La domanda iniziale di ammissione all’integrazione salariale determina l’ente legittimato passivamente ad erogare le quote di t.f.r. maturate

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro n.1/2005

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CASSAZIONE, SEZ. LAV., 11 marzo 2004, n. 5007,  Pres. Mercurio -  Rel. Amoroso – Urbano Michele (avv.ti Enzo Augusto e Sante Assennato) c/  I.N.P.S.  (avv.ti Giuseppe Fagiani, Franco Jeni, Giovanna Biondi). 

Conferna T. Bari 5 luglio 2001

Trattamento di fine rapporto – Cassa integrazione guadagni  - Quote di t.f.r. maturate durante le integrazioni salariali – Controversie - Ente obbligato ad erogare le prestazioni -  Legittimazione passiva di diversi enti nella successione di leggi - Disciplina applicabile ratione temporis – Domanda iniziale di ammissione all’integrazione salariale determina la competenza dell’ente obbligato – Competenza del Fondo della mobilità.

 

(…) Per i periodi di c.i.g. anteriori al 23 marzo 1988, in forza dell’art. 21, comma 5, l. 675/77, obbligato è il Fondo di mobilità e non l’INPS. Nella Specie, trattandosi appunto di un intervento della c.i.g. autorizzato per un precedente alla data suddetta, la successiva modifica del 1988 (decreto legge 21 marzo 1988, n. 86, coordinato con la legge di conversione  20 maggio 1988, n. 160), per cui si supera l’obbligo a carico del Fondo e si ritorna al sistema dell’obbligo di rimborso della c.i.g., non si applica. Infatti ciò che rileva è la data della domanda della c.i.g.  (prima o dopo il 23 marzo 1988) e non già il periodo di riferimento (…) né certo la eventuale proroga del beneficio modifica la data di presentazione della domanda: il periodo di c.i.g. rimane unitario proprio perché si tratta di” proroga” e non già di nuova concessione. (1)

 

Omissis. -  MOTIVI DELLA DECISIONE. - Il ricorso è articolato in tre motivi di impugnazione.

Con i primi due motivi il ricorrente - denunciando omessa motivazione su un punto decisivo della controversia e violazione di norme di diritto (disposizioni della legge in generale, legge n. 297 del 1982, principio di infrazionabilità del trattamento di fine rapporto, artt. 21, 24 e 25 della legge n. 675 del 1977, art. 2 legge n. 301 del 1979, art. 4, comma 19, d.l. n. 463 del 1983, art. 3 d.l. n. 747 del 1983, conv. in 1. n. 18 del 1984; 1. 160 del 1980,1. n. 464 del 1972; d.l. n. 726 del 1984, conv. in 1. n. 863 del 1984; ari 3 1. n. 108 del 1991) - assume che l'unico soggetto passivo dell'azione intrapresa dal lavoratore sia l'INPS, quale gestore del Fondo di garanzia di cui alla L. 29.5.1982, n. 297. Contesta l'affermazione della sentenza impugnata secondo cui l'abrogazione, da parte dell'art. 8, comma 2, del d.l. n. 86/1988 (così come convertito), delle norme che ponevano a carico del Fondo per la mobilità della manodopera gli oneri per le quote di t.f.r. per fattispecie come quella in esame (art. 21, commi 5 e 6 della 1. n. 675/1977) e la contestuale conferma delle disposizioni in materia di cui all'ari. 2, secondo comma, della legge 8 agosto 1972 n. 464, non avessero effetto, giusto l'art. 8, ottavo comma, con riferimento alle domande di integrazione salariale presentate prima della data di entrata in vigore del decreto (23 marzo 1988) e per i relativi periodi che fossero precedenti alla predetta data.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di legge processuale e vizio di ultrapetizione (artt. 437 e 345 c.p.c.) per aver i giudici di appello accolto la domanda dell'INPS di restituzione delle somme percepite in eccedenza in esecuzione del decreto ingiuntivo opposto in primo grado, ancorché una tale domanda fosse stata proposta tardivamente e comunque non nell'atto d'appello.

 

Il ricorso - nei suoi primi due motivi che possono essere trattati congiuntamente in quanto connessi - non è fondato secondo i principi di diritto affermati da questa Corte che ha già esaminato fattispecie analoghe (cfr. da ultimo Cass. 10 maggio 2002 n. 6746, Cass. 11 aprile 2002 n. 5207, Cass. 23 marzo 2002 n..4171).

Posto che nella specie il periodo di c.i.g. in questione va dal 20 maggio 1986 al 19 maggio 1989, occorre fare riferimento della disciplina applicabile rationes temporis; disciplina che è mutata nel tempo e che vede, per quanto rileva nel presente giudizio, una alterna evoluzione sviluppatasi essenzialmente in tre fasi nelle quali è possibile cogliere, come momento unificante, la tendenza ad un progressivo affiancamento delle quote di trattamento di fine rapporto maturate nel periodo di c.i.g. allo stesso trattamento di integrazione salariale. Di quest'ultimo le prime finiscono per mutuare la natura previdenziale-assistenziale cosi come in generale il trattamento di fine rapporto mutua la natura retributiva dall'ordinario trattamento economico spettante al lavoratore.

 

2.1. Inizialmente - ed è questa la prima fase - era previsto un obbligo di rimborso a carico della c.i.g. della quota di indennità di anzianità corrisposta dal datore di lavoro e riferibile al periodo di sospensione del rapporto per collocamento del lavoratore in cassa integrazione guadagni. Infatti la legge 8 agosto 1972, n.464 (recante modifiche ed integrazioni alla legge 5 novembre 1968, n. 115, in materia di integrazione salariale e di trattamento speciale di disoccupazione) ha previsto, all'art. 2, da una parte che i periodi, per i quali è corrisposto il trattamento di integrazione salariale, sono considerati utili d'ufficio al fine del conseguimento del diritto alla pensione e della determinazione della misura di questa; d'altra parte ha prescritto che per i lavoratori licenziati al termine del periodo di integrazione salariale, le aziende possono richiedere il rimborso alla cassa integrazione guadagni dell'indennità di anzianità, corrisposta agli interessati, limitatamente alla quota maturata durante il periodo predetto.

2.2. Successivamente - e si passa così alla seconda fase - è stato introdotto l'obbligo (non già di rimborso, bensì di erogazione diretta) di un Fondo con gestione autonoma nel caso di c.i.g.s.. Infatti la legge 12 agosto 1977, n. 675 (recante provvedimenti per il coordinamento della politica industriale, la ristrutturazione, la riconversione e lo sviluppo del settore), all'art. 21, comma 5, ha previsto che, ferma restando la disciplina vigente in materia di trattamento di quiescenza maturato dai singoli lavoratori, sono posti a carico del Fondo di cui all'art. 28 le quote di indennità di anzianità maturate durante il periodo di integrazione salariale per ristrutturazione o riconversione aziendale dei lavoratori che non vengano rioccupati nella stessa azienda al termine di detto periodo per l'impossibilità da parte dell'azienda medesima di mantenere il livello occupazionale. L'art. 28 costituiva presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale un Fondo per la mobilità della manodopera, con amministrazione autonoma e gestione fuori bilancio, destinato alla concessione delle provvidenze di cui all'art. 27 della medesima legge. Il Fondo era alimentato per il 50 per cento da versamenti a carico del Fondo per la ristrutturazione e riconversione industriale di cui all'art. 3 della stessa legge e per il 50 per cento da versamenti a carico della Cassa integrazione guadagni operai dell'industria presso l'INPS.

L'obbligo del datore di lavoro di corrispondere le quote di t.f.r. viene poi espressamente previsto dall’art. 2120, comma 3, c.c., novellato dalla legge n. 297 del 1982. Tale disposizione contempla che in caso di sospensione della prestazione di lavoro nel corso dell'anno per una delle cause di cui all'art. 2110 c.c., nonché in caso di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l'integrazione salariale, deve essere computato nella retribuzione di cui al primo comma l'equivalente della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto di lavoro. Questo assetto della disciplina in esame trova poi ulteriori riscontri. In particolare viene ribadito l'accantonamento a carico del Fondo e la generalizzazione dell'intervento di quest'ultimo nell'ipotesi di stipulazione di contratti collettivi aziendali che stabiliscano una riduzione dell'orario di lavoro al fine di evitare, in rutto o in parte, la riduzione o la dichiarazione di esuberanza del personale. Infatti il decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726 (recante misure urgenti a sostegno e ad incremento dei livelli occupazionali), convertito in legge 19 dicembre 1984 n. 863, prevede, all'art. 1, comma 5, che ai fini della determinazione delle quote di accantonamento relative al trattamento di fine rapporto trovano applicazione le disposizioni di cui al comma terzo dell'ari. 1 della legge 29 maggio 1982, n. 297. Le quote di accantonamento relative alla retribuzione persa a seguito della riduzione dell'orario di lavoro sono a carico del Fondo di cui all'art. 28 della legge 12 agosto 1977, n. 675.

Questa stessa disciplina trovava poi applicazione anche nelle ipotesi di fallimento dell'impresa prevista dall'art. 2 della legge 27 luglio 1979, n. 301, di conversione del decreto-legge 26 maggio 1979, n. 159 (concernente norme in materia di integrazione salariale a favore dei lavoratori delle aree del Mezzogiorno); disposizione questa che prevedeva che nel caso di fallimento di aziende industriali, oltre ad applicarsi le disposizioni di cui al quinto comma dell'alt. 25 della cit. legge n.. 675 del 1977, ove siano intervenuti licenziamenti, l'efficacia degli stessi è sospesa e i rapporti di lavoro proseguono ai soli fini dell'intervento straordinario della Cassa integrazione.

 

2 .3. Più recentemente infine - pervenendosi così alla terza fase - si supera l'obbligo a carico del Fondo di mobilità e si transita al sistema dell'obbligo diretto della c.i.g..

Infatti il decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86, coordinato con la legge di conversione 20 maggio 1988, n. 160 (recante norme in materia previdenziale, di occupazione giovanile e di mercato del lavoro), ha previsto all'art. 8, comma 2, che: a) sono abrogati (oltre alla lettera a) del numero 2) dell'art. 1 1. 20 maggio 1975, n. 164),  anche i commi quinto e sesto dell'art. 21 della legge 12 agosto 1977, n. 675 (ossia la previgente disciplina che onerava il Fondo del pagamento delle quote di t.f.r. in questione); b) resta invece fermo quanto disposto dall'articolo 2, secondo comma, della legge 8 agosto 1972, n. 464 (ossia viene richiamata e quindi ripristinata la previgente disciplina che onerava di tale pagamento la stessa Cassa integrazione guadagni e quindi l'INPS). Il successivo comma 2- ha poi previsto - con una disposizione di coordinamento - che il secondo periodo del comma quinto dell'art. 1 d.l. 30 ottobre 1984, n. 726, conv. in 1. 19 dicembre 1984, n.. 863, è sostituito dal seguente: "le quote di accantonamento relative alla retribuzione persa a seguito della riduzione dell'orario di lavoro sono a carico della Cassa integrazione guadagni".

Questa nuova disciplina, che quindi ripristinava l'onere e la responsabilità dell'INPS, operava però solo per il futuro. Infatti il successivo comma 8 ha previsto che le disposizioni di cui ai commi primo e secondo trovano applicazione per le domande di integrazione salariale presentate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto e per i relativi periodi che siano successivi alla predetta data. Questa disciplina ha continuato ad applicarsi anche alle imprese fallite. Non rileva infatti, perché non convertito, il decreto-legge 20 maggio 1992, n. 293 (misure urgenti in campo economico ed interventi in zone terremotate) che all'art. 10 aveva previsto che l'art. 2 della legge 27 luglio 1979, n. 301, deve essere interpretato nel senso che per il periodo di concessione del trattamento straordinario di integrazione salariale di cui all'articolo 2 medesimo non spetta il trattamento di fine rapporto. Né rileva, per la stessa ragione, il precedente d.l. 20 marzo 1992 n.. 237.

 

Ricostruita questa sequenza normativa che ha visto nel tempo prima la responsabilità della Cassa integrazione guadagni (e quindi dell'INPS), poi del Fondo per la mobilità della manodopera e successivamente ancora della Cassa (e dell'INPS), deve considerarsi che questa Corte (Cass. 2 dicembre 1991, n. 12908) ha già affermato che, nella disciplina prevista dall'art. 2 della legge 27 luglio 1979 n. 301, di conversione del d.l. 26 maggio 1979 n. 159 - che ha esteso con effetto dal 1° gennaio 1979 il beneficio della cassa integrazione guadagni straordinaria alle imprese già dichiarate fallite, per le quali sia stato dichiarato dopo il fallimento lo stato di crisi aziendale ai sensi dell'art. 2 della legge 12 agosto 1977 n. 675 - la sospensione dell'efficacia dei licenziamenti intimati dal curatore del fallimento determina non l'estinzione, ma la prosecuzione dei rapporti di lavoro, con la sola sospensione delle obbligazioni aventi per oggetto la prestazione lavorativa e la retribuzione, e con il diritto dei lavoratori posti in Cassa Integrazione Guadagni straordinaria alle quote di trattamento di fine rapporto maturate durante il tempo dell'intervento straordinario, la cui corresponsione, nel vigore dei commi quinto e sesto dell'art. 21 della citata legge n. 675 del 1977 - successivamente abrogati dall'alt. 8, comma 2 della legge 20 maggio 1988 n. 160, di conversione con modificazioni del D.L. 21 marzo 1988 n. 86 - era a carico del Fondo per la mobilità della manodopera istituito dall'art. 28 della medesima legge n. 675 del 1977.

Successivamente Cass. 7 luglio 2001, n. 9236, ha ribadito che per le fattispecie che continuano ad essere regolate dall'art. 21, commi quinto e sesto, della legge n. 675 del 1977 -abrogati dall'alt. 8 del D.L. n. 86 del 1888, convertito nella legge n. 160 del 1988, soltanto con riguardo alle domande di integrazione salariale presentate successivamente alla data di entrata in vigore del citato decreto-legge e per i relativi periodi successivi alla predetta data «-direttamente obbligato a corrispondere le quote di trattamento di anzianità (o di fine rapporto) dovute ai lavoratori collocati in c.i.g.s. per il periodo di integrazione salariale non è l'INPS, ma è il "Fondo per la mobilità della manodopera" istituito dall'art. 28 della medesima legge n. 675 del 1977. Tale disposizione deve considerarsi applicabile non soltanto ai casi di "ristrutturazione" o "riconversione produttiva" in senso proprio, ma anche alle situazioni (non direttamente collegate con i suddetti processi) inerenti allo stato di "crisi aziendale", comportanti un ridimensionamento dell'attività e degli elementi patrimoniali attivi e passivi dell'azienda, dato che con la citata legge n. 675 del 1977 è stata dettata una normativa unitaria riguardante tutti i casi nei quali vi fosse la necessità del previsto intervento pubblico, sicché il comma sesto dell'art. 21 di essa, nella parte in cui fa riferimento alla necessità di pervenire a una nuova dimensione produttiva, deve essere interpretato nel senso di ricomprendere anche le menzionate situazioni.

Pertanto - confermando ulteriormente tale orientamento giurisprudenziale - deve ribadirsi che per i periodi di c.i.g. anteriori al 23 marzo 1988, in forza dell'art. 21, comma 5, 1. 675/77, obbligato è il Fondo di mobilità e non l'INPS. Nella specie, trattandosi appunto di un intervento della c.i.g. autorizzato per un periodo precedente alla data suddetta, la successiva modifica del 1988 (decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86, coordinato con la legge di conversione 20 maggio 1988, n. 160), per cui si supera l'obbligo a carico del Fondo e si ritorna al sistema dell'obbligo di rimborso della c.i.g., non si applica. Infatti ciò che rileva è la data della domanda di c.i.g. (prima o dopo il 23 marzo 1988) e non già il periodo di riferimento (come erroneamente ritiene il tribunale). Né certo la eventuale proroga del benefìcio modifica la data di presentazione della domanda: il periodo di c.i.g. rimane unitario proprio perché si tratta di "proroga" e non  già di nuova concessione.

 

Occorre poi aggiungere che queste conclusioni non sono poi revocate in dubbio anche se si considera l'ulteriore disciplina dell'anticipazione delle prestazioni di integrazione salariale.

Deve considerarsi che la disciplina posta dall’art. .5 del decreto legge 30 marzo 1978, n.. 80, convertito, con modifiche, nella legge 26 maggio 1978, n. 215,  prevede (tra l'altro) che nei casi d'intervento straordinario della Cassa integrazione guadagni il Ministero del lavoro e della previdenza sociale può disporre il pagamento diretto ai lavoratori da parte dell'Istituto nazionale della previdenza sociale delle relative prestazioni, con i connessi assegni familiari ove spettanti. Quindi l'Inps può essere autorizzato a pagare direttamente, in luogo del datore di lavoro, le indennità che avrebbero dovuto essere anticipate dal datore di lavoro e poi rimborsate a quest'ultimo dalla Cassa integrazione gestita dall'Inps; indennità queste che vengono corrisposte ai lavoratori direttamente dall'Inps che provvede a contabilizzarle nella gestione della Cassa.. Però occorre porre in relazione questa speciale previsione del «pagamento diretto» con la già esaminata evoluzione della disciplina delle quote di t.f.r. relative al periodo di c.i.g.. Se si considera l'assetto di tale disciplina quale da ultimo risultante dal cit. decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86, coordinato con la legge di conversione 20 maggio 1988, n. 160, deve inferirsi, sulla base della mera interpretazione letterale, che le «relative prestazioni», alle quali fa riferimento il cit. art. 5 d.l. 30 marzo 1978, n. 80, conv. in 1. 26 maggio 1978, n. 215, contemplando l'autorizzazione dell'INPS al «pagamento diretto», riguardano - in mancanza di alcuna limitazione testuale - le prestazioni poste a carico della cassa integrazione guadagni e quindi anche le quote di trattamento di fine rapporto. Ed in effetti questa Corte (Cass. 11 giugno 1992, n. 7209) ha più in generale affermato che l'obbligo dell'Inps, cui, ai sensi dell'art. 5, d.l. 30 marzo 1978, n. 80, convertito con 1. 26 maggio 1978, n. 215, sia stato imposto, nei casi d'intervento straordinario della c.i.g., il pagamento diretto ai lavoratori «delle relative prestazioni, con i connessi assegni familiari ove spettanti», non è limitato alle sole integrazioni periodiche, ma si estende a tutti gli obblighi inerenti all'intervento della c.i.g.s., compresa, quindi, la corresponsione delle quote di anzianità maturate durante il periodo d'integrazione salariale dal lavoratore licenziato al termine di tale periodo. Questa inferenza non può però parimenti ripetersi anche in relazione alla previgente disciplina (ossia con riferimento al cit. art. 21 commi 5 e 6, legge 12 agosto 1977, n. 675), che è quella applicabile nella fattispecie. Considerando quest'ultima, infatti, si doveva - come già rilevato - (e si deve ) distinguere tra prestazioni a carico della cassa interazione guadagni (e quindi dell'INPS), quale è il trattamento di integrazione salariale, e prestazioni a carico del Fondo di mobilità, quali sono le quote di trattamento di fine rapporto (e prima ancora le quote di indennità di anzianità). Diverso è quindi il soggetto debitore, ancorché l'Istituto in realtà anche all'epoca non fosse estraneo al Fondo medesimo essendo tenuto alla provvista dello stesso nella misura del 50% e quindi dovendo comunque sopportare, seppur non integralmente, il relativo onere economico. In proposito è stato recentemente affermato da questa Corte (Cass. 11 aprile 2002 n. 5207 cit.) che, quando l'onere definitivo del pagamento delle quote di t.f.r. è stato posto sul solo Fondo di mobilità, vengono meno le ragioni che concorrono a giustificare il pagamento diretto delle prestazioni di cassa integrazione da parte dell'INPS e quindi l'autorizzato «pagamento diretto» non può riguardare anche le quote di t.f.r..

In adesione a quest'ultima pronuncia e richiamando quanto sopra esposto in ordine all'identificazione della disciplina applicabile ratione temporis, può ritenersi che l'INPS, essendo tenuto solo al pagamento delle prime prestazioni, poteva essere autorizzato al «pagamento diretto» unicamente di queste stesse e non già anche di prestazioni che facevano carico su un altro soggetto (il Fondo di mobilità, il quale peraltro rimane obbligato alle prestazioni spettanti ai lavoratori).

Quindi solo nel regime introdotto dal decreto legge 21 marzo 1988, n. 86, coordinato con la legge di conversione 20 maggio 1988, n. 160, all’art. 8, l'obbligo dell'Inps, cui, ai sensi dell'art. 5, d.l. 30 marzo 1978, n. 80, convertito con 1. 26 maggio 1978, n. 215, sia stato imposto, nei casi d'intervento straordinario della c.i.g., il pagamento diretto ai lavoratori «delle relative prestazioni, con i connessi assegni familiari ove spettanti», non è limitato alle sole integrazioni periodiche, ma si estende a tutti gli obblighi inerenti all'intervento della c.i.g.s., compresa, quindi, la corresponsione delle quote di trattamento di fine rapporto maturate durante il periodo d'integrazione salariale dal lavoratore licenziato al termine di tale periodo; invece in precedenza l'INPS, essendo tenuto solo al pagamento delle prestazioni di integrazione salariale in senso stretto, poteva essere autorizzato al «pagamento diretto» unicamente di queste stesse e non già anche di prestazioni che facevano carico su un altro soggetto (il Fondo di mobilità), quali le quote dell'indennità di anzianità e poi del trattamento di fine rapporto.

 

Anche il terzo motivo è infondato.

Questa Corte (Cass., sez. III, 18 luglio 2003 n. 11244; in precedenza cfr. anche Cass., sez. III, 21-12-2001, n. 16170; Cass., sez. III, 02-02-1995, n. 1239) ha affermato - e qui ribadisce - che la richiesta di restituzione delle somme, corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado, essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata, non costituisce domanda nuova ed e' perciò ammissibile in appello; la stessa deve, peraltro, essere formulata, a pena di decadenza, con l'atto di appello, se proposto successivamente all'esecuzione della sentenza, essendo ammissibile la formulazione nel corso del giudizio soltanto qualora l'esecuzione della sentenza sia avvenuta successivamente alla proposizione dell'impugnazione. Da tanto deriva che e' onere della parte che formuli una tale domanda precisare puntualmente, da un lato, in quale data ha provveduto al pagamento della somma portata dalla sentenza di primo grado, oggetto di impugnazione, e dall'altro, specie quando controparte non riconosca l'avvenuta esecuzione della sentenza di primo grado, dimostrare il proprio assunto.

Nella specie il ricorrente non ha neppure allegato - se non in termine del tutto generici ed ipotetici - quale sia la data del pagamento effettuato dall'INPS della somma recata dal decreto ingiuntivo opposto; e quindi la censura contenuta nel terzo motivo di ricorso è inidonea ad inficiare la motivazione della sentenza impugnata che ha ritenuto ammissibile la domanda di restituzione dell'Istituto formulata nel corso dei giudizio d'appello.

 

Il ricorso deve quindi essere rigettato.

Sussistono giustificate ragioni per compensare tra le parti le spese di giudizio

 

 

IL TFR NEI PERIODI DI CIG: PER INDIVIDUARE L’ENTE OBBLIGATO AD EROGARE LE QUOTE DI TFR MATURATE CIO’ CHE RILEVA E’ LA DOMANDA INIZIALE DI AMMISSIONE ALL’INTEGRAZIONE SALARIALE.

 

OPPURE

 

(1) La domanda iniziale di ammissione all’integrazione salariale determina l’ente legittimato passivamente ad erogare le quote di t.f.r. maturate.

 

Le regole enunciate nella sentenza in commento s’inseriscono in un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza in materia di computo del trattamento di fine rapporto durante i periodi di sospensione del rapporto di lavoro a causa di integrazioni salariali. 

Per una migliore comprensione della vicenda affrontata dalla Suprema Corte è opportuno esaminare il dato normativo principale a cui la decisione si riferisce. Il terzo comma dell’art. 2120 c.c. stabilisce che “in caso di sospensione della prestazione di lavoro nel corso dell’anno per una delle cause di cui all’art. 2110, nonché in caso di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l’integrazione salariale, deve essere computato nella retribuzione di cui al primo comma l’equivalente della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto di lavoro”.

In generale, il t.f.r., secondo la dottrina, "è una retribuzione accantonata perfettamente determinata e facilmente calcolabile"[1]  e deve essere interpretata nel senso di una "retribuzione differita, venendo ad esistenza e diventando esigibile solo al momento della cessazione del rapporto di lavoro; momento questo che costituisce elemento costitutivo della fattispecie e non termine di adempimento di una retribuzione già maturata annualmente, sussistendo in precedenza dei meri accertamenti contabili".[2]

Sempre sulla natura del t.f.r. altro indirizzo dottrinale sostiene che "l'istituto si conferma come una forma di retribuzione differita a scopo di previdenza a sua volta qualificato da una specifica finalità, di risparmio obbligatorio a favore del lavoratore";[3] tali interpretazioni, permettono di “eliminare la diatriba sulla  natura giuridica del t.f.r.” unanimemente riconosciuto come retribuzione differita.[4] 

In merito poi all'interpretazione del terzo comma dell'art. 2120 c.c., si rileva che tale norma  "non deve essere intesa come una deroga, bensì come una opportuna specificazione e integrazione della regola, contenuta nel primo comma dello stesso art. 2120, secondo cui la quota annuale di accantonamento deve essere calcolata dividendosi per 13,5 soltanto la retribuzione dovuta per l'anno in corso.  Nei casi di sospensione in cui è previsto l'intervento della cassa integrazione guadagni l'ordinamento pone in tutto o in parte il trattamento economico spettante al lavoratore a carico dell'Istituto previdenziale, cosicché esso non può essere qualificato come retribuzione  in senso contrattuale stretto".[5]

Quindi, nei casi di sospensione del rapporto, come nella fattispecie in esame, il comma terzo dell’art. 2120 c.c., "prevede comunque l'inserimento nella base di calcolo del t.f.r. di una retribuzione figurativa pari a quella cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto". [6]

 Pertanto, durante le integrazioni salariali il rapporto di lavoro "continua a sussistere, nonostante le obbligazioni poste a carico delle parti (obbligo di svolgere la prestazione e obbligo di pagare la retribuzione) cadano in stato di quiescenza (…). Di conseguenza il periodo di c.i.g. è utile al fine del conseguimento del trattamento di fine rapporto".[7]

Inquadrato così l'istituto giuridico di riferimento principale si può iniziare ad analizzare il caso specifico; la vicenda riguarda appunto la quote del t.f.r. maturate durante un periodo di Cassa integrazione compreso tra il  20 maggio 1986  e il 19 maggio 1989.

E’ importante focalizzare tale periodo, in quanto la normativa applicabile alla fattispecie de quo è mutata nel tempo; infatti, nelle more della summenzionata integrazione salariale, interveniva la legge 86/88,  in virtù della quale, dalla data del 23.3.98 (entrata in vigore della nuova legge), tali quote sarebbero dovute essere erogate dall’I.N.P.S. 

Il punto controverso sottoposto all’esame del Collegio risulta essere l’esatta individuazione della disciplina applicabile “ratione temporis”, al fine di stabilire quale fosse realmente il soggetto obbligato ad erogare le previste quote di t.f.r. maturate durante la c.i.g., nonché la conseguente legittimazione passiva del medesimo. La problematica in analisi è pertanto esclusivamente di tipo temporale; il compito affidato alla Corte è di comprendere se l’I.N.P.S., a seguito di tale legge, dovesse anche accollarsi le quote di t.f.r. la cui erogazione, invece, era prima di competenza del Fondo della manodopera, costituito presso il Ministero del lavoro e della Previdenza sociale.[8]   

Per superare ogni dubbio interpretativo su chi sia il soggetto obbligato alle suddette erogazioni, come si vedrà meglio nel prosieguo della presente nota, è necessario analizzare, nello specifico, l’art. 8, comma 2 della  legge n. 86/88, norma che, in un certo senso, funge da “spartiacque” tra vecchia e nuova disciplina riferibile al caso in esame.

 In buona sostanza, le interpretazioni contrastanti riguardano l’effettiva abrogazione o meno operata da tale legge nei confronti delle norme che ponevano a carico del Fondo per la mobilità della manodopera gli oneri per le quote di t.f.r. per le fattispecie come quelle sopra individuate; citando una dottrina che ha commentato un caso analogo,  “si tratta di stabilire l’esatta portata della modifica ed in particolare in quale misura essa incida sulla legittimazione passiva nelle controversie concernenti le quote di T.f.r. maturate in costanza di intervento straordinario della C.i.g.”.[9]

E’ opportuno, tuttavia, prima di entrare nel merito della decisione, ricostruire ciò che la Suprema Corte ha definito come l’alterna evoluzione della materia “sviluppatasi essenzialmente in tre fasi nelle quali è possibile cogliere, come momento unificante, la tendenza ad un progressivo affiancamento delle quote di trattamento di fine rapporto maturate nel periodo di c.i.g. allo stesso trattamento di integrazione salariale”.

Le tre fasi evidenziate dai giudici di legittimità si possono sintetizzare nel modo seguente.

La prima, è disciplinata dalla legge 8 agosto 1972, n. 464 che all’art. 2 prevedeva la possibilità per le aziende di chiedere il rimborso alla cassa integrazione guadagni dell’indennità di anzianità corrisposta ai lavoratori licenziati al termine del periodo di integrazione salariale, limitatamente alla quota maturata durante tale periodo. 

La seconda fase è caratterizzata dalla legge 12 agosto 1977, n. 675, che con l’art. 21, comma 5, aveva posto a carico del Fondo per la mobilità della manodopera[10] le quote di indennità di anzianità maturate durante il periodo di integrazione salariale per ristrutturazione o riconversione aziendale dei lavoratori non rioccupati dalla stessa azienda al termine del summenzionato periodo per impossibilità dell’azienda di mantenere il livello occupazionale; pertanto, citando la Corte in commento, “veniva introdotto l’obbligo (non già rimborso, bensì erogazione diretta ) di un Fondo con gestione autonoma in caso di c.i.g.s.”. Secondo la dottrina con tale normativa la Cassa integrazione inizia a svolgere anche la "funzione di tutela della disoccupazione, in potenziale sostituzione dell'assicurazione a ciò precipuamente diretta".[11]  In questa fase poi, s’inserisce anche l’art. 2120 c.c., terzo comma, così come novellato dalla legge 297 del 1982, che stabilisce l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere le quote di t.f.r..

Tralasciando poi gli altri interventi normativi a cui i giudici fanno espressa menzione per un ulteriore riscontro sull’assetto della disciplina esaminata e del relativo obbligo del Fondo della manodopera, si passa, infine, alla terza fase (si vedano per tutte il decreto legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito in legge 19 dicembre 1984, n. 863, che prevede all’art. 1, comma 5, che le quote di tfr sono a carico del Fondo di cui all’art. 28 della legge n. 675/77).

In quest’ultima fase, invece, con l’art. 8, comma 2, del D.L 21 marzo 1988, n. 86 (convertito con modificazioni, in legge 20 maggio 1988, n. 160), avviene il trasferimento dell’obbligo de quo dal Fondo di mobilità direttamente a carico della c.i.g. e quindi dell’INPS. Infatti, tale articolo ha abrogato la previgente disciplina che onerava il Fondo del pagamento delle quote del TFR (abrogando così i commi 5 e 6 dell’art. 21 delle legga 12 agosto 1977, n. 675)  richiamando invece la precedente disciplina che poneva a carico della c.i.g. il pagamento in questione.

Secondo la Cassazione in commento però “questa nuova disciplina, che quindi ripristinava l’onere e responsabilità dell’INPS, operava solo per il futuro. Infatti il successivo comma 8 ha previsto che le disposizioni di cui ai commi primo e secondo trovano applicazione per le domande di integrazione salariale presentate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto e per i relativi periodi che siano successivi alla predetta data”.

A questo punto, in virtù di quanto sopra riferito, il nocciolo della questione rimane quello di stabilire in concreto, in questo avvicendarsi di competenze tra il Fondo e la C.i.g. (e quindi l’INPS), quale sia l’ente legittimato passivamente ad erogare le quote di t.f.r. maturate durante i periodi di sospensione del rapporto di lavoro dovuti ad integrazioni salariali. La Corte, per dirimire ogni dubbio al riguardo, richiama le interpretazioni della giurisprudenza intervenuta in fattispecie analoghe.  In tal senso, interessante e chiarificatrice risulta essere la recente decisione di Cassazione del 23 marzo 2002, n. 4171 (in Dir. e Giustizia, 2002, fasc. 15, 35). Tale sentenza afferma che “l’art. 8, comma 8, del d.l. n. 86/1988 contiene un’espressa disposizione circa l’incidenza temporale della disposizione abrogativa delle norme in questione relative all’intervento del Fondo per la mobilità della manodopera e al ripristino della disciplina previgente. Prevede, infatti, che le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 trovano applicazione per le domande di integrazione salariale presentate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto e per i relativi periodi che siano successivi alla predetta data". Secondo la citata sentenza, quindi, in relazione a tale norma si dovrà  stabilire se la medesima faccia riferimento “solo alla domanda iniziale di ammissione dell’impresa al trattamento straordinario di integrazione salariale”, oppure “anche alle istanze successive, dirette, dopo il decorso del primo semestre, all’estensione del beneficio ai successivi periodi trimestrali, condizionata (in genere) alla verifica dell’attuazione dei programmi di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale”.[12]

Sul punto, risulta fondamentale l’analisi della summenzionata decisione in quanto ripresa anche dalla sentenza in commento. Al riguardo, la Corte ritiene che la questione deve essere interpretata nel senso della fondatezza della prima di dette ipotesi  in quanto “la domanda iniziale e quelle successiva hanno natura giuridica e funzioni nettamente diverse. Solo la domanda iniziale di ammissione del datore di lavoro al regime di integrazione salariale è diretta all’emanazione di un provvedimento amministrativo (concessorio o autorizzativo), sulla base di una valutazione, da parte della competente autorità amministrativa, della situazione di fatto illustrata dal programma presentato dall’impresa interessata, e di un apprezzamento degli interessi pubblici coinvolti, relativi al governo dell’economia, in tutti i suoi riflessi sociali, occupazionali e produttivi; le richieste successive, invece, intervengono in relazione ad un rapporto già costituito, nell’ambito del quale il datore di lavoro è titolare di posizioni di diritto soggettivo e non di interesse legittimo, visto che la conferma dell’integrazione salariale per i periodi successivi presuppone solo verifiche non discrezionali circa il rispetto degli adempimenti cui il datore di lavoro è tenuto in base alla disciplina del rapporto”.[13] E' il provvedimento amministrativo di concessione dell'integrazione salariale che determina la sospensione del rapporto, atto che viene autorizzato su richiesta dell'impresa interessata, in presenza dei presupposti stabiliti dalla legge. [14]

Pertanto, come è stato giustamente rilevato dalla summenzionata decisione, in realtà il rapporto di ammissione alla c.i.g. è unico, anche a fronte di un frazionamento dei periodi per la verifica del regolare adempimento del datore agli obblighi per l’ammissione del medesimo ai benefici previsti. La corretta interpretazione della normativa in esame non può essere altra che il riferimento alla domanda iniziale di ammissione all’integrazione salariale e “non al singolo periodo in cui il rapporto è frazionato ai fine dell’erogazione”. Risulta così evidente che se la domanda iniziale di ammissione alla c.i.g., come nella questione oggetto dell’odierna analisi,  è antecedente all’entrata in vigore del D.L 21 marzo 1988, n. 86 (convertito con modificazioni, in legge 20 maggio 1988, n. 160), si applicherà la precedente normativa, più volte richiamata, che obbligava il Fondo per la mobilità al pagamento delle quote di t.f.r..

Sul punto è opportuno segnalare anche un altro indirizzo della giurisprudenza secondo cui “con l’art. 8, comma 2 legge n. 160/88 è stato abrogato l’art. 21, comma 5, legge 675 del 1977, che aveva posto le indennità di anzianità (ora T.f.r.) maturate durante il periodo di integrazione salariale a carico del Fondo della mobilità della manodopera. Il nuovo dettato normativo ripristina ex tunc il precedente regime contenuto nell’art. 2, comma 2, legge n. 464 del 1972, ponendo quindi tali quote a carico dell’INPS”.[15]

In senso conforme anche l’interpretazione della pronuncia in esame la quale, richiamando le decisioni di Cassazione del 7 luglio 2001, n. 9236, afferma che per i periodi anteriori al 23 marzo 1988, in virtù di quanto stabilito dall’art. 21, comma 5, legge 675/77, “obbligato è il fondo di garanzia e non l’INPS”, proprio perché, nel caso di specie, “trattandosi di un intervento della c.i.g. autorizzato per un periodo precedente alla data suddetta, la successiva modifica del 1988, per cui si supera l’obbligo a carico del Fondo e si ritorna al sistema dell’obbligo di rimborso della c.i.g., non si applica”.

Si può concludere la presente annotazione riportando il principio fondamentale sostenuto dai giudici di legittimità, principio, tra l'altro, che si inserisce nel solco già tracciato dal consolidato orientamento della giurisprudenza soprariferito, secondo cui, per determinare quale sia l’ente obbligato ad erogare le quote di t.f.r. maturate durante i periodi di integrazione salariale, “ciò che rileva è la data della domanda della c.i.g. (…), né certo la eventuale proroga del beneficio modifica la data di presentazione della domanda: il periodo della c.i.g. rimane unitario proprio perché si tratta di proroga e non già di nuova concessione”.

Pdf pubblicazione

[1] Alleva Piergiovanni, Trattamento di fine rapporto (Voce), Enc. Giuridica Treccani, vol. XXXV, 1994, 8.

[2] Pizzoferrato Alberto, Il regime della retribuzione e il T.f.r., Il Diritto del Lavoro, Ediesse, Roma, 2002, VII, pag. 42.

[3] Ghera Edoardo, Diritto del Lavoro, Cacucci, Bari, 2002, 396.

[4] Faragnoli Beniamino, La retribuzione, Il Diritto privato oggi, Collana a cura di Paolo Cendon, Giuffrè, Milano, 2002, 190; cfr. in giurispr., Cass., 14 dicembre 1998, n. 12548, in NGL, 1999, 248; Cass 18 novembre 1997, n. 11470, in MGC, 1997, 2211).

[5] Ichino Pietro, Il contratto di lavoro, Trattato di Dir. Civile e Commerciale, II, Giuffrè, Milano, 2003, 219.

[6] Grandi M. e Pera G., Sub art. 2120 cod. civ., Commentario breve sulle leggi del lavoro, Cedam, Padova, 2001, 544; sul concetto di tfr e retribuzione figurativa si veda anche Ichino P., op. cit., 219.

[7] Mammone G., "Trattamento di fine rapporto e c.i.g. straordinaria ex L. n. 675/1977", R.I.D.L., II,  1993, 502; Cfr. Cass. 19 marzo 1992, n. 3410, OGL, 488, citata da quest'ultimo autore per una puntuale ricostruzione normativa di tale principio.

[8] Per una disamina della normativa su t.f.r. e integrazioni salariali cfr.: Squeglia Michele, Manuale dell'impresa in crisi, Giapichelli, Torino, 2004, 74 e seg.; Bonati G. e Tosato L., La Cig Ordinaria e Straordinaria, Il Sole 24 Ore - Pirola Lavoro, Milano, 1995,167 e seg..

 

[9] Dondi, G., “La legittimazione passiva nelle controversie concernenti quote di t.f.r. maturate durante i periodi di intervento straordinario della c.i.g.", Toscana Lavoro Giuris., 1992, 40.

[10] Sulla funzione del Fondo di mobilità si veda D'Antona M., La disciplina della mobilità dei lavoratori nelle leggi di riconversione industriale, in AA. VV., Il diritto del lavoro nell'emergenza, Napoli, 1979, 28 e segg..

[11] Cottrau Giorgio, Cassa Integrazione Guadagni, (Voce), Enc. Giuridica Treccani, vol. III, 1999, 1, secondo cui l'uso della c.i.g. "è stato finalizzato in modo da permettere sia le ristrutturazioni programmate in un quadro organico, sia l'immediata riammissione in servizio dei lavoratori nell'attività produttiva, attraverso procedimenti di mobilità che garantiscono la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro immediatamente dopo la cessazione del vecchio".

[12] Cfr. art. 1, terzo comma, della legge 8 agosto 1972 n. 464.

[13] In tale senso si confronti anche, a conferma di un consolidato orientamento della  giurisprudenza, Cass., Sez. Un., 5 maggio 1999 n. 30 e 3 agosto 2000 n. 533; cfr. anche, per una puntuale ricostruzione dell'evoluzione normativa del tfr nei periodo di c.i.g., Cass. 5 marzo 2003, n. 3261.

[14] Cfr. Fontana Giacomo, Gli strumenti del governo delle eccedenze di personale, Il diritto del lavoro, Ediesse, Roma, 2002, 35 e 36, il quale definisce la concessione della c.i.g. come "provvedimento amministrativo in senso proprio" sulla cui impugnazione è competente il Tribunale amministrativo regionale e non il giudice del lavoro. In tal senso, tra le tante, cfr. Cass. S.U. 23 novembre 1999, n. 323, in M.G.L., 2000, 560;  Cass. 19 marzo 1997, n. 2432, in Foro It., 1997,  I, 1049; Cass. S.U. 20 giugno 1987, n. 5428, in  FI, 1988, I 2201.

[15] Tribunale Firenze 22/28 febbraio 1991, n. 84 in Toscana Lavoro Giuris., 1992, 34.