L’attuale periodo di pandemia e di legislazione emergenziale, pone una particolare riflessione sulle conseguenze che, da mesi, tutte le parti sociali e politiche hanno tentato di arginare alla fine del cosiddetto blocco dei licenziamenti.
Per mesi, le associazioni di categoria dei datori di lavoro hanno premuto affinché le società potessero tornare a licenziare i propri dipendenti in ragione della crisi economica provocata dal Covid.
Si può dire, in un certo senso, che oggi siamo alla resa dei conti perché, dopo due anni di pandemia e blocco dei licenziamenti, era inevitabile aspettarsi dei cambiamenti nel mondo del lavoro anche in ragione del fatto che la crisi provocata dall’emergenza sanitaria ha determinato una contrazione delle entrate per molte aziende che, nel peggiore dei casi, ne ha determinato la chiusura o la riorganizzazione con un modello organizzativo diverso e, in un certo senso, più leggero.
Una cosiddetta onda anomala di licenziamenti di tutti i tipi: economici, per soppressione del posto di lavoro, licenziamenti collettivi, licenziamenti per giusta causa.
È innegabile che la pandemia ha stravolto la redditività di molte aziende e realtà produttive, ma ciò non significa che tale situazione possa giustificare o autorizzare un uso indiscriminato, e a volte pretestuoso, dei licenziamenti.
Ogni situazione di estromissione dal lavoro deve essere valutata attentamente al fine di comprendere se il licenziamento sia giustificato e legittimo.
Per queste ragioni, ogni licenziamento presuppone uno studio approfondito della fattispecie al fine di contrastare efficacemente la perdita del posto di lavoro.
Come difendersi
L’indicazione sempre a tutti lavoratori in caso di licenziamento è quello di mettersi in contatto con un avvocato giuslavorista, o anche con il Sindacato, al fine di impugnare tempestivamente il recesso.
È necessario sapere che ci sono solo 60 giorni dalla data di comunicazione del recesso per impugnare il licenziamento.
Occorre fare molta attenzione a questo termine di 60 giorni di impugnativa del licenziamento, in quanto a volte assistiamo a delle pratiche diciamo, in un certo subdole, ove spesso e volentieri alcuni datori lavoro incrementano i recessi proprio nel periodo estivo tra metà luglio e agosto.
Ciò accade perché ad agosto sono chiusi sia sindacati che spesso anche gli studi legali e i lavoratori purtroppo vengono licenziati a metà luglio e così con l’estate di mezzo piò succedere che si scordino di impugnare tempestivamente il recesso entro tale termine di 60 giorni (o magari lo ignorano) e così rischiano che a settembre siano già decorsi i termini per impugnare il recesso che sono a pena di decadenza e a quel punto non si può fare proprio più nulla.
Rimedi giudiziali
Purtroppo, per quanto riguarda i rimedi giudiziali bisogna fare una premessa di ordine sistematico sui licenziamenti.
Il cosiddetto Jobs act, infatti, ha creato un vero e proprio spartiacque fra categorie di lavoratori in caso:
- dei cosiddetti licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, ossia per ragioni economiche, riorganizzazione aziendale e soppressione del posto di lavoro,
- di licenziamenti collettivi.
Infatti, in caso di licenziamento dichiarato illegittimo dal giudice:
- per quelli assunti prima del 7 marzo 2015, si applica l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e quindi la reintegrazione nel posto di lavoro, oltre un risarcimento del danno sino ad un massimo di 12 mensilità;
- per quelli assunti dopo del 7 marzo 2015, si applicano invece le regole del Jobs Act e, pertanto, solo nel caso di licenziamenti economici-organizzativi e collettivi, non spetta invece la reintegra ma solo un indennizzo economico.
Il solo indennizzo e non la reintegra (sempre in caso di licenziamenti economici e collettivi) per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 con il contratto a tutele crescenti si applica a prescindere dal fatto che le aziende abbiano un requisito dimensionali di oltre 15 dipendenti nell’unità produttiva in cui è avvenuto il licenziamento o complessivamente più di 60 dipendenti.
Occorre però evidenziare che il cosiddetto Decreto Dignità ha aumentato l’indennizzo per licenziamenti economici e collettivi illegittimi da un minimo di 6 mensilità ad un massimo di 36.
La novità importante che devono conoscere i lavoratori assunti con contratti cosiddetti a tutele crescenti dopo il 7 marzo 2015 (cosiddetto JOBS ACT) che l’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo (sempre per motivo economici-organizzativi e/o collettivi) non si basa più solo sull’anzianità di assunzione del lavoratore ma, a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale, su vari criteri tra cui l’anzianità aziendale che non rimane più l’unico requisito da valutare al fine del risarcimento.
Il giudice, pertanto, per determinare il risarcimento nel caso di recesso illegittimo deve porre in essere una serie di valutazioni per verificare quanto sia stata illecita o illegittima la condotta del datore di lavoro e, quindi, nonostante il lavoratore non sia stata assunto da parecchi anni, i risarcimenti tuttavia possono andare anche oltre le 15 mensilità.
In quel caso, è necessario andare a studiare attentamente il caso concreto che caratterizza la storia lavorativa del lavoratore, situazione per situazione, per dedurre in giudizio nel ricorso introduttivo tutte quelle circostanze di cui il giudice possa tener conto per la valutazione del risarcimento del danno/indennizzo.
Negli ultimi anni la giurisprudenza di merito ha dato risalto ad alcune circostanze per circoscrivere meglio il risarcimento del danno, come ad esempio:
- anzianità aziendale del lavoratore al momento del recesso,
- anzianità anagrafica, anche al fine della reale possibilità di collocarsi nel mondo del lavoro,
- la condotta del datore di lavoro che magari invece di licenziarlo poteva ricollocare il dipendente in azienda, cosiddetto repechage.
Quindi, una serie di fattori importanti che l’avvocato deve valutare ex ante e poi prospettare, in maniera specifica ed analitica, al giudice nel ricorso introduttivo della causa.