Il mobbing e l'onere della prova: fattispecie a formazione complessa

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Rivista Giuridica del Lavoro n.4/2006

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CASSAZIONE, SEZ. LAV., 25 maggio 2006, n. 12445,  Pres. Ciciretti -  Rel. De Luca – M. M. (avv. Rodolfo Brognieri) c/  A.N.M.I.L. - ASSOCIAZIONE NAZIONALE MUTILATI ED INVALIDI DEL LAVORO (avv. Angelo Alberto Martorano ).

Lavoro subordinato – comportamenti vessatori – dimissioni per giusta causa – responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell'obbligo di  sicurezza – natura contrattuale – misure di prevenzione nominate ed innominate - ripartizione dell’onere della prova – prova liberatoria - risarcimento danni da mobbing – sussistenza.

Nell’ipotesi dell’accertamento di fatti mobbizzanti che hanno determinato al prestatore di lavoro delle rilevanti conseguenze sul piano morale e psico-fisico, la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. ha natura contrattuale e lo stesso non assolve l’onere della prova liberatoria posta a suo carico se invece di dimostrare di aver adottato misure idonee a prevenire il dedotto evento dannoso si limita a dedurre iniziative volte alla repressione e non già alla prevenzione di comportamenti di tipo vessatorio (1) (Massima non ufficiale)

 

Svolgimento del processo.

Con la sentenza ora denunciata, il Tribunale di Potenza confermava la (sentenza del Pretore della stessa sede, che -pronunciando sulla domanda, proposta da  - M.M. - contro l'Associazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro (ANMIL) - sezione provinciale di Potenza, della quale era  stata dipendente fino alle proprie dimissioni per giusta causa, e diretta ad ottenere il risarcimento dei danni (patrimoniali, psicologici e morali) subiti in dipendenza del "comportamento vessatorio tenuto nei suoi confronti dal Presidente dell'Associazione, P.A.” - aveva, bensì, riconosciuto il diritto della lavoratrice alla indennità sostitutiva del preavviso, in dipendenza delle dimissioni per giusta causa, mentre aveva rigettato le altre domande - dirette ad ottenere il risarcimento dei danni -essenzialmente, in base ai rilievi  seguenti:

la violazione della disposizione - correttamente invocata dalla lavoratrice, in quanto idonea a tutelare la propria personalità morale ed integrità psico-fisica (art. 2087 c.c.) - è fonte di responsabilità contrattuale, in relazione alla quale la prova liberatoria, a carico del datare di lavoro, risulta particolarmente rigorosa, dovendo dimostrare di "avere fatto tutto il possibile per evitare l'evento dannoso"; ora i fatti mobbizzanti, posti in essere dal - P. - “hanno prodotto (alla lavoratrice) delle rilevanti conseguenze sul piano morale e psico-fisico"; tuttavia, “ come congruamente argomentato dal giudice di prime cure, detti fatti sono ascrivibili alla persona fisica - - dimodoché non è ravvisabile in capo all'Associazione una diretta ed immediata responsabilità" ; infatti non è possibile "colpevolizzare" l'associazione - in base al criterio che il datore di lavoro "è tenuto a predisporre tutti i mezzi e ad adottare tutte le cautele richieste in generale dalla norma e da identificarsi in concreto, caso per caso, in base al criterio della diligenza, prudenza e perizia"- in quanto gli interventi della sede centrale della Associazione - che (previa audizione della lavoratrice alle date del 22 febbraio, 7 e 23 maggio 1990) ha deferito il - - al collegio dei probiviri -sono "da considerarsi tempestivi e, soprattutto, esaustivi degli obblighi contrattuali e dei doveri giuridici posti 8 carico del da/ore di lavoro a tutela del lavoratore" (infatti non risulta provato che la lavoratrice abbia informato, sin dal settembre 1989, la sede centrale dell'Associazione, nel difetto di qualsiasi timbro od altro elemento atto a dimostrare la data di spedizione del documento prodotto con l'indicazione "missiva della - M.M. - del settembre1989").

Avverso la sentenza d'appello, -  .M.M. - propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi ed illustrato da memoria.

L'intimata l'Associazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro (ANMIL) - sezione provinciale di Potenza resiste con contro ricorso.

Motivi della decisione.

1.Con il primo motivo di ricorso - denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 1228, 2087, 2104, secondo comma, 2118, 2119, 2909 c.c., 2, 15, 32 , 35 Cost, 4, 9 legge 20 maggio 1970, n.300) nonché vizio di motivazione (art. 360, n.3 e 5, c.p.c.) - M.M. censura la sentenza impugnata - per averle negato il risarcimento dei danni subiti, in dipendenza delle vessazioni del Presidente dell' Associazione dalla quale dipendeva (Associazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro - ANMIL -sezione provinciale di Potenza) – sebbene  inducessero ad opposta decisione, tra l'altro, le circostanze e le considerazioni seguenti:

il riconoscimento della natura contrattuale della dedotta responsabilità (per violazione dell'art. 2087) e del nesso di causalità - tra il comportamento del Presidente dell'associazione ed i danni (alla personalità morale ed all'integrità fisio-psichia) - nonché l'assenza della prova liberatoria -a carico del datare di lavoro - di avere adempiuto i propri obblighi di tutela (della personalità morale, appunto e della integrità fisio-psichia) del lavoratore, non potendosi considerare tali eventuali provvedimenti di repressione dei comportamenti illeciti dell'autore delle vessazioni; comunque la responsabilità per fatto del terzo (art, 1228 c,c,) è "una forma di responsabilità obiettiva, indipendente, cioè, dalla colpa del soggetto responsabile "; peraltro la colpa del datore di lavoro risulta accertata -con autorità di giudicato -dalla sentenza di primo grado, laddove riconosce il diritto dell'attuale ricorrente alla indennità sostitutiva del preavviso –che suppone, appunto, la colpa del datore di lavoro - in dipendenza delle dimissioni per giusta causa.

Con il secondo motivo -denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2087, 2697 c.c.), nonché vizio di motivazione (art. 360, n.3 e 5, c.p.c.) - la ricorrente censura la sentenza impugnata - per averle negato il risarcimento dei danni subiti, in dipendenza delle vessazioni del Presidente dell'Associazione dalla quale dipendeva (Associazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro ANMIL -sezione provinciale di Potenza) - sebbene sia "pacifico che nessun controllo sia stato posto in essere" dall'Associazione, che - intervenuta a seguito di segnalazione della stessa lavoratrice - si è limitata al deferimento del responsabile delle vessazioni al collegio dei probiviri, mentre non ne risulta neanche la sospensione.

Il ricorso è fondato.

Invero il diritto al risarcimento é subordinato alla sussistenza dei presupposti rispettivi - almeno in parte diversi - della responsabilità civile, contrattuale oppure extra contrattuale (vedi, per tutte,. Cass. n. 16250, 2357/2003, 15133, 1114/2002).

Infatti la colpa risulta, bensì, essenziale per qualsiasi tipo di responsabilità civile, ma - solo per quella contrattuale - vige il regime particolare (previsto dall'art. 1218 c.c..) per la ripartizione dell'onere probatorio (vedi, per tutte ., Gasso n. 16250/2003, 15133/02, 12763/98).

Ne risulta, infatti, stabilita -in deroga ai principi generali nella stessa materia (di cui all'art. 2697 c.c.), applicabili invece ad ogni altro tipo di responsabilità - la presunzione legale di colpa, appunto, a carico del (debitore inadempiente) responsabile del danno da risarcire (vedi, per tutte, Cass. n. 16250, 2357/2003, 15133/02, cit., 3162/2002, 602/2000, 9247, 7792/98, 4078/95).

Di conseguenza, risulta dispensato dall'onere probatorio relativo - proprio il creditore danneggiato, che -in quanto agisce per il risarcimento - ne sarebbe gravato in base ai principi generali in materia (di cui all'art. 2697 c.c.).

Ora ha natura contrattuale -ad avviso della giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 15133/02, cit., 9385/2001, 291/1999 delle sezioni unite e n. 16250, 2357/2003, 4129, 3162/2002, 14469, 5491. 1307,602/2000, 779211999, 12763, 9247, 3367/1988 della sezione lavoro) - la responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell'obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.), che gli impone l'adozione delle misure – di sicurezza e prevenzione, appunto - che, "secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".

D'altro canto, nessun dubbio può sussistere sulla prospettata qualificazione giuridica della stessa responsabilità -di natura contrattuale, appunto - ove si consideri, da un lato, che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato - per legge (ai sensi dell'art. 1374 c.c.) -dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c., cit., appunto) e, dall'altro, che la responsabilità contrattuale é configurabile tutte le volte che risulti fondata sull'inadempimento di un'obbligazione giuridica preesistente, comunque assunta dal danneggiante nei confronti del danneggiato.

4.Dalla prospettata natura contrattuale della responsabilità, la stessa giurisprudenza ricava, per quel che qui interessa, significative implicazioni sul piano della distribuzione degli oneri probatori relativi.

Come é già stato anticipato, infatti, la presunzione legale di colpa –stabilita (dall'art. 1218 c.c., cit.) a carico del datore di lavoro inadempiente all'obbligo di sicurezza (di cui all'art. 2087, cit.) -deroga, parzialmente, il principio generale (art. 2697 c.c.), che impone - a "chi vuoI fare valere un diritto in

giudizio" - l'onere di provare i "fatti che ne costituiscono il fondamento".

Non ne risulta, tuttavia, una ipotesi di responsabilità oggettiva, né la dispensa, da qualsiasi onere probatorio, del lavoratore danneggiato.

Questi, infatti, resta gravato -in forza del ricordato principio generale (art. 2697 C.c., cit., appunto) - dell'onere di provare il "fatto" costituente inadempimento dell'obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre esula - dall'onere probatorio a carico del lavoratore -in deroga, appunto, allo stesso principio generale - la prova della colpa del datore di lavoro danneggiante,  sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento (come ad ogni altro rimedio contro il medesimo inadempimento).

E' lo stesso datore di lavoro, infatti, ad essere gravato (ai sensi dell'art. 1218 c.c.) -quale "debitore", in relazione all'obbligo di sicurezza, appunto - dell'onere di provare la non imputabilità dell'inadempimento.

In altri termini, la prova sull'imputazione materiale e su quella psicologica del danno (secondo una classica bipartizione dottrinaria) -anziché essere concentrata sul lavoratore (come, in genere, sul creditore) danneggiato, che agisca per ottenere il risarcimento -risulta ripartita, in ipotesi di responsabilità contrattuale appunto, tra lo stesso lavoratore (ed, in genere, creditore) e, rispettivamente, il datore di lavoro (ed, in genere, il debitore).

5.Affatto diverso risulta, tuttavia,  (anche) il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza - asseritamente omesse -, siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte parimenti vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici (quali le misure previste dal decreto legislativo n. 626 del 1994 e successive integrazioni e modifiche, come dal precedente DPR 27 aprile 1955, n.547), oppure debbano essere ricavate dalla stessa disposizione (art. 2087 c.c., cit.) che impone l'obbligo di sicurezza.

Nel primo caso -di misure di sicurezza (o prevenzione), per così dire, nominate - il lavoratore ha l'onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa - cioè il rischio specifico, che s'intende prevenire o contenere - nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l'inosservanza della misura ed il danno subito.

La prova liberatoria a carico del datore di lavoro, poi, parimenti si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore: negazione, cioè, dell'obbligo o, comunque, dell'inadempimento -in relazione a quella stessa - misura di sicurezza (o di prevenzione) -nonché del nesso di causalità tra inadempimento e danno.

E' da escludersi, invece, che possa risultare parimenti liberatoria la prova della "impossibilità sopravvenuta" della prestazione di sicurezza -che sia stata omessa - risolvendosi la prestazione stessa, almeno di regola nella messa a disposizione di beni generici, per i quali non é configurabile, appunto, l'istituto dell'impossibilità sopravvenuta.

Nel secondo caso - di misure di sicurezza (o prevenzione), per così dire, innominate -fermo restando l'onere probatorio a carico del lavoratore, la prova liberatoria, a carico del datore di lavoro, risulta invece variamente definita in relazione alla quantificazione della diligenza (ritenuta) esigibile - nella predisposizione di quelle misure di sicurezza - e perciò registra, anche in giurisprudenza, significative oscillazioni -che non rilevano, tuttavia, per la decisione della presente controversia - tra l'imposizione al datore di lavoro dell'onere di provare l'adozione di ogni misura idonea ad evitare l'infortunio dedotto in giudizio (vedi, per tutte, Cass. n. 9401/95) oppure soltanto l'adozione di comportamenti specifici, non imposti dalla legge (o da altra fonte di diritto parimenti vincolante), ma suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, standard di sicurezza adottati normalmente o da altre fonti analoghe (vedi, per tutte, Corte costo n. 312/96, Cass. n. 16250/2003, 3740/95).

6.Il datore di lavoro, poi, é responsabile dei danni subiti dal proprio dipendente. non solo quando ometta di adottare idonee misure protettive, ma anche quando ometta di controllare e vigilare che di tali misure sia fatto effettivamente uso (anche) da parte dello stesso dipendente, con la conseguenza che - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per  tutte, le sentenze n. 16250, 2357/2003, 15133/02, cit., 9304, 9016, 5024, 326/02, 7052/01, 13690/00, 6000/98, 4227/92) - si può configurare un esonero totale di responsabilità per il datore di lavoro appunto, solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell'abnormità e dell'assoluta imprevedibilità (sullo specifico punto, vedi, per tutte, Cass.13690/2000, 326/2002, cit.).

Alla luce dei principi di diritto enunciati, la sentenza impugnata merita le censure - che le vengono mosse dalla ricorrente -non solo per violazione  dei principi di diritto enunciati, ma anche sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).

Invero la denuncia di un vizio di motivazione in fatto, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell'al1.360, n.5, c.p.c.) - vizio nel quale si traduce anche la mancata ammissione di un mezzo istruttorio (vedi, per tutte, Cass. n.13730, 9290/2004), nonché l'omessa od erronea valutazione di alcune risultanze probatorie (vedi, per tutte, Gass. n. 3004/2004, 3284/2003) - non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico -formale, le argomentazioni -svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento -con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere -secondo l'orientamento (ora) consolidato della giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n.13045/97 delle sezioni unite e n. 8153, 7936, 7745, 4017, 3452, 3333, 236/2005, 24219, 23411, 22838, 22751, 21826, 21377, 20272, 19306/2004, 16213, 16063, 11936, 11918, 7635, 6753, 5595/2003, 3161/2002, 4667/2001, 14858, 9716, 4916/2000, 8383/99 delle sezioni semplici) - dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, ,siano attribuIti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti, né, comunque, una diversa valutazione dei medesimi fatti.

In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto -consentito al giudice di legittimità (dall'art. 360 n. 5 c.p.c.) - non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione

del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità.

Pertanto, al giudice di legittimità non compete il potere di adottare una propria motivazione in fatto (arg. ex art. 384, 20 comma, c.p.c.) né, quindi, di scegliere la motivazione più convincente -tra quelle astrattamente configurabili e, segnatamente, tra la motivazione della sentenza impugnata e   quella prospettata dal ricorrente -ma deve limitarsi a verificare se –nella motivazione in fatto della sentenza impugnata, appunto -siano stati dal ricorrente denunciati specificamente -ed esistano effettivamente -vizi che per quanto si é detto, siano deducibili in sede di legittimità.

Tuttavia la motivazione in fatto della sentenza d'appello - che confermi, come nella specie, la sentenza di primo grado -può risultare -secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 7182/97, 132/96, 12035/95) - dalla integrazione della parte motiva delle due sentenze.

Coerentemente, deve essere denunciato e verificato -in relazione alla prospettata integrazione della parte motiva delle sentenze di primo e di secondo grado -il vizio di motivazione in fatto (art. 369, n. 5, c.p.c.).

Alla luce dei principi di diritto enunciati,  la sentenza impugnata -come è stato anticipato - merita le censure -che le vengono mosse dalla ricorrente - anche sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360. n. 5, c.p.c.).

Infatti la sentenza impugnata -come é stato ricordato in narrativa -ha, tra l'altro, accertato che "i fatti mobbizzanti, posti in essere dal P. hanno prodotto (alla lavoratrice) delle rilevanti conseguenze sul piano morale e psico-fisico”.

E tale accertamento di fatto - che conferma, (anche) sul punto, la sentenza di primo grado, disattendendo la domanda in senso contrario, riproposta in appello dall'attuale resistente (ai sensi dell'art. 346 c.p.c.) - ha acquistato autorità di giudicato, non risultando investito da ricorso incidentale della stessa resistente (in tal senso, vedi, per tutte, Cass. n. 3261, 100/2003, 14075, 5357/2002).

Coerente con la giurisprudenza di questa Corte (vedine le sentenze n.8438/2004 delle sezioni unite, 6326/2005 della sezione lavoro) risulta, poi, la qualificazione come contrattuale -che la sentenza impugnata propone - della dedotta responsabilità del datore di lavoro (ed attuale resistente) per danno da mobbing, derivante da inadempimento dell'obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.).

Né lo stesso datare di lavoro (ed attuale resistente) assolve l'onere della prova liberatoria -che, per quanto si è detto, è posto a suo carico – in quanto, lungi dall'allegare (e, tantomeno, dal dimostrare) l'adozione di una qualsiasi misura idonea a prevenire il dedotto evento dannoso, si limita alla  deduzione  di una propria iniziativa (quale il deferimento, al collegio dei  probiviri, del responsabIle dei "fatti mobbizzanti"), volta alla repressione - non già alla prevenzione -degli stessi "fatti mobbizzanti”, che -come è stato accertato, con autorità di giudicato – “hanno prodotto (alla lavoratrice) delle rilevanti conseguenze sul piano morale e psico-fisico".

Tanto basta per accogliere il ricorso.

..10. Il ricorso, pertanto, deve essere accolto.

Per l'effetto, la sentenza va cassata con rinvio ad altro giudice d'appello - designato in dispositivo -perché proceda al riesame della controversia - uniformandosi al principio di diritto enunciato -e provveda, contestualmente, al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione (art. 385, 20

comma, c.p.c.).

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; Cassa al sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'appello di Salerno, anche per il regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, l'8 marzo 2006.

(1) IL  MOBBING E L’ONERE DELLA PROVA: FATTISPECIE A FORMAZIONE COMPLESSA.

 

– La responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell'obbligo di sicurezza – Con la sentenza che si commenta la Suprema Corte analizza le fattispecie del mobbing, della responsabilità contrattuale ex art. 2087 cod. civ. e della ripartizione dell’onere della prova tra le parti.

Secondo la ricostruzione della Cassazione, nel caso in cui vengano dedotti  comportamenti illegittimi, di tipo vessatorio, posti in essere dal datore (o dai suoi dipendenti) sul luogo di lavoro,  l’art. 2087 cod. civ. risulta essere la norma “cardine” posta a fondamento della tutela della salute del lavoratore. Nel caso di specie, la Suprema Corte assume che tale norma impone un obbligo di sicurezza da cui deriva una responsabilità, di tipo contrattuale, a carico di colui che deve porre in essere specifiche misure “nominate” ed “innominate” atte a prevenire piuttosto che a reprimere, a posteriori, determinati eventi, avendo come dato di riferimento, in particolare, “le significative implicazioni sul piano della distribuzione degli oneri probatori relativi”. 

Secondo i giudici di legittimità la sentenza impugnata ha accertato che “i fatti mobbizzanti, posti in essere dal P. hanno prodotto (alla lavoratrice) delle rilevanti conseguenze sul piano psico-fisico”; il ricorso viene quindi accolto partendo dal presupposto che tale accertamento in fatto “conferma, (anche) sul punto, la sentenza di primo grado, disattendendo la domanda in senso contrario, riproposta in appello dall'attuale resistente (ai sensi dell'art. 346 c.p.c.) – che ha acquistato autorità di giudicato, non risultando investito da ricorso incidentale della stessa resistente”.

La Corte conclude il proprio ragionamento affermando che nella fattispecie posta al proprio esame il datore non ha assolto la prova liberatoria posta a suo carico in quanto non ha dimostrato “l’adozione di una qualsiasi misura idonea a prevenire il dedotto evento dannoso” essendosi limitato, invece, a dedurre solo un’iniziativa “volta alla repressione e non alla prevenzione degli stessi fatti mobbizzanti” (nella specie il deferimento del responsabile dei cosiddetti fatti mobbizzanti al collegio dei probiviri), fatti questi che, come sopra accennato, avevano determinato alla lavoratrice delle “rilevanti conseguenze sul piano morale e psico-fisico”.

A parere di chi scrive, tuttavia, non essendo stati delineati specificatamente nella sentenza de qua i fatti di causa, risulta difficile comprendere appieno la portata e l’entità degli atteggiamenti cosiddetti mobbizzanti, come dedotti in giudizio (se non un generico riferimento a comportamenti vessatori tenuti nei confronti della lavoratrice da parte dal Presidente dell’Associazione convenuta che avrebbero determinato le dimissioni della medesima per giusta causa), dovendosi così rappresentare la vicenda partendo dalla sua conclusione, ovvero dal principio di diritto sopra espresso.

Parafrasando un celebre passo sheskpeariano, tratto dal Giulio Cesare, si può affermare che nella sentenza oggi in commento solo “la fine è nota”, senza che però sia possibile rinvenire ulteriori riferimenti riguardanti la vexata quaestio del fenomeno mobbing, con le sue alterne interpretazioni da parte della dottrina e della giurisprudenza. 

– Il mobbing quale fattispecie a formazione complessa: cenni. – Si rileva tuttavia che nella sentenza in esame i giudici hanno comunque accertato, come sopra evidenziato, che i fatti mobbizzanti posti in essere dal Presidente dell’Associazione hanno determinato alla lavoratrice delle rilevanti conseguenze sul piano morale psico-fisico; da tale illegittimo comportamento, secondo la Suprema Corte, consegue una “responsabilità da mobbing, derivante da inadempimento dell’obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.)”.

Per completezza di trattazione, prima ancora di entrare nel merito dell’altra questione oggetto della sentenza, ovvero la ripartizione dell’onere della prova in caso di responsabilità contrattuale ex art. 2087 cod. civ., risulta necessario delineare, seppur brevemente, il fenomeno del mobbing, partendo dal presupposto che la sentenza in analisi, espressamente, ha accertato, comunque, una “responsabilità del datore di lavoro per danno da mobbing”. 

Il mobbing ad oggi, tranne alcune valorizzazioni normative (come l’inserimento di tale fattispecie nel punto 4.9 del d.P.R. 23 maggio 2003, di approvazione del piano sanitario nazionale 2003 – 2005, la risoluzione del parlamento europeo n. AS-0283/2001 del 21 settembre 2001, la circolare Inail del 17 dicembre 2003, n. 73 intitolata “disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro” che individua una serie di comportamenti che configurano mobbing) è priva di una vera e propria tipizzazione legislativa,  nonostante le varie leggi regionali ultimamente emanate e che, peraltro, hanno superato il vaglio della Corte Costituzionale (in merito, si vedano: la sentenza della Corte Costituzionale n. 22 del 2006 che ha respinto le censure di legittimità avanzate dal Governo contro la  legge sul mobbing della Regione Abruzzo n. 26/2004, in Lavoro giur., 3, 2006, pagg. 261 e seg., con nota di Roberta Nunin, nonché, in segno analogo, la sentenza della Corte Costituzionale n. 239 del 2006 che ha respinto le censure di legittimità avanzate dal Governo contro la legge sul mobbing della Regione Friuli Venezia Giulia n. 7/2005, in Lavoro giur., 8, 2006, pagg. 766 e seg., con nota di Roberta Nunin; di contro, sulla incostituzionalità della legge della Regione Lazio 11 luglio 2002 n. 16, si veda Corte Costituzionale 19 dicembre 2003, n, 359, FI, 2004, I, 1692, con nota di A.M. Perrino).

Innanzitutto, occorre tracciare, seppur succintamente, stante il breve spazio di questa nota, quantomeno una definizione di mobbing alla luce delle elaborazioni interpretativr fornita da parte della dottrina e della giurisprudenza.

In particolare, un autorevole autore, pacificatamene ritenuto il cosiddetto “padre del mobbing”, sin dagli inizi degli anni novanta ha definito il mobbing sul lavoro come “una comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa…..”; il medesimo  ha indicato, peraltro, come base di riferimento per l’accertamento di tale fenomeno, una serie di comportamenti e di variabili temporali (in tal senso Heinz Leymann, nella traduzione di H.Ege, in “La valutazione peritale del danno da mobbing”, Giuffrè, 33, 2002).

Si è sostenuto in dottrina che il mobbing sia “una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità…” (Harald Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing, Giuffrè, 39, 2002). Si segnala, inoltre, che la dottrina ha espresso numerosi contributi sul mobbing, adottando diverse soluzioni interpretative in merito all’onere della prova ed alla risarcibilità del danno che, tuttavia,  per brevità, non saranno segnatamente approfonditi in questa sede (in merito, tra i molti, si veda: Piccinini, Mobbing – lavoro privato e pubblico, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 2005; Scogmamiglio, A proposito del mobbing, in RIDL, 2004, I, 489; Carinci, F., Il mobbing: un fantasma si gira per le aule giudiziarie, in Lav. giur., 2003, 1097 ss; R. Del Punta, Il mobbing: l’illecito e il danno, in LD, 2003, 539;  Cimaglia, Riflessioni su mobbing e danno esistenziale, RGL, 2002, 91 e ss., Fodale, La valutazione del danno da mobbing,  RGL,  2002, 116 e ss., Bona, Monteri, Oliva, La responsabilità civile nel mobbing, IPSOA, 2002).

In merito poi all’evoluzione giurisprudenziale di tale fattispecie, le prime sentenze di merito che hanno preso in considerazione il fenomeno del mobbing sul posto di lavoro sono state emesse dalla Sezione lavoro del Tribunale di Torino, con le ormai celeberrime decisioni del 16.11.1999 e del 30.12.1999 (pubblicate in RIDL, 1999, II, 326 e in FI, 2000, I, 1555). In tali pronunce, i giudici hanno recepito le indicazioni fornite dalla psicologia del lavoro e dalla sociologia, stabilendo che esiste mobbing quando “il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi […] e vengono poste nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora suicidio”. Peraltro, tali questioni riguardavano casi di prevaricazioni posti in essere, come nella vicenda de qua, da parte di superiori del lavoratore. 

Successivamente, la giurisprudenza ha mostrato un interesse sempre maggiore verso queste problematiche. Ad esempio, il Tribunale di Pisa, con sentenza del 03.10.2001, sebbene la vicenda giudiziaria fosse riferita ad un caso di molestie sessuali, ha circostanziato in maniera puntuale il tema del mobbing definendolo come “una forma di pressione, di accerchiamento, sì che il lavoratore possa avvertire questa sorta di presenza costante, il fiato sul collo, la consapevolezza che ogni manifestazione della sua personalità non gradita al datore possa comportare conseguenze pregiudizievoli sul piano del rapporto contrattuale”.

Per quanto riguarda sempre l’esegesi giurisprudenziale, si rileva che la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 143 del 8.01.2000 (in FI, 2000, I, 1554), ha affermato che “il mobbing è l’aggredire la sfera psichica altrui”. Il caso esaminato dalla citata Cassazione riguardava una sorte di violenza sottile ed oppressiva, in cui, comportamenti più o meno rilevanti, ma che, ripetuti e ininterrotti, diventano ossessivi ed insopportabili. Una violenza nascosta e silenziosa, ma non meno invasiva e qualche volta peggiore di quella fisica; una violenza per colpire la volontà ed indurre all’errore o alle dimissioni. In sostanza, la Suprema Corte ha affermato che un tale comportamento può costituire una violenza morale, talvolta peggiore di quella fisica. Con la sentenza n. 143 del 2000, la Cassazione fornisce quindi risposte adeguate alla richiesta di offrire una corretta lettura di questo crescente fenomeno, avente implicazioni anche sociologiche, con un’interpretazione moderna anche per quanto riguarda l’onere della prova, sostenendo infatti che “èconfermata la necessità di una prova rigorosa, ma con la convinzione che provare un’intenzione è quasi impossibile, perché bisognerebbe indagare all’interno della coscienza delle persone”. La Cassazione afferma allora che, “per riconoscere la rilevanza invasiva del descritto comportamento datoriale, è sufficiente la prova molto più semplice sia del danno che del nesso di causalità di quel comportamento moralmente violento.  Inoltre è sufficiente la prova di un danno non solo patrimoniale o alla salute, ma basta anche la prova del danno alla vita di relazione e del danno “biologico”. Non è nemmeno necessario provare che il danno deriva da un’intenzione precisa, non è necessaria la prova del dolo, basta anche la semplice colpa”.

Nella ricostruzione della nozione di mobbing, non si può prescindere dalla definizione assegnatagli dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 359 del 2003 (in Lav. Giur., 2004, 353 e seg.) che pone l’accento sulle condotte che “possono estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri sia in semplici comportamenti materiali aventi in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico, e tuttavia di acquisire  comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall’effettiva e talvolta, secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione ed emarginazione”.

            La Corte di Cassazione poi, in merito al comportamento persecutorio posto in essere da colleghi di lavoro, con conseguente responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ., ha riconosciuto il pregiudizio subito dal lavoratore “che sia stato colto da una patologia ansioso- depressiva determinata da un globale comportamento antigiuridico dei colleghi tollerato dal datore di lavoro”, nella specie, ripetuti scherzi verbali ed azioni di disturbo appunto conosciuti dal datore di lavoro e che, tuttavia, nulla aveva fatto perché tale condotta avesse fine (si veda Cass., sez. lav., 23 marzo 2005, n. 6326, con nota di Angelo Maria Perrino, Danno da mobbing: perplessità sulla categoria, FI, I, pagg. 3356 e seg.).

            Occorre però rilevare che alcune  pronunce della giurisprudenza di merito tendono “ad escludere una condotta  di mobbing qualora il dipendente non provi che sia stata attuata nei propri confronti una strategia persecutoria” ricostruendo il fenomeno mobbing come quella “serie reiterata di comportamenti vessatori e prevaricatori posti in essere (mobbing verticale) o, comunque, tollerati (mobbing orizzontale) dal datore di lavoro, aventi come fine l’emarginazione del lavoratore, pubblico o privato, e, in ultima analisi, l’estromissione dalla struttura organizzativa dall’impresa (Trib. di Marsala, 5 novembre 2004, in FI, I, pagg. 3356 e pag.3378). In merito a tale indirizzo giurisprudenziale, si rileva, tuttavia, che per il lavoratore risulta essere quasi impossibile riuscire a dimostrare la realizzazione da parte del datore di un piano preordinato, avente il fine di allontanarlo dall’azienda. Un siffatto onere, il più delle volte, risulta praticamente indimostrabile, proprio perché, nella maggior parte dei casi, gli atteggiamenti persecutori non sono mai palesi, ma spesso subdoli e nascosti e, quindi, per aggirare la cosiddetta probatio diabolica, all’interprete può essere utile l’ausilio fornito dall’istituto delle presunzioni semplici ex art 2729 cod. civ., (norma peraltro richiamata anche dalla recente sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 6576/06, in tema di onere della prova in caso di dequalificazione professionale) essendo questo, probabilmente, uno strumento efficace ed adeguato per superare quello che a volte può apparire uno “schema probatorio” troppo rigoroso.

- La ripartizione dell’onere della prova. Il mancato esercizio da parte del datore di lavoro di misure tese ad evitare gli atti vessatori posti in essere dal Presidente della Associazione ha determinato l’insorgere, come detto, di una responsabilità contrattuale. Infatti, la società convenuta è venuta meno all’adempimento dell’obbligo sinallagmatico di cui all’art. 2087 cod. civ., non avendo i suoi responsabili approntato le misure di prevenzione idonee a tutelare l’integrità fisica e morale della lavoratrice.

Orbene, partendo dal presupposto che la responsabilità datoriale ha natura contrattuale, occorre comprendere come debba essere ripartito l’onere della prova. In merito, si rileva che la sentenza in commento afferma che “la presunzione legale di colpa – stabilita (dall'art. 1218 c.c., cit.) a carico del datore di lavoro inadempiente all'obbligo di sicurezza (di cui all'art. 2087, cit.) - deroga, parzialmente, il principio generale (art. 2697 c.c.), che impone  - a chi vuoI fare valere un diritto in giudizio  - l'onere di provare i fatti che ne costituiscono il fondamento".

Da tale premessa, tuttavia, i giudici di legittimità non fanno discendere per il datore di lavoro una forma di responsabilità oggettiva in virtù della quale il lavoratore danneggiato risulterebbe “dispensato” da qualsiasi onere probatorio. Il lavoratore, infatti, secondo quanto stabilito dalla Suprema Corte, in virtù del principio generale di cui all’art. 2697 cod. civ., dovrà, comunque, provare il "fatto costituente inadempimento dell'obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre esula - dall'onere probatorio a carico del lavoratore -in deroga, appunto, allo stesso principio generale - la prova della colpa del datore di lavoro danneggiante,  sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento (come ad ogni altro rimedio contro il medesimo inadempimento)”.

In altri termini spetterà al datore di lavoro (ai sensi dell'art. 1218 c.c.) “provare la non imputabilità dell'inadempimento”,  risultando il medesimo contrattualmente responsabile in quanto "debitore" della sicurezza. Secondo i giudici di legittimità quindi, vertendosi in ipotesi di responsabilità contrattuale,  “la prova sull'imputazione materiale e su quella psicologica del danno (secondo una classica bipartizione dottrinaria) - anziché essere concentrata sul lavoratore (come, in genere, sul creditore) danneggiato, che agisca per ottenere il risarcimento” dovrà essere ripartita tra il lavoratore (creditore) e datore (debitore).

La Cassazione quindi, sempre nella sentenza de qua, appronta una disamina della ripartizione probatoria dell’onere della prova ex art. 2087 cod. cov. a seconda che il datore di lavoro abbia presuntivamente violato oppure omesso di predisporre “misure di prevenzione nominate”  (nel senso di specifici adempimenti espressamente  stabiliti per legge, come ad es. quelli derivanti dall’applicazione del d.lgs. n. 626 del 1994, dal d.P.R n. 547 del 1955) ovvero “innominate” (in quanto derivanti dal generale obbligo di sicurezza ex art. 2087 cod. civ.).

In tal senso, la sentenza in commento ha affermato che, nel primo caso (misure nominate), sia sufficiente per “il lavoratore provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa - cioè il rischio specifico, che s'intende prevenire o contenere - nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l'inosservanza della misura ed il danno subito” mentre il datore di lavoro dovrà fornire solo la prova liberatoria, consistente appunto nella “negazione, cioè, dell'obbligo o, comunque, dell'inadempimento - in relazione a quella stessa - misura di sicurezza (o di prevenzione) - nonché del nesso di causalità tra inadempimento e danno”.

Nel secondo caso (misure innominate), invece, la prova liberatoria a carico del datore di lavoro “risulta invece variamente definita in relazione alla quantificazione della diligenza (ritenuta) esigibile - nella predisposizione di quelle misure di sicurezza”. In ordine a quest’ultima affermazione, anche se questo tipo di prova non riguarda propriamente il caso di specie, i giudici di legittimità hanno evidenziato la non omogeneità della giurisprudenza su tale punto; al riguardo, si rileva che sono state richiamate in motivazione le diverse interpretazioni giurisprudenziali relative alla diligenza esigibile sulle misure di sicurezza “innominate”, venendo riportando sia l’orientamento relativo  “all'imposizione al datore di lavoro dell'onere di provare l'adozione di ogni misura idonea ad evitare l'infortunio dedotto in giudizio (vedi, per tutte, Cass. n. 9401/95) sia l’indirizzo relativo all’obbligo per il datore di lavoro di adottare “comportamenti specifici, non imposti dalla legge (o da altra fonte di diritto parimenti vincolante), ma suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, standard di sicurezza adottati normalmente o da altre fonti analoghe (vedi, per tutte, Corte costo n. 312/96, Cass. n. 16250/2003, 3740/95)”.

In conclusione, si può pacificamente sostenere che, poiché il datore di lavoro è contrattualmente  tenuto a garantire l’integrità fisica e psichica e la personalità morale dei propri dipendenti, il medesimo ha l’obbligo di impedire e scoraggiare ogni dinamica che non possa garantire tale tutela. Il dovere di prevenzione riguarda quindi anche i comportamenti di tipo vessatorio e persecutorio, cosiddetto mobbing, che, in virtù di quanto sopra evidenziato, risulta essere una forma di violenza morale che può causare turbe e malesseri di varia natura e peso, in misura tale da configurare un grave danno alla salute psico-fisica, come,difatti, è stato acclarato nel caso di specie. In buona sostanza, il datore di lavoro è tenuto a prevenire i fatti mobbizzanti dovendo adoperarsi anche con misure di prevenzione di tipo innominato, non essendo sufficiente, per un eventuale esonero di responsabilità, un successivo comportamento repressivo di tali fatti persecutori.  L’articolo 2087 cod. civ. costituisce infatti, secondo quanto sostenuto dalla dottrina, una “norma di chiusura” del sistema giuridico della sicurezza del lavoro, con evidenti caratteristiche di “norma aperta”, volta a supplire alle lacune di una disciplina specifica che non può prevedere ogni fattore di rischio (A. Lorusso, “L’art. 2087 c.c. e la responsabilità per danni all’integrità psico-fisica del lavoratore”, in nota Cass. sez. lav., 29 marzo 1995, n° 3740, MGL, 1995, pag. 362).

Sul punto, si rileva che la Corte di Cassazione (in merito appunto all’adozione di misure di prevenzione cosiddette innominate) ha opportunamente statuito che il contenuto dell’obbligo contenuto ex art. 2087 cod. civ. “non può ritenersi limitato al rispetto della legislazione tipica di prevenzione, riguardando altresì il divieto, per il datore di lavoro, di porre in essere, nell’ambito aziendale, comportamenti che sono lesivi del diritto all’integrità psicofisica del lavoratore” (in merito si veda Cass. 2 maggio 2000, n. 5491, FI, Rep. 2000, voce Lavoro, n. 1756).

Secondo l’orientamento della Suprema Corte sopra citata l'art. 2087 cod. civ. non deve essere interpretato in chiave riduttiva, limitatamente al solo rispetto delle norme c.d. previdenziali e antinfortunistiche, ma ad esso va ricondotta qualsiasi forma di tutela alla salute e alla sicurezza del lavoratore, che sarebbero minate dai comportamenti vessatori posti in essere contro il prestatore di lavoro. E’ ormai indubbio l’esistenza di un vero e proprio diritto soggettivo perfetto del prestatore di lavoro all’integrità psico-fisica ex art. 2087 c.c. (di tale opinione sono: Bianchi D’Urso, “Profili giuridici della sicurezza nei luoghi di lavoro”, Napoli, 1980, pag. 57; Di Cerbo - Salerno, “La prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro nella giurisprudenza”, Padova, pag. 130; Lepore - Medina, “Il diritto alla sicurezza sul lavoro”, Milano, 1984, pag. 21).

Si può concludere la presente nota riportando l’insegnamento di un autorevole autore, il quale, ha sostenuto che l’obbligo contenuto nell’art. 2087 cod. civ. “è diretto a tutelare interessi individuali in vista di interessi pubblici” (C. Smuraglia, “La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale”, Giuffrè, Milano, 1974, 82); si determina quindi, a parere di tale dottrina un “obbligo bifrontale” nei confronti del datore di lavoro, rivolto “contemporaneamente verso due soggetti diversi e cioè verso il lavoratore da un lato e verso lo Stato dall’altro. Si ha così il fenomeno singolare di un obbligo in cui il soggetto passivo è uno solo (il datore di lavoro) mentre due sono i soggetti attivi, i creditori del debito che ne deriva (e cioè il lavoratore e lo Stato)”.  

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