiane Spa (avv. De Luca Tamajo).

 

Lavoro subordinato – Contratto a termine – Imprese concessionarie di servizi nel settore postale – Art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368 del 2001 – Condizioni legittimanti la clausola appositiva del termine nella norma a-causale – Violazioni princìpi comunitari anche in ipotesi di un unico contratto a termine – Interpretazione della giurisprudenza comunitaria – Disapplicazione della norma per contrasto con il diritto comunitario – Nullità del termine – Trasformazione a tempo indeterminato.

 

L’art. 2, comma 1-bis, si pone in contrasto con la clausola n. 8, punto 3 dell’Accordo quadro recepito dalla Direttiva n. 1999/70/Ce anche in ipotesi di un unico contratto a termine visto che la tipologia acausale – sebbene introdotta dalla legge n. 266 del 23 dicembre 2005 e, quindi, successivamente alla «trasposizione propriamente detta» (intervenuta con il d.lgs. n. 368/01) – è, da un lato, pacificamente collegata con l’applicazione dell’Accordo quadro, nella misura in cui è andata a «completare» e a «modificare» le norme nazionali già adottate [vedi sentenze Mangold (punto 51) e Angelidaki (punto 131)] e, dall’altro, non risulta diretta ad applicare un altro obiettivo distinto da quello di applicare l’Accordo quadro [vedi sentenze Mangold (punti 52 e 53) e Angelidaki (punto 133)]. Tale norma acausale, non richiedendo alcuna valida e oggettiva ragione giustificativa, ha ridotto il livello di tutela dei dipendenti della Spa Poste Italiane i quali non possono certamente considerarsi una categoria circoscritta di lavoratori, stante l’elevato numero di contratti a termine stipulati con tale tipologia, senza peraltro la necessaria contestuale previsione di una misura adeguatamente compensativa, introducendo così un trattamento peggiorativo tra lavoratori comparabili. (1)

 

 

III

TRIBUNALE MILANO, 9 novembre 2009, Sez. lav. – Est. Mascarello – T. C. (avv. Galleano) c. Poste Italiane Spa (avv. Trifirò).

 

Lavoro subordinato – Contratto a termine – Imprese concessionarie di servizi nel settore postale – Art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368 del 2001 – Condizioni legittimanti la clausola appositiva del termine nella norma a-causale – Violazioni princìpi comunitari in ipotesi di successione di contratti a termine – Interpretazione della giurisprudenza comunitaria – Disapplicazione della norma per contrasto con il diritto comunitario – Nullità del termine – Trasformazione a tempo indeterminato.

 

L’art. 2, comma 1-bis, in quanto disciplina aggiuntiva all’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, non determina un abbassamento del livello generale di tutela tuttavia in caso di successione di contratti a termine si verifica una violazione della clausola n. 5 dell’Accordo quadro, in virtù di quanto stabilito dalla Corte di Giustizia (in particolare al punto 68 della sentenza Adelener), in materia di prevenzione di abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti a termine, stante la mancanza nell’ordinamento nazionale di idonee misure atte a prevenire abusi, con la conseguenza della violazione della clausola di non regresso. (2)

 

IV

TRIBUNALE ROMA, 2 febbraio 2010, Sez. lav. – Est. Casari – C. M. D. (avv.ti De Marchis e Frezza) c. Poste Italiane Spa (avv. Maresca).

 

V

TRIBUNALE ROMA, 17 dicembre 2009, Sez. lav. – Est. Vetritto – V. R. M. (avv. D’Ambrosio) c. Poste Italiane Spa (avv. Maresca).

 

VI

TRIBUNALE ROMA, 17 novembre 2009, Sez. lav. – Est. Baraschi – C. P. (avv. D’Ambrosio) c. Poste Italiane Spa (avv. Proia).

 

Lavoro subordinato – Contratto a termine – Condizioni legittimanti la clausola appositiva del termine nella norma acausale – Unico contratto a termine – Interpretazione della giurisprudenza comunitaria – Conformità della norma con i princìpi comunitari – Non applicazione della norma per estraneità delle mansioni svolte dai prestatori con i cosiddetto servizio universale postale – Nullità del termine – Trasformazione a tempo indeterminato.

 

La circostanza che la ricorrente non abbia svolto attività relativa al servizio postale implica che alla medesima non possa essere applicata la norma di cui all’art. 2, comma 1-bis, atteso che l’espressione utilizzata dalla disposizione di assunzione «effettuata da imprese concessionarie di servizi nel settore postale» deve essere intesa teleologicamente come riferita alla convenuta esclusivamente nel momento in cui esercita tale tipologia di attività e non all’impresa concessionaria in quanto tale, a prescindere dal tipo di attività diversa e collaterale che la medesima decida di svolgere. La norma, infatti, ha scriminato in ragione della particolarità del servizio reso (quello postale appunto) e non in ragione della natura del soggetto che tale servizio aveva in concessione onde per cui estenderla a servizi diversi appare privo di logica e arbitrario. (3)

 

 

(1-3) La flessibilità «insicura» dell’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368 del 2001: la disapplicazione della norma nell’esegesi giurisprudenziale successiva alla sentenza della Corte Costituzionale n. 214 del 2009

 

Sommario: 1. Premessa. — 2. L’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001 e l’esigenza di flessibilità dell’organico direttamente funzionale all’onere di assicurare il servizio postale universale nell’interpretazione della Corte Costituzionale. — 3. Sul potere-dovere del giudice di disapplicare le norme nazionali in contrasto con il diritto comunitario. — 4. La disapplicazione dell’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368/01, per contrasto con la normativa comunitaria, anche nella ipotesi di un unico contratto a-causale. — 5. La disapplicazione dell’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368/01, per contrasto con la normativa comunitaria in ipotesi di successione dei contratti a-causali. — 6. L’illegittima apposizione del termine ex art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368/01, per lo svolgimento di attività non connesse al servizio universale postale. — 7. Le questioni pregiudiziali rimesse alla Corte di Giustizia delle Comunità europee. — 8. Considerazioni conclusive.

 

— Premessa — Le sentenze in commento, nelle diverse soluzioni interpretative indicate, offrono l’opportunità di effettuare un primo bilancio degli orientamenti giurisprudenziali che si sono pronunciati sull’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, dopo la celeberrima sentenza della Corte Costituzionale n. 214 del 2009.

Vari commentatori hanno già espresso le loro perplessità su tale importante decisione ([1]). Tuttavia, in queste pagine, si propone un punto di osservazione differente e di notevole interesse, in quanto, al di là delle critiche e delle manifestazioni di delusione espresse sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza ([2]), ciò che maggiormente rileva è comprendere come la magistratura di merito si sia confrontata con il Moloch della sentenza della Corte Costituzionale. E, infatti, dal momento che tale norma è stata ritenuta immune da censure di incostituzionalità, occorre esaminare quale sia stato il percorso interpretativo della giurisprudenza, la quale, nelle sentenze oggetto del presente commento, con alterne soluzioni, ha ritenuto di dover disattendere le decisioni della Consulta, pur essendo consapevole che non fosse istituzionalmente consentito al giudice di merito sovrapporsi alle valutazioni di legittimità espresse dalla medesima ([3]).

La questione appare ancor più interessante se sol si riflette sulla circostanza che, avendo la Corte Costituzionale «blindato» l’art. 2, comma 1-bis, con la corazza della non fondatezza della questione di legittimità della norma, è subito sembrato che si fosse celebrata la cerimonia funebre di tutte le critiche mosse da dottrina e giurisprudenza su tale tipologia acausale.

Invece, a distanza di pochi mesi da tale decisione del giudice delle leggi, la giurisprudenza di merito ha fatto risorgere dalle ceneri, come un’araba fenice, la questione della illegittimità dell’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, con orientamenti che potremmo suddividere in due principali scuole di pensiero.

Una prima, in verità abbastanza consolidata anche prima della citata sentenza della Corte Costituzionale ([4]), di coloro che disapplicano la norma nazionale acausale in quanto ritenuta palesemente in contrasto con quella comunitaria, sia in ipotesi di stipulazione di un unico contratto ([5]), sia in ipotesi di successione di contratti a termine ([6]).

Una seconda che, pur ritenendo tale articolo conforme ai precetti comunitari, la disapplica o non la applica – riconducendo quindi il rapporto ai princìpi generali previsti dall’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 (che prevede appunto la necessaria specificazione delle ragioni oggettive) e alla sanzione che colpisce la violazione di tale regola – in quanto i lavoratori assunti con la tipologia acausale sono stati utilizzati non per sopperire a esigenze effettivamente connesse al cosiddetto servizio postale universale (definizione di cui si dirà meglio nelle pagine seguenti), ma per svolgere mansioni completamente estranee a tale servizio di preminente interesse generale ([7]).

Nell’ambito di tale querelle giurisprudenziale è poi intervenuta il Tribunale di Trani che dopo la sentenza della Corte Costituzionale, inizialmente, con sentenza del 16 novembre 2009 ha disapplicato la norma in oggetto e, successivamente, per le medesime ragioni, con ordinanza del 23 novembre 2009, ha invece ritenuto di dover rimettere gli atti alla Corte di Giustizia delle Comunità europee ([8]).

Fatta questa breve premessa di ordine sistematico, esaminiamo nello specifico la previsione normativa dell’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368 del 2001 nella interpretazione fornita dal giudice delle leggi.

 

— L’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001 e l’esigenza di flessibilità dell’organico direttamente funzionale all’onere di assicurare il servizio postale universale nell’interpretazione della Corte Costituzionale — La fattispecie acausale ex art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368 del 2001 trae origine dall’art. 1, comma 588, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, che ha introdotto una normativa, già peraltro applicata al settore del trasporto aereo, in favore delle «imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile e ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti».

La stessa norma ha prescritto, quale unico limite, il rispetto della clausola di contingentamento fissata «nella percentuale non superiore al 15 per cento dell’organico aziendale, riferito al 1° gennaio dell’anno cui le assunzioni si riferiscono» e l’obbligo di effettuare la comunicazione alle organizzazioni sindacali provinciali delle richieste di assunzione da parte delle predette imprese.

Orbene, la normativa in oggetto consente alla società Poste Italiane, in quanto concessionaria del servizio postale universale, di poter stipulare contratti di lavoro a tempo determinato del tutto svincolati dall’obbligo di indicare le ragioni obiettive poste a fondamento della singola assunzione.

Ciò posto, si evidenzia che la Corte Costituzionale, con la recente sentenza del 08 luglio 2009, n. 214, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368/2001, nella sola ed esclusiva logica di garantire il corretto espletamento del servizio postale universale affidato in concessione a Poste Italiane.

In proposito, occorre evidenziare che la Corte Costituzionale se, da un lato, ha affermato che la normativa in esame «costituisce la tipizzazione legislativa di un’ipotesi di valida apposizione del termine…», tuttavia, dall’altro, ha espressamente specificato che «… la garanzia alle imprese in questione, nei limiti indicati, di sicura flessibilità dell’organico è direttamente funzionale all’onere gravante su tali imprese di assicurare lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto e alla distribuzione degli invii postali […], i quali “costituiscono attività di preminente interesse generale”, ai sensi dell’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261 (Attuazione della Direttiva n. 1997/67/Ce concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali)…».

Afferma ancora la Corte che tutto ciò è giustificato dal fatto che «… l’impresa fornitrice del servizio deve garantire tutti i giorni lavorativi, e come minimo cinque giorni a settimana, […] una raccolta e una distribuzione al domicilio di ogni persona fisica o giuridica […]. Non è, dunque, manifestamente irragionevole che a imprese tenute per legge all’adempimento di simili oneri sia riconosciuta una certa flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto a tempo determinato».

In sintesi, ciò che emerge dalla lettura della sentenza della Corte Costituzionale è che l’articolo 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368/2001, rappresenta una valida ipotesi di apposizione del termine al contratto di lavoro sottoscritto fra i lavoratori e le imprese concessionarie del settore dei servizi postali, se e in quanto sia finalizzata a garantire lo svolgimento del cosiddetto «servizio postale universale» relativo alla raccolta, il trasporto, lo smistamento e la distribuzione degli invii postali fino a 2 Kg e dei pacchi postali fino a 20 Kg.

Lo scopo di tale norma è stato difatti quello, come confermato dalla Corte Costituzionale, di soddisfare l’esigenza di una flessibilità dell’organico assunto da Poste Italiane al fine di consentire alla medesima, in adempimento degli obblighi di fonte comunitaria derivanti dalla Direttiva n. 1997/67/Ce, e specificatamente disciplinati dal d.lgs. n. 261/99, il corretto svolgimento delle attività connesse – oggettivamente ed esclusivamente – al cosiddetto «servizio postale universale», in quanto «attività di preminente interesse generale», come espressamente indicato dall’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 261/1999.

Pertanto, i contratti stipulati ai sensi dell’art. 2, comma 1-bis, pur se ontologicamente «acausali», nell’accezione voluta dal legislatore stesso, devono tuttavia essere giustificati da una «ragione» e/o una «causa» genetica che ne renda legittima la stipulazione.

Non vi è dubbio, dunque, che la legittimità della disciplina legislativa, che esenta Poste Italiane Spa dal dover fornire la prova in ordine alle ragioni obiettive e temporanee che giustificano l’apposizione del termine ai contratti di lavoro acausali, sussiste solo in quanto il lavoratore assunto a tempo determinato svolga, in concreto, mansioni oggettivamente connesse al cosiddetto servizio postale universale.

In altre parole, la scelta effettuata dal legislatore di non prevedere la specificazione di una causale a giustificazione dell’apposizione del termine a un contratto stipulato ex art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368/2001 presuppone, a priori, che la singola assunzione sia legittimata dall’effettiva esistenza di concrete e oggettive ragioni connesse all’espletamento del servizio di recapito, le sole che consentano l’instaurazione del rapporto di lavoro con un tipo legale diverso da quello ordinario previsto dall’art. 1, d.lgs. n. 368 del 2001, come correttamente sostenuto da alcune sentenze oggetto di nota ([9]).

 

— Sul potere-dovere del giudice di disapplicare le norme nazionali in contrasto con il diritto comunitario — Ancor prima di entrare nello stretto merito delle questioni delineate dalle sentenze in commento, occorre comprendere come la giurisprudenza abbia qualificato giuridicamente la possibilità di disapplicare una norma nazionale che ha ottenuto il vaglio di legittimità della Consulta.

Al riguardo, si osserva che una prima indicazione in tal senso è stata già fornita dalla Corte di Giustizia europea la quale ha affermato che «è compito del giudice nazionale assicurare, nell’ambito della sua competenza, la tutela giuridica che il diritto comunitario attribuisce ai singoli, garantendone la piena efficacia e disapplicando le disposizioni eventualmente confliggenti della legge nazionale» ([10]).

Il potere-dovere del giudice di disapplicare la normativa nazionale in contrasto con quella comunitaria è principio che può ormai ritenersi consolidato nella giurisprudenza di merito, la quale, già prima delle sentenze oggetto della presente nota, ha affermato che «il potere del giudice nazionale di disapplicazione (o di non applicazione) della normativa interna incompatibile abbia un valore giuridicamente più significativo nel caso di specie, ove non solo la direttiva comunitaria era stata tempestivamente trasposta nell’ordinamento interno, ma la successiva modifica del decreto di recepimento è avvenuta al di fuori e contro il procedimento legislativo avente dignità costituzionale, ex art. 117, comma 1, Cost., di attuazione degli obblighi comunitari» ([11]).

Da ultimo, si rileva che tale orientamento è stato confermato dalla sentenza del Tribunale di Milano, oggetto di nota, secondo cui la disapplicazione dell’art. 2, comma 1-bis, «nel singolo e concreto caso sottoposto alla sua decisione è già un obbligo per il giudice ordinario in presenza di disposizione europea self executing, come indubbiamente deve ritenersi la Direttiva n. 1999/70/Ce, sia pur limitatamente alla parte in essa riferita ai contratti successivi al primo» ([12]).

 

— La disapplicazione dell’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368/01, per contrasto con la normativa comunitaria, anche nella ipotesi di un unico contratto a-causale — A seguito della citata sentenza della Corte Costituzionale, e quindi nonostante il vaglio di legittimità della norma oggetto di esame, le sentenze oggetto di nota hanno ritenuto di disapplicare l’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368/01, affermando che tale norma risulta essere in contrasto con il diritto comunitario in quanto, sintetizzando al massimo un articolato e complesso ragionamento, tale fattispecie totalmente svincolata dall’indicazione di ragioni oggettive violerebbe diversi princìpi comunitari ([13]), determinando così un importante arretramento di tutela rispetto a quanto previsto nella normativa previgente ([14]).

La questione appare di notevole rilievo poiché tale indirizzo giurisprudenziale ha disapplicato la norma acausale anche a fronte di una fattispecie in cui vi era un unico contratto, in quanto la causalità oggettiva del rapporto di lavoro a tempo determinato rappresenta un imprescindibile presupposto della contrapposizione istituita tra la forma normale (tempo indeterminato) e quella non normale (tempo determinato) ([15]).

Sul punto, si evidenzia che già prima della sentenza della Consulta alcune decisioni della giurisprudenza di merito hanno ravvisato nell’articolo 2, comma 1-bis, un palese contrasto con la Direttiva comunitaria n. 1999/70/Ce ([16]). In proposito, il Tribunale di Milano ha espressamente affermato che «il legislatore (aveva) fatto i conti senza l’oste, nella specie rappresentato dal diritto comunitario» ([17]).

Secondo l’interpretazione dei giudici del Tribunale di Trani e di Siena, la norma acausale ha determinato un’evidente situazione di contrasto tra la normativa comunitaria (recepita) e la normativa nazionale italiana, poiché l’art. 2, comma 1-bis, risulta aver violato i principali obiettivi perseguiti sia dalla Direttiva comunitaria n. 1999/70/Ce sia dall’Accordo quadro di recepimento ovvero: la clausola n. 8.3 dell’Accordo quadro, contenente il divieto di ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso (cd. clausola di non regresso), e la clausola n. 3.1 dell’Accordo quadro visto che, «data per definitivamente acquisita la riferibilità dei princìpi minimi fissati dalla Direttiva comunitaria anche al primo e unico contratto a tempo determinato», secondo quanto affermato dalla sentenza della Corte di Giustizia Angelidaki, in tale «tipologia contrattuale non può, per definizione, essere consentita l’acausalità», essendo stabilito, per espressa previsione normativa, che l’apposizione del termine sia giustificata «dal completamento di un compito specifico o dal verificarsi di un evento».

Secondo la dottrina, in base alle disposizione del diritto comunitario e alla interpretazione del medesimo fornita dalle sentenze del giudice europeo (in particolare dalla sentenza Mangold), vi sono limiti anche per il primo e unico contratto, i quali, anche se «non ben definiti e stringenti», comunque, richiedono requisiti di vario genere, come vincoli sulla natura oggettiva e temporanea del contratto per cui viene effettuata l’assunzione, nonché sulla qualità e condizione in cui si trovano sia i lavoratori da assumere sia le stesse imprese che beneficiano di tali facilitazioni ([18]).

È proprio sulla qualificazione di tali «limiti» che risultano interessanti le sentenze in commento, le quali si sono distinte proprio per la completezza del ragionamento e per il superamento delle difficoltà insite nella interpretazione delle sentenze Mangold e Adeneler sul primo e unico contratto a termine.

Sul punto, infatti, occorre evidenziare che sia in dottrina che in giurisprudenza è stata sostenuta la tesi dell’inesistenza di limiti alla stipula del primo contratto a tempo determinato; ciò in base al postulato, espresso da tali decisioni, che l’Accordo quadro non stabilirebbe condizioni precise in presenza delle quali si può far uso del contratto a tempo determinato ([19]).

I giudici di merito, tuttavia, dopo un’ampia e approfondita disamina sia del quadro normativo di riferimento nazionale e comunitario sul contratto a termine ([20]), sia dei precedenti giurisprudenziali della Corte Costituzionale e di Cassazione ([21]), hanno deciso di discostarsi dall’interpretazione fornita dalla sopra richiamata sentenza della Consulta n. 214/2009, basando le loro convinzioni sulla circostanza che la sentenza del giudice delle leggi non ha affrontato e risolto i princìpi contenuti nella sentenza Kiriaki Angelidaki enunciati dalla Corte di Giustizia il 23 aprile 2009.

La dottrina ha affermato, in modo critico con la citata sentenza della Corte Costituzionale, che l’art. 2, comma 1-bis, «è stato salvato, in buona sostanza, non facendo operare nei suoi confronti la clausola di non regresso e ponendo invece in risalto la particolare forza di una tipizzazione legislativa della ipotesi derogatoria, se operata in maniera “non irragionevole”» ([22]).

In particolare, secondo il Tribunale di Trani ([23]), la Consulta non avrebbe dato rilievo alle determinazioni contenute nella sentenza della Corte di Giustizia Kiriaki Angelidaki, relativa la clausola 8, n. 3, dell’Accordo quadro (cd. clausola di non regresso). Secondo il giudice di merito, per valutare si vi sia stata o meno una reformatio in peius contemplata da detta clausola «occorre esaminare in quale misura le modifiche introdotte dalla normativa nazionale volta a recepire la Direttiva n. 1999/70 e l’Accordo quadro siano tali da, da un lato, da essere considerate collegate con l’“applicazione” dell’Accordo quadro, e, dall’altro, da riguardare “il livello generale di tutela” dei lavoratori ai sensi della sua clausola 8, n. 3» ([24]).

Il Tribunale di Trani, alla luce di tale principio, ha trovato conforto anche per superare alcune delle perplessità sollevate in merito alla non applicabilità al caso di specie delle determinazioni contenute nella Direttiva comunitaria del 1999 e dell’Accordo quadro, in quanto l’art. 2, comma 1-bis, sarebbe stato introdotto successivamente dalla legge n. 266/2005. In merito, la sentenza del giudice pugliese ha evidenziato che secondo l’interpretazione di altra sentenza della Corte di Giustizia l’espressione «collegamento con l’“applicazione dell’Accordo quadro […] non riguarda la sola iniziale trasposizione della Direttiva n. 1999/70 […], ma copre ogni misura nazionale intesa a garantire che l’obiettivo da questa perseguito possa essere raggiunto, comprese le misure che, successivamente alla trasposizione propriamente detta completino o modifichino le norme nazionali già adottate…» ([25]).

Il Tribunale di Trani poi, in base a una analisi dei contenuti della sentenze Angelidaki e Mangold, ha sostenuto che le modifiche introdotte da una normativa nazionale tesa a recepire la Direttiva comunitaria del 1999 e l’Accordo quadro, non costituiscono un abbassamento di tutela del livello generale dei lavoratori a tempo determinato solo quando riguardino «una categoria circoscritta di lavoratori con un contratto di lavoro a tempo determinato oppure siano idonee a essere compensate dall’adozione di misure preventive dell’utilizzo abusivo di contratti di lavoro a tempo determinato successivi…» ([26]).

In base a quanto sopra argomentato, il Tribunale di Trani ha «dubitato» della conformità dell’art. 2, comma 1-bis, alla clausola n. 8, punto 3 dell’Accordo quadro recepito dalla Direttiva n. 1999/70/Ce visto che tale disposizione – «sebbene introdotta dalla legge n. 266 del 23 dicembre 2005 e, quindi, successivamente alla “trasposizione propriamente detta” (intervenuta con il d.lgs. n. 368/01) – è, da un lato, pacificamente collegata con l’applicazione dell’Accordo quadro, nella misura in cui è andata a “completare” e a “modificare” le norme nazionali già adottate [vedi sentenze Mangold (punto 51) e Angelidaki (punto 131)] e, dall’altro, non risulta diretta ad applicare un altro obiettivo, […] distinto da quello di applicare l’Accordo quadro [vedi sentenze Mangold (punti 52 e 53) e Angelidaki (punto 133)]».

E ancora, continuando il ragionamento decisorio, il giudice pugliese ha affermato che tale norma acausale, non richiedendo alcuna valida e oggettiva ragione giustificativa, ha «ridotto il livello di tutela dei dipendenti della Spa Poste Italiane i quali non possono certamente considerarsi una categoria circoscritta di lavoratori», stante l’elevato numero di contratti a termine stipulati con tale tipologia, senza peraltro la «necessaria contestuale previsione di una misura adeguatamente compensativa» ([27]).

Sul punto, in senso conforme, si veda quanto sostenuto anche dal Tribunale di Siena, secondo cui l’art. 2, comma 1-bis, sarebbe il frutto di un intervento normativo sopravvenuto, di natura integrativa del d.lgs. n. 368 del 2001 e, in quanto tale, non può ritenersi estraneo all’applicazione dei princìpi contenuti nella Direttiva n. 1999/70/Ce e nell’Accordo quadro; conseguentemente, visto il collegamento funzionale con la normativa comunitaria, la «radicale eliminazione della causalità oggettiva nei confronti di un’ampia platea di svariate migliaia di lavoratori, ha evidentemente introdotto un trattamento peggiorativo tra lavoratori comparabili…».

Conclude poi il Tribunale di Trani osservando che la Corte Costituzionale, nella più volte citata sentenza di luglio 2009, avrebbe dovuto ritenere illegittimo l’art. 2, comma 1-bis, non per mancanza di delega, essendo stato il medesimo introdotto direttamente dal Parlamento, ma poiché tale disposizione, per una numero elevato di lavoratori e senza la previsione per gli stessi di misure compensative, ha «introdotto un’eccezione alla regola della natura a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro e ai princìpi di eccezionalità, temporaneità, e obiettività delle ragioni giustificanti l’apposizione del termine al contratto di lavoro», determinando così «un importante arretramento di tutela» rispetto alla normativa previgente (legge n. 230/62 che non prevedeva alcun trattamento di minor favore per i dipendenti), e ponendosi «in violazione della clausola 8.3 dell’Accordo quadro, così come letta dalla Corte di Giustizia europea nelle richiamate sentenze Mangold e Angelidaki».

Per la peculiarità delle motivazioni deve segnalarsi anche l’altra sentenza in commento del Tribunale di Siena di cui si cercherà di estrapolarne in sintesi i tratti salienti, stante la brevità dello spazio offerto dalla presente nota a fronte di una lunga e articolata motivazione. Anche tale decisione ha evidenziato la «delusione» in merito alla sentenza della Corte Costituzionale che ritiene aver effettuato un «intervento di salvataggio di un diritto eccezionale», il quale, tuttavia, non può trovare in alcun modo la sua giustificazione nelle «fondamentali funzioni di interesse generali» di cui è portatrice, circostanza questa che ex se non può assolutamente legittimare la necessità del 15% di forza lavoro precaria. Tale impostazione ha determinato, sempre secondo il giudice toscano, un’inevitabilmente disparità di trattamento tra «lavoratori comparabili» che svolgono mansioni diverse.

In proposito, si rileva che anche la dottrina ha avanzato perplessità sull’avallo in bianco disposto dalla Consulta nei confronti della società Poste. Si afferma sul punto che in relazione all’esigenza di «sicura flessibilità» emerge uno «stacco logico» nel ragionamento dei giudici delle leggi tra le esigenze organizzative di tale società e «la necessità di ricorrere a una sicura flessibilità nell’uso delle forza lavoro» (in base alla quale risulta necessario ricorrere a un 15% dell’organico a termine). La previsione legislativa, secondo tale dottrina, determinando in maniera specifica le funzioni che devono essere svolte, consente una «tipizzazione della organizzazione del lavoro e una standardizzazione dei contratti di lavoro a tempo pieno (e/o part-time) e comunque a tempo indeterminato» ([28]). Altra dottrina, ritiene poi che il legislatore abbia offerto incomprensibili «privilegi» a Poste Italiane in considerazione della rilevante circostanza che la stessa non è l’unica società che ha analoghe esigenze di «preminente interesse generale» ([29]).

Sul punto infine, si è espressa anche altra dottrina che, proprio in virtù dei princìpi espressi dalla sentenza Kiriaki Angelidaki e della operatività della clausola di non regresso anche al primo e unico contratto, ha evidenziato che poiché la società Poste ha in essere un elevatissimo contenzioso sui contratti a termine sia legittimo il «sospetto» che la tipologia acausale nasconda «un abbassamento di tutela non insignificante» ([30]).

Alla luce di tali premesse, il Tribunale di Siena ha ritenuto di dover effettuare un’indagine sulla tenuta della norma acausale con il diritto comunitario, evidenziandone i limiti in quanto contraria allo spirito della Direttiva n. 1999/70/Ce e dell’Accordo quadro per cui il contratto a tempo indeterminato resta la forma ordinaria del rapporto di lavoro. In merito al carattere di eccezione del rapporto a termine il giudice di merito, a sostegno delle proprie argomentazioni, ha richiamato la giurisprudenza nazionale ([31]), ma, in particolar modo, ponendo in essere un ragionamento per alcuni tratti quasi speculare a quello utilizzato nella summenzionata sentenza del Tribunale di Trani (ovvero sulla violazione da parte della norma acausale del divieto della reformatio in peius del livello generale di tutela che era applicabile sia ai lavoratori con contratti a termine successivi sia a quelli con un primo e unico contratto sia della clausola di non regresso) e, per un altro verso, totalmente differente, facendo leva sui princìpi comunitari di non discriminazione tra lavoratori a termine e a tempo indeterminato e di necessaria giustificazione causale del recesso.

Il giudice toscano ha iniziato le proprie motivazioni sostenendo che, secondo quanto affermato dalla Corte di Giustizia (da ultimo nella sentenza Angelidaki), in base al punto 7 delle considerazioni generali dell’Accordo quadro l’utilizzo dei contratti a termine «fondato su ragioni obiettive costituisce un mezzo di prevenzione degli abusi» ([32]).

Secondo il giudice toscano poi la «lettura logico-sistematica dei princìpi del diritto comunitario impone il fondamento causale dell’apposizione del termine non solo in caso di successione di rapporti», trovando sostegno, nell’affermare tale assunto, in virtù di quanto già stabilito in altre sentenze della Corte di Giustizia ([33]) nonché nella clausola n. 5 dell’Accordo quadro sulla prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a termine.

Sul punto, il Tribunale di Siena, ha citato la giurisprudenza comunitaria la quale ha affermato che il ricorso a contratti a termine sulla base di una sola disposizione generale, senza che vi sia una specificazione del contenuto concreto dell’attività considerata, «non consente di stabilire criteri oggettivi e trasparenti atti a verificare se il rinnovo di siffatti contratti risponde a un’esigenza reale, e se esso sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e necessario a tale effetto» ([34]).

Orbene, secondo il giudice toscano quanto asserito dalla Corte di Giustizia, in relazione al fenomeno della successione dei contratti a termine, «è pienamente applicabile al singolo rapporto di lavoro a termine, nella logica di proteggere i lavoratori dall’instabilità dell’impiego e del principio secondo il quale i contratti a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro, un concetto, potremmo dire, presupposto».

Il Tribunale di Siena, pur assumendo di essere consapevole che le sentenze Angelidaki e Mangold sostengono che l’Accordo quadro non impone agli Stati Membri di adottare una misura in base alla quale sia necessario giustificare ogni primo e unico contratto di lavoro a termine, e che tale unico contratto non rientri nell’ambito di applicazione della clausola n. 5 dell’Accordo quadro ([35]), tuttavia, ha intrapreso un percorso interpretativo differente che lo ha portato a sostenere che, nella contrapposizione esistente tra contratto a tempo indeterminato e a termine, ciò su cui è necessario indagare è la «specifica, oggettiva causalità temporanea» della «forma non normale dell’impiego del lavoratore».

Ha osservato ancora il Tribunale di Siena che «la lettura dei princìpi comunitari come limitata alla prevenzione dell’abuso nella successione contrattuale ricorda l’immagine di un ricercatore al microscopio, sembrando invece miglior strumento il telescopio per la individuazione di princìpi fondanti di non discriminazione, ed è ulteriormente viziata nella scelta dello strumento di osservazione la lettura del caso concreto. Nel quale l’abuso nella successione è ricercato, al fine di tentare di escludere aprioristicamente la possibilità stessa del risultato, nel singolo caso, laddove invece è il macrofenomeno economico, la grandiosa girandola della utilizzazione del lavoro precario, nella non modesta percentuale del 15% in un ambito imprenditoriale di decine e decine di migliaia di dipendenti, a svelare anche nella utilizzazione del singolo, isolato rapporto di lavoro a termine l’indiretto abuso».

Utilizzando tale metafora, il giudice senese ha posto l’accento sulla rilevante circostanza che l’abuso nella successione dei contratti a termine può esser accertato andando a considerare la «globale utilizzazione del lavoro precario in ambito aziendale» ove «nel medesimo stabile posto di lavoro, nella medesima ordinaria mansione, per dodici mesi su dodici l’anno, tanto è abusivo utilizzare in successione temporizzata un medesimo lavoratore, quanto farvi ruotare lavoratori diversi con singoli contratti».

Ha sostenuto poi il giudice che «in entrambi i casi abbiamo un sostanziale fenomeno di successione di rapporti. La presupposizione della Corte, nella conclusione del par. 90, della sentenza Angelidaki, è e non può non essere, che per quella mansione, per quel posto, non vi sia ricorso a una successione ancorché indiretta, cioè con altri lavoratori a termine».

In conclusione, il Tribunale di Siena, al fine di supportare il proprio ragionamento e superare il limite insito nella interpretazione della giurisprudenza comunitaria – secondo cui la giustificazione delle ragioni del termine è prevista solo ai contratti successivi e non al primo e unico contratto – ha invocato in principio di non discriminazione tra lavoratori a termine e a tempo indeterminato, quale principio di immediata applicazione, con efficacia orizzontale e che riguarda tutte le condizioni del rapporto di lavoro. Ciò anche in una logica di «una parità di trattamento, non discriminatoria tra lavoratori che si alzano stanchi alla stessa ora, lavorano l’uno accanto all’altro nelle medesime mansioni, e alla stessa ora stanche se ne tornano a casa, facendo gli stesi passi, insomma lavoratori comparabili».

Afferma infine il giudice, trovando sostegno nel principio comunitario di necessaria giustificazione del recesso – il quale impone anche nel rapporto di lavoro «temporalmente precario una medesima sostanza economica, giudizialmente verificabile» ([36]) – che la scadenza del termine «non è nel mondo del diritto, un licenziamento, mentre vi si avvicina di molto, invece, nella sostanza delle cose. Ma non è un licenziamento, in quanto, e solo in quanto, sussista una oggettiva ragione giustificatrice della temporalità del rapporto, una sua naturale scadenza. Se quella cronaca annunciata, che colora macabramente la pur consensuale (molto vi sarebbe ovviamente da precisare su questo aggettivo) apposizione del termine a un rapporto di lavoro non è sorretta da una vicenda naturale, quale la cessazione della oggettiva ragione temporale giustificatrice, il fenomeno sostanziale collima con quello formale, in altre parole, la scadenza del termine, illegittimamente apposto, non è altro che un licenziamento programmato privo di giustificazione causale, arbitrario».

In relazione alla necessità che anche nel primo e unico contratto a tempo determinato ex art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368/01, siano specificatamente indicate le ragioni obiettive che legittimano l’apposizione del termine, si è espressa anche la Suprema Corte di Cassazione, la quale ha stabilito una serie di importanti princìpi sulla interpretzione della normativa sui contratti a termine chiarendo molti dei dubbi interpretativi sollevati dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito, tanto da essere definita quale «manifesto della disciplina del contratto a termine» ([37]).

La Corte di Cassazione nelle nota sentenza del 2008, ancora prima che sul punto si esprimesse il giudice europeo con la sentenza Angelidaki, ha infatti ritenuto che «non può condividersi la tesi, sostenuta da una parte della dottrina che, in base a una lettura incompleta della direttiva e della sentenza da ultimo citata (nonché della precedente sentenza Mangold, del 22 novembre 2005, in causa C-144/04), in sostanza, ritiene che il primo e unico contratto a tempo determinato, di per sé, sia estraneo all’oggetto della direttiva. Del resto non pare che possa dubitarsi, che mentre la clausola n. 5 riguarda espressamente le misure di prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, le altre clausole dell’Accordo quadro (n. 1 Obiettivo, n. 2 Campo d’applicazione, n. 3 Definizioni, n. 4 Principio di non discriminazione, n. 6 Informazioni e possibilità di impiego, n. 7 Informazione e consultazione, n. 8 Disposizioni di attuazione) riguardano chiaramente tutti i lavoratori a tempo determinato» ([38]).

 

— La disapplicazione dell’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368/01, per contrasto con la normativa comunitaria in ipotesi di successione dei contratti a-causali — Secondo un indirizzo giurisprudenziale, seppur la fattispecie legislativa prevista dall’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368 del 2001, preveda che le imprese concessionarie dei servizi postali possano effettuare assunzioni a termine senza l’onere di dover specificare le «ragioni obiettive», tale fattispecie acausale tuttavia non può certamente essere utilizzata per la stipulazione di contratti successivi al primo, per i quali è sempre necessario indicare le ragioni obiettive che giustificano il rinnovo degli stessi ([39]).

In tema di abusi derivanti dalla successione di contratti a termine, la Corte di Giustizia ha ritenuto che «la clausola 5, n. 1, lett. a, dell’Accordo quadro deve essere interpretata nel senso che essa si oppone a che una normativa nazionale […] venga applicata dalle autorità dello Stato membro interessato in un modo tale che il rinnovo dei contratti di lavoro a tempo determinato successivi […] sia considerato giustificato da ragioni obiettive ai sensi di tale clausola per la sola ragione che detti contratti sono fondati su disposizioni di legge che ne consentono il rinnovo per soddisfare talune esigenze provvisorie, mentre, in realtà, tali esigenze sono permanenti e durevoli» ([40]).

In relazione all’obiettivo perseguito dalla Direttiva comunitaria n. 1999/70/Ce nella prevenzione degli «abusi» derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a tempo determinato la Corte di Giustizia ha inoltre affermato che «il fatto di ammettere che una disposizione nazionale possa, di pieno diritto e senza altra precisazione, giustificare contratti di lavoro a tempo determinato successivi equivarrebbe a ignorare la finalità dell’Accordo quadro, che consiste nel proteggere i lavoratori dall’instabilità dell’impiego e a svuotare di contenuto il principio secondo il quale, contratti a tempo indeterminato costituiscono la forma generale dei rapporti di lavoro. Più in particolare, il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato sulla sola base di una disposizione legislativa o regolamentare di carattere generale, senza relazione con il contenuto concreto dell’attività considerata, non consente di stabilire criteri oggettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di siffatti contratti risponda effettivamente a un’esigenza reale, sia atto a raggiungere lo scopo perseguito e necessario a tale effetto […]. Di conseguenza la clausola 5, n. 1, lett. a, dell’Accordo quadro deve essere interpretata nel senso che essa osta all’utilizzazione dei contratti di lavoro a tempo determinato successivi che sia giustificata dalla sola circostanza di essere prevista da una disposizione legislativa o regolamentare generale di uno Stato membro» ([41]).

Precisa inoltre la Corte di Giustizia che «la nozione di ragioni obiettive ai sensi di detta clausola esige che il ricorso a questo tipo particolare di rapporti di lavoro quale previsto dalla normativa nazionale sia giustificato dall’esistenza di elementi concreti relativi in particolare all’attività di cui trattasi e alle condizioni del suo esercizio» ([42]).

Sul punto, si è espresso recentemente una delle decisioni in commento, in cui era stata sottoposta una fattispecie con una serie di contratti a termine acausali ([43]). Il Tribunale di Milano, pur non rinvenendo nelle disposizioni dell’art. 2, comma 1-bis, un abbassamento del livello generale di tutela e aderendo alla tesi della disciplina aggiuntiva, ha dichiarato la illegittimità del termine per violazione della clausola n. 5 dell’Accordo quadro, traendo forza nelle proprie argomentazioni decisorie proprio da quanto stabilito dalla Corte di Giustizia al punto 68 della sentenza Adelener in materia di prevenzione di abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti a termine, stante la mancanza nell’ordinamento nazionale di idonee misure atte a prevenire abusi, con la conseguenza della violazione della clausola di non regresso ([44]).

Infine, si riporta un passaggio significativo di una sentenza del Tribunale di Milano, nella quale si evidenzia che «l’Accordo quadro, come si è già visto, non impone la necessità di ragioni obiettive per giustificare il primo contratto a termine ma solo il rinnovo: si tratta di una delle tre misure che gli Stati membri devono adottare al fine di prevenire gli abusi nella reiterazione dei contratti a termine con il medesimo lavoratore. Il d.lgs. n. 368/2001 in quanto impone l’esistenza e l’indicazione di una ragione obiettiva per stipulare qualsiasi contratto a tempo determinato, sia il primo, sia i successivi, risulta quindi conforme alla normativa comunitaria […]. L’unica lettura dell’art. 2, comma 1-bis, in caso di successione dei contratti con lo stesso soggetto, che sottrae la norma dal contrasto con la direttiva è una lettura che la coordini con l’art. 1» ([45]).

 

— L’illegittima apposizione del termine ex art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368/01, per le svolgimento di attività non connesse al servizio universale postale — In merito alla interpretazione della norma acausale oggetto di commento, sono poi intervenute altre sentenze le quali, dopo aver effettuato una articolata disamina della citata disposizione, ponendola a confronto sia con i princìpi del diritto comunitario che con le determinazioni della Corte Costituzionale n. 214 del 2009, hanno invece ritenuto, a differenza dagli orientamenti fin qui citati, che non vi fosse alcuna violazione del cosiddetto diritto dell’Unione.

Tali decisioni si inseriscono nel dibattito giurisprudenziale formatosi intorno alla questione se il legislatore, introducendo l’art. 2, comma 1-bis, abbia previsto una «disciplina aggiuntiva» rispetto all’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 o, invece, «esclusiva/alternativa» rispetto a quella generale stabilita da tale ultimo articolo.

Tale problematica risulta di non secondaria importanza in quanto, nei contenziosi instaurati contro Poste Italiane, uno dei principali e preliminari motivi di doglianza riguarda proprio tale tematica, ove si sostiene appunto l’illegittimità della norma acausale poiché la stessa, essendo il frutto di una disciplina aggiuntiva rispetto all’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, sarebbe inevitabilmente in contrasto con le disposizioni ivi contenute, di derivazione comunitaria, che richiedono necessariamente la specificazione delle causali che giustificano l’apposizione del termine ([46]).

Il Tribunale di Roma, nelle sentenze in commento, come d’altronde è accaduto in altri precedenti della giurisprudenza di merito ([47]), ha aderito alla tesi della legittimità della disciplina acausale in quanto ipotesi «alternativa» e autonoma di apposizione del termine per favorire la flessibilità del settore Poste. Sul punto i giudici di merito hanno sostenuto che questa fosse l’unica interpretazione coerente con la ratio voluta dal legislatore che, come per il settore del trasporto aereo, ha introdotto una disciplina speciale e tipizzata di legittima apposizione del termine anche alle imprese concessionarie del settore postale.

Superato tale assunto preliminare, tali sentenze hanno poi affrontato anche la tematica dell’eventuale contrasto della norma acausale con i princìpi del diritto comunitario, e in particolare con quelli della Direttiva n. 1999/70/Ce, lì ove la stessa fosse stata interpretata come «disciplina alternativa» rispetto all’art. 1. In merito ritiene tale indirizzo giurisprudenziale, al contrario di quanto sostenuto nelle summenzionate sentenze di Trani e di Siena, che le clausole dell’Accordo quadro con valore precettivo siano solo quelle che indicano quale obiettivo il miglioramento della qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il principio di non discriminazione e la creazione di in sistema normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzazione di una successione di contratti a tempo determinato. Ritiene quindi tale orientamento che non vi sia «alcuna direttiva in ordine all’iniziale contratto a termine e tanto meno in ordine alla necessità della indicazione di una causale specifica a fronte dell’apposizione del termine». I giudici romani, a supporto di tale argomentazione, citano la clausola n. 3 dell’Accordo quadro che, anche se stabilisce quale condizione del contratto a termine la sussistenza di ragioni oggettive non richiederebbe, tuttavia, alcuna «indicazione specifica della causa giustificativa dell’apposizione del termine ma unicamente la sussistenza di una certa data requisito presente nell’art. 2 citato». Conseguentemente, secondo i giudici capitolini, l’Accordo quadro regolerebbe «unicamente gli abusi derivanti da una successione di contratti», ipotesi questa che troverebbe conforto anche nella clausola n. 5 di detto Accordo, nonché nella giurisprudenza della Corte di Giustizia (nelle sentenze Mangold e Adelener), che si riferisce a fattispecie inerente la successione di contratti ed «esclude la pertinenza del richiamo alla clausola n. 5 in relazione al primo contratto a termine…». I giudici romani poi, con motivazioni totalmente opposte a quelle del Tribunale di Siena e di Trani, ritengono che la norma acausale non violi neppure la clausola n. 8, punto 3, relativa al non regresso in quanto, e in tale assunto risiede la questione centrale che differenzia i due orientamenti sul punto, l’art. 2, comma 1-bis, non è stato emesso in applicazione dell’Accordo, visto che, essendo stato inserito dalla finanziaria del 2006, è entrato in vigore a 5 anni di distanza dal medesimo e, quindi, non risulta soggetto alle direttive ivi contenute.

Richiamando infine la citata sentenza Mangold, le sentenze del Tribunale di Roma sostengono che l’art. 2, comma 1-bis, non determini alcuna reformatio in peius della protezione offerta ai lavoratori nel settore dei contratti a termine, perché non vi è alcun collegamento funzionale tra tale norma acausale e l’applicazione dell’Accordo quadro.

Le sentenze dei giudici romani infine, proprio alla luce della decisione della Consulta sul punto, confermano la piena legittimità della previsione di una disciplina differenziata per le Poste Italiane, essendo la medesima concessionaria esclusiva del servizio postale nazionale e dovendo garantire la funzionalità, efficienza, e continuità di tale concessione.

Effettuata, in sintesi, la ricostruzione delle tesi della giurisprudenza romana sulla mancanza di un qualsiasi contrasto della norma acausale con il diritto comunitario e sulla piena legittimità di una disciplina differenziata per le società Poste Italiane, ove si sono enunciate argomentazioni giuridiche che si potrebbero definire come il «polo negativo» di quelle espresse dai giudici di Trani e Siena, occorre comprendere allora sulla base di quale assunto possano i giudici capitolini aver ritenuto non applicabile l’art. 2, comma 1-bis, alla fattispecie posta alla loro cognizione.

La questione risulta essere di notevole interesse in quanto, viste le premesse del ragionamento sopra esposto, la decisione sulla piena legittimità della clausola appositiva del termine sarebbe potuta apparire scontata. E invece, dopo tale complessa e articolata motivazione, i giudici di merito hanno dichiarato l’illegittimità della tipologia acausale, in quanto lavoratore è stato assunto da Poste Italiane per svolgere mansioni del tutto estranee dal cosiddetto servizio postale universale, ovvero compiti di tipo amministrativo relativi al servizio finanziario di Bancoposta (quali bonifici, versamenti, prelievi e saldi) e al servizio informazioni su visure catastali, camerali, certificati anagrafici, certificati di matrimonio e postpay.

Secondo i giudici di merito «la circostanza che la ricorrente non abbia svolto attività relativa al servizio postale implica che alla medesima non possa essere applicata la norma di cui all’art. 2, comma 1-bis, atteso che l’espressione utilizzata dalla disposizione di assunzione “effettuata da imprese concessionarie di servizi nel settore postale” deve essere intesa teleologicamente come riferita alla convenuta esclusivamente nel momento in cui esercita tale tipologia di attività e non all’impresa concessionaria in quanto tale, a prescindere dal tipo di attività diversa e collaterale che la medesima decida di svolgere».

A parere del Tribunale di Roma «la norma, infatti, ha scriminato in ragione della particolarità del servizio reso (quello postale appunto) e non in ragione della natura del soggetto che tale servizio aveva in concessione onde per cui estenderla a servizi diversi appare privo di logica e arbitrario. E che così sia è a oggi ancor più evidenziato dal fatto che Poste ha enormemente diversificato la propria attività arrivando a commercializzare all’interno dei propri uffici libri e altri articoli di varia natura. È evidente che se anche per tali attività commerciali, non aventi alcun rilievo pubblicistico, Poste potesse applicare la normativa invocata, si creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento con gli altri imprenditori esercenti analoghe attività di vendita che di tale benefico regime non potrebbero usufruire, così venendosi a realizzare di fatto un regime di concorrenza non paritaria legalizzata» ([48]).

Sul punto si evidenzia che tale orientamento non appare isolato in quanto, già prima dell’intervento della Corte Costituzionale, la giurisprudenza di merito romana e milanese ha escluso l’applicabilità della tipologia acausale all’assunzione di lavoratori non addetti ai cosiddetti servizi postali in senso stretto ([49]). Al riguardo, si segnala una sentenza del Tribunale di Milano, relativa a una fattispecie di un lavoratore assunto con una tipologia acausale per svolgere mansioni amministrative relative al rilascio dei permessi di soggiorno e alle notifiche delle sanzioni amministrative applicate dal comune per violazioni del codice della strada (e, dunque, assunzione effettuata per lo svolgimento di mansioni che esulano dalle attività relative al servizio postale), in cui il giudice ha ritenuto che «la particolarità della disposizione e le possibilità ivi contemplate a favore del datore di lavoro appaiono strettamente collegate all’espletamento da parte dello stesso di un servizio nei settori delle poste. In particolare, la eccezionalità della previsione rispetto alla generale normativa sul contratto a termine di cui al d.lgs. n. 368/01 rende impossibile ogni sua interpretazione estensiva volta ad ammetterne l’applicazione per attività non attinenti a un “servizio nei settori delle poste” per quanto possa essere stata – come nel caso – esercitata da impresa che normalmente sia dedita al servizio postale» ([50]). In merito, precisa ancora la summenzionata decisione meneghina, che le mansioni svolte dal lavoratore non rientrano nella «definizione di “servizio postale”» di cui al d.lgs. n. 261/99 che, all’art. 1 recita che si tratta dei «servizi che includono la raccolta, lo smistamento, il trasporto e la distribuzione degli invii postali […] pertanto, non rientrandosi nell’ambito di applicazione dell’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368/2001, il contratto a termine stipulato deve essere considerato alla luce dell’art. 1 dello stesso decreto delegato, cosicché, stante il difetto di una specifica indicazione nel testo negoziale di una causale giustificativa per l’apposizione di un limite di durata alla relazione tra le parti, in accoglimento del ricorso, deve, pertanto, essere dichiarata la nullità del termine finale apposto al contratto stipulato e, conseguentemente, che tra le parti intercorre un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato» ([51]).

Al riguardo, si richiama l’attenzione anche sull’altra decisione del Tribunale di Roma oggetto di nota che, al fine di giustificare la circostanza che la norma acausale può essere ritenuta legittima solo se utilizzata per attività attinenti al servizio postale in concessione, ha osservato che la stessa società Poste, in una sorta di interpretazione autentica, ha precisato con la Circolare del 11 aprile 2008 che la «cosiddetta causale finanziaria può essere utilizzata esclusivamente per la stipula di contratti a termine nei settori esclusivamente collegati al servizio postale, come tali intendendosi le attività di recapito e quelle di smistamento e logistica a esse più direttamente connesse».

Afferma quindi il Tribunale di Roma «considerato che la ricorrente è stata utilizzata in una funzione non direttamente riconducibile al servizio postale (sportelleria – Bancoposta) e che nel contratto individuale non è contenuta altra giustificazione causale, la clausola appositiva del termine finale non può che essere considerata illegittima» ([52]).

Sul punto sostiene, inoltre, il Tribunale di Roma che la Corte Costituzionale «ha fornito una interpretazione assolutamente univoca dell’espressione “servizi nei settori delle poste” contenuta nell’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368/2001, ricomprendendovi esclusivamente la raccolta, lo smistamento, il trasporto, la distribuzione degli invii postali, e in generale la realizzazione e l’esercizio della rete postale pubblica» ([53]).

In base a quanto stabilito dalle summenzionate sentenze si ricava il principio per cui l’estraneità delle mansioni svolte dal lavoratore, assunto da Poste Italiane con la tipologia contrattuale a termine acausale, rispetto alle attività connesse al servizio di recapito in senso stretto, determina l’illegittimità dell’instaurazione del rapporto di lavoro a tempo determinato.

 

— Le questioni pregiudiziali rimesse alla Corte di Giustizia delle Comunità europee — Per completezza espositiva deve evidenziarsi, come già anticipato nelle pagine precedenti, che il Tribunale di Trani, dopo aver, con sentenza del 16 novembre 2009, disapplicato la norma in oggetto, invece, a soli pochi giorni di distanza, per le medesime ragioni, con ordinanza del 23 novembre 2009 (entrambe comunque oggetto di commento), ha invece rimesso gli atti alla Corte di Giustizia delle Comunità europee, sospendendo così il giudizio. I due provvedimenti sono sostanzialmente identici nelle motivazioni adottate, con l’unica differenza che l’ordinanza, sulla base delle argomentazioni sopra riferite, ha chiesto al giudice comunitario di pronunciarsi sulle seguenti questioni pregiudiziali: a) se la clausola n. 8.3 dell’Accordo quadro osta a una disciplina interna che abbia introdotto nell’ordinamento interno una fattispecie acausale per l’assunzione a termine dei dipendenti di Poste Italiane; b) se per giustificare una reformatio in peius della precedente normativa in tema di contratto a termine e perché non operi il divieto della citata clausola n. 8.3 sia sufficiente da parte del legislatore nazionale il perseguimento di un qualsiasi obiettivo o invece sia necessario che tale obiettivo non solo sia meritevole di tutela ma sia anche espressamente «dichiarato»; c) se la clausola n. 3.1. dell’Accordo quadro osta a una disciplina interna che abbia introdotto nell’ordinamento interno una fattispecie acausale per l’assunzione a termine dei dipendenti di Poste Italiane; d) se il principio di non discriminazione e di uguaglianza comunitario osta a una disciplina interna che in attuazione della Direttiva n. 1999/70/Ce abbia introdotto nell’ordinamento interno una fattispecie acausale che penalizzi i dipendenti di Poste Italiane, nonché, rispetto a questa società, anche altre imprese dello stesso o di altro settore; e) se gli artt. 82, comma 1, e 86, commi 1 e 2, del Trattato Ce ostano a una disciplina interna che in attuazione della Direttiva n. 1999/70/Ce abbia introdotto nell’ordinamento interno una fattispecie acausale a beneficio della sola Poste Italiane realizzando così un’ipotesi di sfruttamento di posizione dominante; f) nel caso in cui tali questioni vengano risolte affermativamente, se il giudice nazionale sia tenuto a disapplicare (o a non applicare) la normativa interna contrastante con il diritto comunitario.

 

— Considerazioni conclusive — Alla luce dei princìpi fin qui esaminati, in conclusione, si può affermare sulla questione dei contratti a termine acausali che a oggi, sia il legislatore che la Corte Costituzionale, come sostenuto da una delle sentenze citate, hanno fatto «i conti senza l’oste» ([54]), in quanto volendo «normalizzare» una situazione che in realtà nasconde un notevole ricorso (e forse un abuso) della tipologia acausale per una determinata categoria di lavoratori, non hanno tenuto conto dell’inevitabile e indissolubile collegamento funzionale (o «intreccio» secondo quanto sostenuto dalla dottrina) ([55]) esistente tra la normativa comunitaria (Direttiva n. 1999/70/Ce e Accordo quadro), le sentenze interpretative della Corte di Giustizia e la normativa nazionale, nonché della fondamentale funzione interpretativa di cui è portatrice la giurisprudenza, la quale, nel solco della propria tradizione di diritto vivente e di tutela dei princìpi fondamentali, così come ha alzato «un fuoco di sbarramento» sulla incostituzionalità dell’art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, allo stesso modo, nei confronti dell’art. 2, comma 1-bis, a prescindere dal sigillo di legittimità conferito a tale norma dalla Consulta, non ha fatto altro che constatare e sostenere che il re, alla luce del diritto europeo e delle sentenze della Corte di Giustizia, in realtà era nudo.

Si può infine affermare, aderendo alle argomentazioni di altri commentatori e parafrasando la Corte Costituzionale, che la «flessibilità» voluta dal legislatore con l’art. 2, comma 1-bis, nonostante il giudizio della Corte Costituzionale, non appare a oggi poi così «sicura». Ciò in una duplice accezione del termine ove, il rischio di tale «insicurezza», non ricade più solo sul rapporto di tipo precario instaurato con i lavoratori, ma anche sulla stessa società Poste, che, paradossalmente, rischia di ottenere l’effetto contrario rispetto a quello per cui la norma era stata voluta (la riduzione del controversie in materia di contratti a termine), ovvero un aumento del contenzioso anziché una deflazione dello stesso, con notevoli ricadute dal punto di vista economico sul bilancio della società.

Di certo la questione sui contratti a termine è talmente complessa che è difficile intravedere nel breve periodo altri interventi legislativi che possano trovare una soluzione normativa sul punto; di sicuro, per il futuro, al fine di migliore la produttività (anche in base ai recenti studi della Banca d’Italia) e «calmierare» il contenzioso, sarebbe auspicabile per la società Poste Italiane più che una legge «salvacondotto», una politica di responsabilizzazione della dirigenza di tale società, come sostenuto anche da alcuni autori citati nel corso della presente nota ([56]), che punti a una migliore tipizzazione della organizzazione del lavoro nell’effettuare le assunzioni a tempo indeterminato secondo le attività che necessariamente debbano essere svolte.

([1])   Si veda con argomentazioni fortemente critiche: V. De Michele, La sentenza Houdinì della Corte Costituzionale sul contratto a tempo determinato, in Lav. giur., n. 10, pp. 1006 ss., nonché A. Androni, V. Angiolini, Lavoro a termine, processi pendenti e Corte Costituzionale, in q. Riv., n. 3, 2009, pp. 551 ss., S. Vacirca, La sentenza n. 214 del 2009 sul contratto a termine: i limiti di discrezionalità legislativa e l’interpretazione costituzionalmente necessaria di norma elastica, in q. Riv., n. 4, 2009, pp. 637 ss., L. Menghini, Direttive sociali e clausole di non regresso: il variabile ruolo del diritto comunitario nelle decisioni delle Corti Superiori, in q. Riv., n. 3, 2009, pp. 475 ss.

([2]) Si veda, in giurisprudenza, le sentenze in commento del Tribunale di Trani e di Siena.

([3]) In merito, si veda quanto argomentato da Trib. Siena, sentenza del 23 novembre 2009, Est. Cammarosano.

([4]) Si veda: Trib. Foggia 11 aprile 2007, Est. Colucci, in q. Riv., n. 1, pp. 155 ss., con nota di M. Lozito, La «disciplina aggiuntiva» del contratto a termine per il settore delle Poste e la Direttiva 1999/70/Ce: violazione della clausola di non regresso e potere del giudice italiano; nonché commentata anche in Riv. crit. dir. lav., n. 3, 728, con nota di M. Paulli, Il nuovo contratto a termine di Poste Italiane Spa; sul punto anche Trib. Milano 12 luglio 2007, Est. Frattin, nonché Trib. Roma 21 marzo 2008, Est. Grisanti, in Lav. giur., n. 8, 2008, pp. 810 ss., e infine Trib. Foggia 22 dicembre 2008, Est. Chiddo, in Lav. giur., n. 2, 2009, pp. 166 ss., con nota di C. de Martino, La giurisprudenza sull’art. 4-bis d.lgs. 368/2001: motivi diversi di un’unica illegittimità.

([5]) In merito si veda: Trib. Trani 16 novembre 2009, Est. La Notte Chirone, Trib. Siena 23 novembre 2009, Est. Cammarosano.

([6]) Trib. Milano 9 ottobre 2009, Est. Mascarello.

([7]) Trib. Roma 2 febbraio 2010, Est. Casari, nonché Trib. Roma 17 novembre 2009, Est. Baraschi e Trib. Roma 17 dicembre 2009, Est. Vetritto.

([8]) Trib. Trani, sentenza del 16 novembre 2009 e ordinanza del 23 novembre 2009, Est. La Notte Chirone.

([9]) Trib. Roma 2 febbraio 2010, Est. Casari, nonché Trib. Roma 17 novembre 2009, Est. Baraschi, e Trib. Roma 17 dicembre 2009, Est. Vetritto.

([10]) Corte di Giustizia, sentenza Mangold del 22 novembre 2005, causa C-144/04, in Lav. giur., 2006, n. 5, p. 459, con nota di P. Nodari.

([11]) Trib. Foggia 11 aprile 2008, Est. Colucci, nonché, in senso conforme, Trib. Milano 29 giugno 2007, Est. Martello, op. cit., pp. 155 ss.

([12]) Trib. Milano 9 ottobre 2009, Est. Mascarello.

([13]) In particolare, la clausola n. 8.3 dell’Accordo quadro recepito dalla Direttiva n. 1999/70/Ce (cosiddetta clausola di non regresso), il principio di non discriminazione tra lavoratore e termine e a tempo indeterminato, il principio di necessaria giustificazione del recesso.

([14]) In tal senso Trib. Trani, sentenza del 16 novembre 2009 e ordinanza del 23 novembre 2009, Est. La Notte Chirone e Trib. Siena 23 novembre 2009, Est. Cammarosano.

([15]) Oggetto della sentenza del Tribunale di Trani è un contratto in cui il lavoratore è stato assunto per svolgere le mansioni di sportelleria mentre oggetto della sentenza del Tribunale di Siena è un contratto in cui il lavoratore è stato assunto per svolgere le mansioni di portalettere.

([16]) Si veda in merito: Trib. Foggia 11 aprile 2007, Est. Colucci, op. cit., nonché Trib. Roma 21 marzo 2008, Est. Grisanti, op. cit. Secondo tale orientamento giurisprudenziale l’articolo 2, comma 1-bis, costituisce l’ennesimo strumento di tutela nei confronti di Poste Italiane, che avrebbe dovuto, quantomeno, contenere un requisito minimo di ragionevolezza e razionalità. Tale norma acausale non risponde affatto a tali presupposti in quanto, da un lato, il periodo aprile/ottobre non rappresenta certamente per Poste Italiane un momento di maggior intensità/utilizzo dei servizi postali, con la conseguenza che a una maggiore domanda della clientela deve corrispondere una adeguata risposta dell’impresa, dall’altro, non si ravvede per il settore postale l’esistenza di un peculiare carattere di stagionalità che possa giustificare la previsione di una disciplina derogatoria, tantomeno per 10 mesi su 12.

([17]) In merito si veda Trib. Milano 5 giugno 2007, Est. Frattin, secondo cui «in nessun modo è consentito agli Stati esonerare dal rispetto del principio della forma generale a tempo indeterminato del rapporto di lavoro un singolo soggetto imprenditoriale senza neppure alcuna limitazione relativa al tipo di attività o servizi svolti».

([18]) L. Menghini, Direttive sociali e clausole di non regresso: il variabile ruolo del diritto comunitario nelle decisioni delle Corti Superiori, op. cit., p. 484.

([19]) Sull’interpretazione critica di coloro che ritengono l’inesistenza di limiti sul primo contratto a termine in base alla interpretazione delle sentenze Mangold e Adeneler si veda L. Menghini, Direttive sociali e clausole di non regresso: il variabile ruolo del diritto comunitario nelle decisioni delle Corti Superiori, op. ult. cit., p. 484, il quale sostiene che laddove la Corte di Giustizia afferma che l’Accordo quadro non stabilirebbe condizioni precise in presenza delle quali si può far uso del contratto a tempo indeterminato non può desumersi la conseguenza della inesistenza di limiti alla stipulazione del primo contratto a termine in quanto nella «sentenza Mangold il giudice a quo aveva sottoposto alla Corte una questione relativa all’interpretazione della clausola n. 5 dell’Accordo chiedendole se rispetto alla detta clausola ostava o no una normativa nazionale che non conteneva alcune delle restrizioni previste dalla stessa clausola. La Corte sul punto, dopo aver ribadito che in tale giudizio si discuteva su un unico contratto a termine e che la clausola 5 concerne una serie di contratti, ha affermato che l’interpretazione della clausola n. 5 non era pertinente (cioè rilevante ai fini della risoluzione della controversia per la quale era dita la Corte e quindi ha ritenuto di non risolvere detta questione. In tal modo la Corte europea si è ben guardata da sostenere che il primo e unico contratto a termine rimane fuori dalle prescrizioni della direttiva, limitandosi a chiarire che la suddetta clausola rileva solo in caso di una pluralità di contratti. Non basta. Il primo contratto a tempo determinato non è libero perché può trovare limiti in norme comunitarie diverse da quelle in cui alla direttiva di cui si discute».

([20]) Art. 1, legge n. 230/62; art. 23, legge n. 56 del 28 febbraio 1987; d.lgs. n. 368 del 2001; Direttiva n. 1999/70/Ce del 28 giugno 2009; Accordo quadro.

([21]) Corte Costituzionale, sentenza n. 41 del 2000, Corte Costituzionale, sentenza n. 44 del 2008, Corte Costituzionale, sentenza n. 214 del 2009, Corte di Cassazione, sentenza 21 maggio 2008, n. 12985.

([22]) S. Vacirca, La sentenza n. 214 del 2009 sul contratto a termine: i limiti di discrezionalità legislativa e l’interpretazione costituzionalmente necessaria di norma elastica, op. cit., p. 645.

([23]) Le argomentazioni sui si prenderà posizione riguardano la sentenza del 16 novembre 2009 sia l’ordinanza del 23 novembre 2009, del Tribunale di Trani, Est. La Notte Chitone, anche se per esigenze di spazio, con la presente nota verrà pubblicata solo l’ordinanza del 23 novembre 2009.

([24]) Corte di Giustizia, sentenza 23 aprile 2009, causa C-378/07, Angelidaki, paragrafo 130, in Lav. giur., 5, 2009, pp. 437 ss., con nota di M. Miscione, La Corte di Giustizia sul contratto a termine e la clausola di non regresso.

([25]) Corte di Giustizia, sentenza 22 novembre 2005, Mangold, punto 51, paragrafo 131, op. cit.

([26]) Corte di Giustizia, sentenza 23 aprile 2009, causa C-378/07, Angelidaki, paragrafo 131, op. cit.

([27]) Il Tribunale di Trani, a supporto di tale argomentazione, riporta nella motivazione i dati contenuti nei documenti depositati da Poste Italiane dai quali risulta che la stessa al 1° gennaio 2006 avrebbe avuto nel suo organico 147.412, dipendenti a tempo determinato e avrebbe assunto, solo in quell’anno, ai sensi dell’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368/01, ben 20.608 lavoratori a tempo determinato.

([28]) A. Androni, V. Angiolini, Lavoro a termine, processi pendenti e Corte Costituzionale, in q. Riv., n. 3, 2009, p. 564, affermando ancora sul punto che il lavoro a termine ha un costo pari a quello a tempo indeterminato per unità di tempo effettivo e che, conseguentemente, anche in considerazione degli studi effettuati dalla Banca d’Italia sul tema – dai quali emerge che il ricorso ai contratti di lavoro temporaneo risulta dannoso per la produttività – sarebbe più opportuno una soluzione «a monte della organizzazione del lavoro e non a valle» responsabilizzando l’Ente Poste «nella ricerca di soluzioni a regime che diano risposte funzionali senza introdurre discriminazioni tra i lavoratori».

([29]) L. Menghini, Direttive sociali e clausole di non regresso: il variabile ruolo del diritto comunitario nelle decisioni delle Corti Superiori, op. cit., pp. 491 e 492.

([30]) S. Vacirca, La sentenza n. 214 del 2009 sul contratto a termine: i limiti di discrezionalità legislativa e l’interpretazione costituzionalmente necessaria di norma elastica, op. cit., p. 645.

([31]) Il Tribunale di Siena, come peraltro quello di Trani, effettua sul punto una ricostruzione analitica della normativa di riferimento e delle sentenze che, nel tempo, hanno tracciato il solco del principio per cui l’apposizione del termine al rapporto di lavoro sia causalmente riconducibile a «condizioni oggettive», come espressamente previsto dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 41/2000, dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 7648 del 2002 che, peraltro, ha rappresentato la prima pronuncia sulla riforma del lavoro a termine ex d.lgs. n. 368/01 e, da ultimo, la sentenza della Corte di Cassazione n. 12985 del 2008.

([32]) Corte di Giustizia, sentenza 23 aprile 2009, causa C-378/07, Angelidaki, paragrafo 92, op. cit., e, conforme sul punto, Corte di Giustizia, sentenza Adeneler, punto 67, e ordinanza Corte di Giustizia Vassilakis, punto 86.

([33]) Corte di Giustizia, sentenza Adeneler, punto 61, Corte di Giustizia, sentenza Impact, punto 87, e ordinanza Corte di Giustizia Vassilakis, punto 83.

([34]) Corte di Giustizia, sentenza Adeneler, punto 74, Corte di Giustizia, sentenza De Cerro Alonso, punto 55, e ordinanza Corte di Giustizia Vassilakis, punto 93.

([35]) Clausola che verte invece esclusivamente sulla prevenzione dell’utilizzo abusivo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato successivi, visto che le ragioni obiettive enunciate al n. 1, lett. a, di tale clausola vertono unicamente sul rinnovo di detti contratti o rapporti.

([36]) In merito al principio di necessaria giustificazione causale del recesso, il Tribunale di Siena richiama l’art. 30 della Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in occasione del Consiglio di Nizza del 07 dicembre 2000), quale diritto sociale trasfuso nell’art. 90 del Trattato, che afferma «ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali».

([37]) La definizione è di A. M. Perrino, nella relazione al Convegno su Flessibilità e stabilità nella crisi globale: la parabola dei contratti a termine, 4 giugno 2009, Facoltà di Giurisprudenza, Università Federico II, Napoli. Sul ruolo fondamentale di tale per aver tracciato il quadro interpretativo della riforma del 2001 si veda anche V. De Michele, La sentenza Houdinì della Corte Costituzionale sul contratto a tempo determinato, op. cit., pp. 1011 ss., nonché L. Menghini, Direttive sociali e clausole di non regresso: il variabile ruolo del diritto comunitario nelle decisioni delle Corti Superiori, op. cit., p. 488.

([38]) Corte di Cassazione, sentenza 21 maggio 2008, n. 12985, Est. Nobile, in Lav. giur., n. 9/2008, pp. 903 ss., con nota di V. De Michele. In senso conforme, si veda anche Corte d’Appello di Roma del 20 settembre 2007, Est. Dott. Bronzini, a quanto consta non pubblicata, che si segnala per la completezza della ricostruzione giuridica tra normativa comunitaria e nazionale.

([39]) Sul punto si veda Trib. Roma 15 gennaio 2008, Est. Mimmo, in Lav. giur., n. 8, 2008, pp. 810 ss.; di identico tenore, Trib. Roma 18 novembre 2008, Est. Luna, inedita.

([40]) Corte di Giustizia, sentenza 23 aprile 2009, causa C-378/07, Angelidaki, op. cit.

([41]) Corte di Giustizia, Grande Sezione, sentenza 04 luglio 2006, causa C-212/04, Adeneler.

([42]) Corte di Giustizia, Grande Sezione, sentenza 04 luglio 2006, causa C-212/04, Adeneler. In senso conforme, si veda Corte di Giustizia, sentenza 23 aprile 2009, causa C-378/07, Angelidaki, op. cit.

([43]) Trib. Milano 9 ottobre 2009, Est. Mascarello.

([44]) Tale interpretazione è stata peraltro condivisa anche da altre decisioni del Tribunale di Roma; sul punto si veda Trib. Roma 28 maggio 2009, Est. Boghetich, non pubblicata, secondo cui, sempre in relazione alla fattispecie di cui l’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368/2001, «i contratti così stipulati sono soggetti tanto alle formalità previste dai commi 2 e 3 dell’art. 1 quanto alla disciplina sulla proroga e sulla successione dei contratti (artt. 4 e 5) quanto al principio di non discriminazione (art. 6) e in genere a tutte le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 368 del 2001» nonché Trib. Roma 10 settembre 2009, Est. Bajardi, non pubblicata, per cui l’obbligo gravante sugli Stati membri in relazione a quanto stabilito dalla clausola 5, punto 1, della Direttiva comunitaria n. 99/70/Ce consente di «prevenire la carenza di ragioni obiettive all’utilizzo di più contratti a termine in successione». Del medesimo tenore, si veda anche altra decisione del Tribunale di Roma del 15 gennaio 2008, Est. Mimmo, op. cit., nella quale si evince che «considerate le finalità della direttiva comunitaria, quali il rispetto del principio di non discriminazione e la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a termine, l’indicazione di ragioni obiettive giustificatrici dell’assunzione a termine si configura necessaria nel caso di rinnovo del contratto a termine». In senso conforme, si veda Trib. Roma 13 novembre 2008, Est. Luna, non pubblicata, secondo cui «l’accordo e la direttiva non pongono vincoli causali all’iniziale contratto a termine bensì solo al suo rinnovo, affermazione in linea con lo scopo della direttiva che è quello di garantire il rispetto del principio di non discriminazione e di prevenire abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a tempo determinato».

([45]) Trib. Milano 13 dicembre 2007, Est. Porcelli, pubblicata in Riv. crit. dir. lav., n. 1, 1008, pp. 160 ss. In senso conforme anche Trib. Milano 13 febbraio 2008 e del 4 marzo 2008.

([46]) Per quanto riguarda l’orientamento sulla disciplina aggiuntiva dell’art. 2, comma 1-bis, si veda Trib. Milano 29 giugno 2007, Est. Martello, op. cit., pp. 155 ss.

([47]) In merito all’interpretazione di una disciplina esclusiva in favore del settore postale si veda Corte d’Appello di Torino, sentenza 11 ottobre 2007, in Riv. crit. dir. lav., 1/2008, pp. 159 ss., nonché, in senso conforme, Trib. Roma 15 gennaio 2008, Est. Mimmo, in Lav. giur., n. 8, 2008, pp. 810 ss.; di identico tenore, Trib. Roma 18 novembre 2008, Est. Luna.

([48]) Trib. Roma 2 febbraio 2010, Est. Casari. In senso conforme si veda anche Trib. Roma 17 dicembre 2009, Est. Vetritto, nonché Trib. Trani 16 e 23 novembre 2009, Est. La Notte Chirone, a quanto consta non pubblicata.

([49]) In tal senso si veda Trib. Roma 15 gennaio 2008, Est. Mimmo, op. cit., secondo cui «con l’introduzione dell’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368/2001, il legislatore non ha liberalizzato la stipulazione di contratti a termine da parte delle imprese concessionarie di servizi postali, avendo previsto specifici limiti temporali e quantitativi, ed essendo applicabile la norma non in relazione alla generalità delle attività espletate da Poste, ma solo in relazione alle attività rientranti nella concessione del servizio postale, con l’esclusione di tutte le altre attività non a essa connesse (servizi amministrativi, bancari ecc.). Ne deriva, pertanto, un sistema che, seppure caratterizzato da maglie certamente ampie, risulta delimitato nella sua oggettività»; nonché Trib. Roma 28 maggio 2009, Est. Boghetich, non pubblicata, la quale sostiene che «la norma non risulta applicabile […] alla generalità delle attività espletate dalla società convenuta, ma esclusivamente in relazione alle attività rientranti nella concessione del servizio postale, con l’esclusione, pertanto, di tutte le altre attività non a essa connesse (per esempio, servizi amministrativi, servizi bancari ecc. per i quali la società convenuta non potrà certamente stipulare contratti a termine ai sensi dell’art. 2, comma 1-bis, ma lo potrà fare esclusivamente qualora ricorrano i criteri ordinari di cui all’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001». Di identico tenore, Trib. Roma 18 novembre 2008, Est. Luna, inedita.

([50]) Trib. Milano 23 aprile 2008, Est. Dott. Casella, in Riv. crit. dir. lav., n. 3, luglio/settembre 2008, pp. 944 ss., con nota di Barbara Fezzi, In attesa della Corte Costituzionale, vacilla il contratto «acausale» per i dipendenti Poste Italiane.

([51]) Trib. Milano 23 aprile 2008, Est. Dott. Casella, op. cit.

([52]) Trib. Roma 17 novembre 2009, Est. Baraschi.

([53]) Trib. Roma 24 settembre 2009, Est. Buconi, inedita.

([54]) La definizione è del Tribunale di Milano, sentenza del 5 giugno 2007, Est. Frattin, cit.

([55]) L. Menghini, on Direttive sociali e clausole di non regresso: il variabile ruolo del diritto comunitario nelle decisioni delle Corti Superiori, op. cit., p. 489.

([56]) A. Androni, V. Angiolini, Lavoro a termine, processi pendenti e Corte Costituzionale, op. cit., p. 564.

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