Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e criteri di scelta

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Rivista Giuridica del Lavoro n.2/2005

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 CASSAZIONE, 11 giugno 2004, n. 11124, Sez. lav. – Pres. Sciarelli, Rel. Vigolo, P.M. De Augustinis (diff.), Cordeschi Luciana (avv.ti Alleva e Panici) c. Cooperativa Fra Produttori Latte S.r.l. (avv. Autieri).

Lavoro – lavoro subordinato – licenziamento individuale -  licenziamento per giustificato motivo oggettivo -  ragioni economiche – soppressione del posto di lavoro – inapplicabilità legge n. 223 del 1991 per mancanza dei requisiti occupazionali e dimensionali – lavoratori in posizione di fungibilità – comportamento vessatorio e persecutorio del datore di lavoro – profili di molestie sessuali – motivo illecito del licenziamento – insussistenza - illegittimità del licenziamento per violazione dei criteri di correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c. – mancata applicazione analogica criteri di scelta ex art. 5 L. 223 del 1991.

In caso di licenziamento di un dipendente dovuto a ragione economiche, quando vi è una generica esigenza di riduzione del personale, il nesso di causalità tra questa necessità ed il licenziamento può non rappresentare una sufficiente funzione individualizzante del lavoratore licenziabile; dunque, la selezione del lavoratore non avrebbe dovuto essere compiuta liberamente, ma con applicazione analogica di criteri obiettivi quali quelli dei carichi di famiglia e dell’anzianità previsti dall’art. 5 della legge 223 del 1991, escludenti l’arbitrarietà della scelta, in attuazione degli artt. 2, 3, e 41, comma 2, della Costituzione (che impongono una maggior tutela del lavoratore socialmente più debole, rispetto al più avvantaggiato).

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO.

Con sentenza in data 27 marzo / 14 agosto 2002, il Tribunale di Latina rigettava l'appello proposto dalla sig.ra Luciana Cordeschi nei confronti della ex datrice di lavoro, s.r.l. Cooperativa tra Produttori Latte, avverso la sentenza 1° dicembre 1997, con la quale il Pretore della stessa sede aveva rigettato il ricorso della lavoratrice, volto a sentir dichiarare, con le consequenziali pronunce reintegratoria e risarcitoria, la illegittimità o la nullità e inefficacia del licenziamento, intimatole dalla Cooperativa il 26 maggio 1997 per giustificato motivo oggettivo.

Per la cassazione di questa sentenza ricorre la lavoratrice affidandosi a due motivi.

Resiste la Cooperativa con controricorso illustrato con memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE.

La ricorrente deduce, col primo motivo, violazione degli artt.. 3 e 5 della legge n. 604 del 1966 e degli artt.1175 e 1375 c.civ., nonché vizio di motivazione e sostiene che il 'licenziamento, non determinato dalla soppressione di funzioni aziendali, in particolare di quelle specifiche della lavoratrice, ma dalla esigenza (comunemente ritenuta insufficiente dalla giurisprudenza di legittimità) di ridurre i costi per il personale, avrebbe imposto che il lavoratore da licenziare fosse individuato secondo correttezza e buona fede, mediante criteri oggettivi analoghi a quelli previsti dalla legge n.223/1991 (anzianità di servizio: la ricorrente era la più anziana; - carico familiare: la dipendente aveva due figli e il marito disoccupato), tanto più che la Cooperativa aveva ammesso la fungibilità dei posti degli addetti all'ufficio amministrazione.

Col secondo motivo, denunciando la violazione degli artt. 2697, 1418 e 1343 c.civ. nonché vizi di motivazione, la Cordeschi si duole che il giudice di appello abbia trascurato i gravi comportamenti vessatori, umilianti e ingiuriosi nei propri confronti del presidente della Cooperativa (risentito dal rifiuto di proprie “avances"), comprovati da registrazioni foniche, dalla deposizione del capofabbrica Pennacchio e di Walter Renzo e determinati anche da ragioni sindacali, tanto che tutti gli iscritti alla CGIL, della quale la Cordeschi era rappresentante aziendale, erano stati indotti ad iscriversi ad altro sindacato, come riferito dal teste Marzullo.

In ordine al dedotto “ricatto sessuale”, il giudice di appello avrebbe dovuto tener conto della difficoltà della prova, pur gravante sulla lavoratrice, e in ragione di ciò avrebbe dovuto valorizzare la deposizione del teste Renzo sul fatto che il Presidente della cooperativa gli aveva confidato che "la Coredeschi gli piaceva e che ci avrebbe provato"', si sarebbe, inoltre, dovuto considerare che mai quest'ultimo aveva smentito la circostanza.

I due motivi che, per la stretta connessione delle censure, meritano di essere congiuntamente esaminati, sono fondati nel senso e nei limiti delle considerazioni che seguono.

II giudice d’appello ha ritenuto provata la profonda crisi economico-finanziaria e commerciale della società, a partire dagli inizi dei 1996, che l'aveva indotta a ridurre di un’unità il personale dell'area impiegatizia, settore contabilità, attraverso la soppressione della figura eccedentaria di “addetto alla contabilità varia” e quindi del posto occupato dalla Cordeschi.

Non erano sindacabili dal giudice le scelte organizzative dell'imprenditore in ordine al riassetto aziendale e alla soppressione del posto, non determinata dal semplice intento di ridurre i costi (sebbene dall'esigenza di ridurre le perdite in vista del superamento della crisi), con ridistribuzione delle relative mansioni tra gli altri quattro addetti alla contabilità.

La possibilità di 'repéchage' doveva escludersi, considerate le limitate dimensioni dell'azienda (che occupava solo dieci dipendenti con mansioni impiegatizie) e la mancanza di allegazioni della stessa lavoratrice in ordine alla possibilità di un proprio diverso impiego in mansioni analoghe e compatibili.

Infine, sempre ad avviso del giudice d’appello, non era stato provato un intento ritorsivo o discriminatorio del licenziamento che si fosse sovrapposto, quale causa esclusiva della volontà di risolvere il rapporto, seppure era esistito un atteggiamento ostile del presidente della Cooperativa nei confronti della lavoratrice cui aveva rivolto frasi offensive; volgari, ma non anche, per quanto acquisito nell'istruttoria, richieste di prestazioni sessuali, né erano risultati impedimenti alla di lei attività sindacale, né le umilianti disposizioni riferite dalla dipendente.

Questa Corte ritiene, anzitutto, non condivisibile la limitativa considerazione dell'atteggiamento ostile posto in essere dal presidente della cooperativa nei confronti della lavoratrice, in quanto, secondo il Tribunale, esso non sarebbe stato “determinativo” del licenziamento.

Il giudice d’appello ha accertato che in effetti il presidente aveva rivolto alla Cordeschi frasi offensive e volgari, risultate da registrazioni fonografiche prodotte in atti e le ha ritenute configurare (non un fatto episodico, ma) un 'atteggiamento' di avversione del superiore rispetto alla dipendente: anche se non erano stati provati altri gravissimi fatti denunciati da quest'ultima, il Tribunale ha ritenuto accertato "un inqualificabile comportamento vessatorio ed inamissibilmente lesivo della dignità della lavoratrice" manifestato anche alla presenza di tutti gli operai riuniti.

In considerazione di tale cattiva disposizione nei riguardi della lavoratrice, tanto più il giudice di merito avrebbe dovuto approfondire l'indagine circa l'osservanza da parte datoriale dei canoni generali di correttezza e buona fede nell'intimare il licenziamento alla Cordeschi, pur in presenza di ragioni oggettive che imponevano la riduzione del personale; a maggior ragione, in quanto della possibilità di fare a meno dell'opera della ricorrente il Presidente della Cooperativa si sarebbe reso conto, secondo il Tribunale, nel corso di un periodo di assenza (pur giustificata) della medesima, durante il quale le sue mansioni erano state ridistribuite tra altri dipendenti addetti alla gestione contabile (il che pure avrebbe potuto eventualmente essere indice, da valutare adeguatamente dal giudice di merito, del fatto che la scelta datoriale fosse stata determinata anche dalle assenze della Cordeschi).

Tanto considerato ed essendo accertato che alla contabilità erano addette, per settori, quattro persone, il giudice d’appello avrebbe dovuto accertare   se    si   fosse    trattato    di    posizioni    lavorative    tra    loro sostanzialmente   fungibili   per   competenze   funzionali   e   conoscenze tecniche  tanto che la Cordeschi avrebbe potuto, eventualmente, svolgere i compiti propri degli altri addetti e, in caso affermativo, avrebbe dovuto dare  ragione,   essendo   la prova della  giustificatezza del licenziamento a carico del datore di lavoro, di come l'individuazione del lavoratore da licenziare proprio nella persona della Cordeschi fosse stata conforme a correttezza e buona fede.

Questa Corte, infatti, ha già avuto occasiona di affermare che "l'esigenza  derivante da ragioni inerenti l'attività produttiva, di ridurre di uno o più unità il numero dei dipendenti dell'azienda, se non da luogo ad ipotesi di licenziamento collettivo, regolata dalla legge n. 223 del 1991 (la cui  applicabilità è riservata a fattispecie specificamente individuate), può di per sè concretare un giustificato motivo obiettivo di licenziamento individuale, la cui legittimità dipende, tuttavia, dall’ulteriore condizione della comprovata impossibilità di utilizzare 'aliunde' il  lavoratore licenziato, ovvero dal rispetto delle regole di correttezza di cui all'art. 1175 c.civ., nella scelta  del lavoratore licenziato tra più lavoratori occupati in posizione di piena fungibilità (Cass. 21 nov. 2001, n. 14663).

Ha     osservato     la    Corte    suprema    che,    mentre  l'intento discriminatorio,  in quanto causa estrinseca d’invalidità del recesso, va provato da Parte di chi lo deduce, la correttezza o la buona fede costituiscono modalità proprie dell'esercizio del diritto, vale a dire condizioni intrinseche della validità del medesimo diritto la cui dimostrazione - nel caso di recesso datoriale - fa carico a quest'ultimo in quanto onerato (art. 5 della legge n.604/1966) di fornire la prova della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento.

Orbene, mentre, nel caso di specie, alla luce degli accertamenti del giudice di merito, non può farsi questione della possibilità di repéchage, avendo a tale proposito il giudice di merito accertato che-siffatta possibilità era in concreto non ravvisabile, è ipotizzarle, invece, che le ragioni produttive addotte dalla Cooperativa non si prospettassero rispetto ad una individuata lavoratrice tra gli addetti alla contabilità, ma ad una generica posizione lavorativa, stante la del pari generica esigenza di riduzione di personale, sicché il nesso di causalità tra questa necessità e il licenziamento può non rappresentare una sufficiente funzione individualizzante del lavoratore licenziabile; dunque, la selezione del lavoratore non avrebbe potuto essere compiuta liberamente, ma con applicazione analogica di criteri obiettivi quali quello dei carichi di famiglia e dell'anzianità previsti dall'art. 5 della legge n. 223 del 1991, escludenti l'arbitrarietà della scelta, in attuazione degli artt. 2, 3, comma secondo, e 41, comma secondo, della Costituzione (che impongono una maggior tutela del lavoratore socialmente più debole, rispetto al più avvantaggiato). A tale proposito è mancata .del tutto l'indagine del Tribunale e ad essa dovrà provvedersi nel giudizio di rinvio.

Conclusivamente, assorbito ogni altro profilo di censura, le considerazioni svolte impongono di accogliere il ricorso per quanto di ragione. La sentenza impugnata deve essere annullata e la causa deve essere rinviata, per nuovo esame sul punto da ultimo posto in rilievo, ad altro giudice equiordinato, designato in dispositivo. Allo stesso giudice è opportuno demandare altresì il regolamento delle spese di questo giudizio.

Q. M.

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma.

 

IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO E L'OBBLIGO DI ADOZIONE DEI CRITERI DI SCELTA: LIMITI ESTERNI ED INTERNI AL POTERE DATORIALE DI RECESSO TRA DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE E PRINCIPIO DI CORRETTEZZA E BUONA FEDE (1-7).

 

Premessa in fatto.

La sentenza oggetto dell'odierno commento risulta essere molto interessate perché la vicenda posta al vaglio della Suprema Corte presentava vari profili ed istituti giuridici da approfondire, alcuni solamente sfiorati ed altri, invece, trattati nello specifico. 

 Al fine di una migliore comprensione della questione è opportuno ricostruire i punti essenziali della fattispecie per comprendere appieno la complessità della problematica giuridica sottesa, anche con riferimento ai fatti dedotti dalla ricorrente che, comunque, meritano un opportuno inquadramento.

La ricorrente adiva la Suprema Corte deducendo che il licenziamento intimatole dalla Cooperativa Fra Produttori Latte fosse privo di un giustificato motivo; il licenziamento, infatti - preceduto da lunghi mesi d’umiliante dequalificazione ed emarginazione, anche fisica, nell’azienda -  era stato originato dal netto rifiuto opposto all’insistente richiesta di prestazioni sessuali da parte del Presidente della Cooperativa..-

In particolare, la lavoratrice evidenziava che la pronunzia del giudice di Appello fosse errata sotto diversi profili e, innanzitutto, per violazione e falsa applicazione dell’art. 3 legge n. 604/1966, dal momento che non era stata data prova da parte del datore di lavoro della soppressione del posto di lavoro specifico ricoperto dalla signora Cordeschi, con ammissione, invece, di permanenza e ridistribuzione delle mansioni alla medesima affidate. Inoltre, la ricorrente rilevava che il datore di lavoro non aveva dimostrato l’impossibilità di un diverso utilizzo, né provato e spiegato  le ragioni  per  cui il provvedimento di licenziamento fosse ricaduto proprio sulla lavoratrice, sicuramente la più anziana come servizio (17 anni) e con  un maggiore carico familiare. La Cordeschi, pertanto, desumeva che le reali ragioni sottese a detto licenziamento fossero ravvisabili in un motivo illecito; dall'istruttoria, infatti,  emergeva un'ostilità personale del Presidente della Cooperativa (così come risultante dalle registrazioni fonografiche prodotte in giudizio), derivante proprio dai rifiuti opposti ad un certo tipo di “avances”. Al riguardo, la ricorrente rilevava che il Tribunale di Latina, nell'espletata istruttoria, aveva acclarato un comportamento ostile del Presidente della Cooperativa, la progressiva emarginazione della stessa, la problematica sindacale in cui era stata coinvolta, nonché  le precedenti avances del Presidente della Cooperativa nei suoi confronti.

Il giudice di Appello, pur dando atto della sussistenza di tale atteggiamento vessatorio da parte del Presidente della Cooperativa  nei confronti della lavoratrice, riteneva, tuttavia, che ciò non fosse sufficiente a qualificare il licenziamento come unicamente determinato da motivo discriminatorio. Il vero motivo del licenziamento, a giudizio del Tribunale di Latina, doveva rinvenirsi in una crisi aziendale nel cui quadro trovava comunque giustificazione il recesso.

La ricorrente, infine, evidenziava l'errore del giudice di secondo grado secondo cui, nella controversia de quo, non poteva invocarsi l’applicazione di particolari criteri di scelta del lavoratore licenziando poiché si era di fronte a fattispecie differente rispetto a quella prevista per i licenziamenti collettivi. Il giudice di Appello, infatti, riteneva legittimo il licenziamento in quanto dovuto solo ad una soppressione della singola figura lavorativa che giustificava pertanto il recesso per giustificato motivo oggettivo.

 

I punti salienti della fattispecie.

Ricostruita così la vicenda  posta al vaglio della Corte di Cassazione è opportuno analizzare i punti salienti del caso di specie, al fine di comprendere sia l'iter logico giuridico che ha determinato il convincimento dei giudici di legittimità per l'accoglimento del ricorso sia a quali profili giuridici è stato dato maggiore risalto.

Preliminarmente, si rileva che la questione presentava molti punti "spinosi", in quanto la ricorrente deduceva la violazione e falsa applicazione di norme giuridiche fondamentali come gli articoli 3 e 5 della legge 15 luglio 1966 n. 604, degli articoli 1175 e 1375 del codice civile, desumendo, tra l'altro, la violazione delle norme relative all'onere della prova ex art. 2697 c.c. in merito alla fattispecie del ricatto sessuale sul luogo di lavoro.

In ogni modo, fin da subito, si deve evidenziare che, al di là delle richieste di riforma della sentenza di Appello, come sopra evidenziate, la Corte, tuttavia, ha focalizzato la propria attenzione principalmente sugli obblighi di correttezza e buona fede a cui ogni rapporto di lavoro deve necessariamente ispirarsi, ravvisando, nel caso concreto, una violazione di tali principi per tutte le ragioni che di seguito si spiegheranno.

 

Le molestie sessuali in azienda: questioni interpretative sull'onere della prova in caso di licenziamento invalido per motivo illecito.

Consta appurare, con un po' di rammarico, che la Suprema Corte non ha ritenuto di trattare specificatamente la vicenda riguardante l'onere della prova in caso di ricatto sessuale, così come denunciata dalle difesa della Cordeschi, sebbene il giudice d'Appello avesse comunque constatato che il Presidente della Cooperativa aveva posto in essere nei confronti della medesima un "inqualificabile comportamento vessatorio ed inammissibile, lesivo della dignità della lavoratrice".

In merito, si rileva che agli atti del processo erano state acquisite le registrazioni fonografiche dalle quali si evinceva che il Presidente della Cooperativa aveva rivolto alla ricorrente frasi offensive e volgari. Sulla pienezza della prova in tal senso si significa che ai sensi dell’art. 2712 c.c. le registrazioni fonografiche “formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità…”. Conseguentemente, sulla validità di tale prova non possono esserci dubbi anche perché controparte, nel corso del giudizio, non aveva avanzato alcuna contestazione sull'autenticità  e veridicità delle affermazioni in esse contenute.

A questo punto la Suprema Corte, poiché nei fatti era chiaro l'atteggiamento a dir poco ostile del citato Presidente della Cooperativa, avrebbe ben potuto affrontare nella decisione de quo anche la questione relativa alle dedotte molestie sessuali. 

Il caso di specie, forse, proprio per la complessità della vicenda e per i diritti primari sottesi a tale accertamento, quali la tutela della dignità e della personalità morale della ricorrente,  meritava una maggiore attenzione sull'accertamento o meno dei presupposti per una pronuncia su un'eventuale invalidità del licenziamento per motivo illecito, così come richiesto dalla ricorrente. Le circostanze dedotte della Cordeschi, in merito alle cosiddette "avances",  anche se non specificatamente provate, presentavano in ogni caso quel fumus necessario e sufficiente affinché vi fosse un'indagine più specifica. Le molestie sessuali, infatti, oltre a realizzare un inadempimento contrattuale per gli obblighi inerenti il rapporto di lavoro, costituiscono una violazione dei diritti costituzionalmente garantiti, quali la dignità, l'integrità ed il benessere psico-fisco.[1] 

Il fenomeno delle molestie sessuali può, peraltro, "fungere da tramite, da fase preparatoria al mobbing sessuale: il mobbing è la ritorsione, la vendetta del molestatore respinto….caratteristica principale di questa forma di mobbing è la natura degli attacchi; il mobber sessuale usa strategie mobbizzanti a sfondo sessuale: calunnie, voci, diffamazioni sulle abitudini sessuali della vittima costituiscono il metodo più usato". [2] 

Tra l'altro, un siffatto approfondimento sarebbe stato utile a formare un nuovo precedente  su una materia, come quella della ripartizione dell'onere della prova in caso di dedotte molestie sessuali sul luogo di lavoro, e quindi del motivo illecito del licenziamento, che, invece, manca di specifiche decisioni in tal senso (per completezza di trattazione si riportano, in nota, alcuni passi delle sentenze più significative della Suprema Corte in materia di molestie sessuali: Cass. 8 gennaio 2000 n. 143 e Cass. 30 gennaio 2002 n. 5825).[3]

Al riguardo, occorre evidenziare che colui il quale eccepisce l'illiceità del motivo di licenziamento giustamente deve darne la prova, ma, nella maggior parte delle ipotesi, detta prova risulta "quasi diabolica" ed è difficilissima da raggiungere soprattutto se tale motivo è determinato da molestie sessuali. Infatti, risulta evidente che la molestia sessuale sul luogo di lavoro nasce in un contesto dove chi attua tale riprovevole atteggiamento, di certo, ben si guarda dall'esternarlo innanzi a testimoni o a manifestarlo per iscritto.  Inoltre, la giurisprudenza che si è occupata di tale fattispecie è limitatissima, vi sono poche pronunce  pur a fronte di una fattispecie che risulta invece abbastanza diffusa nei rapporti di lavoro. Senza che in questa sede sia necessario un approfondimento in tal senso, da anni le cronache dei giornali, le ricerche statistiche e le indagini sociologiche hanno posto l'attenzione su questo fenomeno che ha una maggiore diffusione proprio in quei luoghi dove il contatto tra le persone è quotidiano, come difatti avviene sul posto di lavoro.

Basti pensare, a riprova di quanto sopra riferito, che la ormai nota sentenza del Tribunale di Torino del 16 novembre 1999[4] (decisione che per la prima volta si è occupata concretamente di un episodio di mobbing delineandone i contorni della fattispecie ed i profili giuridici rilevanti), riguardava proprio una vicenda che, per molti aspetti, appare simile a quella oggi in commento. Ricostruiamone brevemente gli aspetti caratterizzanti la questione sottoposta all'attenzione del Tribunale di Torino: l'istruttoria aveva accertato che una lavoratrice era stata oggetto di gravi atti di persecuzione da parte del caporeparto, suo diretto superiore, il quale, bestemmiando, inveiva contro di lei, insultandola e deridendola davanti ai colleghi; inoltre, la medesima, oltre ad essere stata costretta a lavorare in un ambiente angusto, aveva anche subito delle molestie sessuali dal proprio diretto superiore. 

Pertanto, in vicende così delicate come quella in analisi, dove vi è stata una lesione di diritti fondamentali costituzionalmente tutelati, sarebbe opportuno che l'interprete, chiamato a valutare l'onere probatorio, affronti il caso nel suo complesso traendone le logiche e necessarie conclusioni.

Nel caso di specie, ad esempio, il Tribunale di Latina aveva accertato l'atteggiamento ostile e persecutorio posto in essere dal Presidente della Cooperativa nei confronti della lavoratrice. Pertanto, sarebbe stato opportuno affrontare la questione nel suo complesso cercando di comprendere le reali ragioni sottese a tale comportamento vessatorio che, molto probabilmente, hanno determinato il licenziamento della ricorrente.

In altri termini, senza volere affermare che si debba giungere ad una "attenuazione" dell'onere probatorio, tuttavia, tramite l'istituto giuridico delle presunzioni (di cui più specificatamente si dirà in seguito) la valutazione complessiva del comportamento di colui il quale pone in essere atti mobbizzanti, in cui rientrano sicuramente le molestie sessuali, può assumere rilievi di notevole interesse, così come già avviene in altre fattispecie giuridiche in cui si fa già ricorso a tale disposizione (si veda ad esempio l'onere della prova sul risarcimento del danno da dequalificazione dove la giurisprudenza prevalente ritiene che esso può essere determinato anche in maniera presuntiva).

 

Illiceità del motivo di licenziamento. Le presunzioni ex art. 2729 c.c. per superare il rigido schema dell'onere della prova, quasi diabolico, in caso di molestie sessuali. La valutazione del comportamento complessivo del molestatore. Una soluzione percorribile.

Si potrebbe prendere come punto di riferimento, al fine  di un'indagine speculativa che in via analogica possa portare a soluzioni giuridiche sensibili ad esigenze così importanti, quanto fin qui elaborato dalla giurisprudenza in tema dell'onere della prova in tema dequalificazione professionale dove "una volta provati, tramite semplici indizi in ordine all'entità, intensità e durata del pregiudizio (per fare un esempio nel caso di demansionamento, una volta provata la consistente erosione della mansione o la totale inattività, rifluenti rispettivamente nei caratteri della entità e della intensità del pregiudizio anche in relazione alla tipologia delle mansioni espletate, nonché la durata del demansionamento) il pregiudizio sarà risarcibile dal giudice in via equitativa ex art. 1225 e 2056 c.c., in quanto l'illegittimo comportamento demansionante conseguono - per valutazione di indizi concludenti e per dato comune di esperienza o fatto notorio ex art. 115 c.p.c. - i danni lamentati alla professionalità e all'immagine interno/esterno all'azienda".[5]

L'orientamento prevalente della giurisprudenza ritiene la non necessità della prova del danno alla professionalità una volta provata l'erosione delle mansioni in quanto il danno è in re ipsa e che sia sufficiente anche una prova presuntiva.[6]

Al riguardo, si riportano alcune recenti pronunce della Cassazione che trattano specificatamente il risarcimento del danno da dequalificazione e la problematica dell'onere della prova del relativo risarcimento.

In tal senso, la Suprema Corte in una recente sentenza del 29 aprile 2004, n. 8271, ha affermato che ai fini del risarcimento del danno da dequalificazione, il Giudice deve considerare la perdita del “bagaglio professionale”, nonché il pregiudizio morale e psicologico derivante dalla relegazione in mansioni inferiori, incidente anche sulla vita da relazione; in caso di accertamento di demansionamento del lavoratore in violazione dell’art. 2103 c.c., il Giudice può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone l’entità in via equitativa, con processo logico giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla durata della dequalificazione ed altre circostanze del caso concreto.[7]

Sulla lesione della professionalità del lavoratore e sulla prova del risarcimento si segnala anche un altro recente indirizzo della Cassazione, sentenza n. 2354 del 7 febbraio 2004, conformemente ad una vasta giurisprudenza di merito nonché di legittimità, secondo cui "l'art. 2103 cod. civ., tutela la professionalità del lavoratore, escludendo che lo stesso possa essere adibito a mansioni qualitativamente inferiori a quelle precedentemente svolte. ………..In caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell'art. 2103 c.c., il giudice di merito……..può desumere l'esistenza del relativo danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla durata della dequalificazione e alle circostanze del caso concreto".[8]

Il ragionamento fin qui argomentato trova conferma, sempre in via analogica, in quanto sostenuto da una parte della dottrina[9] secondo cui "…l'orientamento che ha posto a carico del lavoratore demansionato l'onere di provare pienamente l'esistenza e l'entità del danno lamentato - richiesta il cui rigore se può sembrare razionale relativamente alla tipologia del danno biologico - davvero non pare adeguatamente considerare che, trattandosi di eventi dannosi che si producono pur sempre su beni immateriali, quali la professionalità, la dignità, l'immagine, anche se suscettibili di valutazione patrimoniale, comportano inevitabilmente il ricorso alla prova per presunzioni, che nel nostro ordinamento trova pieno diritto di cittadinanza attraverso la previsione dell'art. 2729 c.c.".[10]    

L’istituto delle presunzioni viene poi legittimamente utilizzato anche in altre situazioni in cui l’ottemperamento dell’onere della prova è tutt’altro che semplice, come nel caso dimissioni annullabili perché rassegnate in stato d’incapacità naturale. Al riguardo, si è affermato che “la prova dell’incapacità può essere data con ogni mezzo o in base a indizi e presunzioni, che anche da soli, se del caso possono essere decisivi ai fini della configurabilità  (…) quindi lo stato di incapacità d’intendere e di volere può essere provato in modo indiretto in base ad indirizzi e presunzioni, che anche da soli possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità”.[11]

Fatta questa doverosa premessa, occorre evidenziare che nella specifica vicenda oggetto di odierna trattazione, forse, non risultava pienamente dimostrata la difficile prova, quasi diabolica, del motivo illecito determinante il recesso. Tuttavia, a tale carenza si poteva sopperire appunto con i criteri presuntivi sopra riferiti avendo come riferimento il comportamento globale tenuto del Presidente della Cooperativa. Ed infatti, la problematica sottoposta all'attenzione della Suprema Corte, in merito al dedotto ricatto sessuale in azienda, che avrebbe determinato il licenziamento (in merito quindi alla prova del motivo illecito), ben poteva essere affrontata - in via analogica - utilizzando i principi sopra specificati, facendo così ricorso alle presunzioni previste dalla legge ex art. 2729 c.c. poiché, nel caso di specie, vi erano sicuramente indizi "gravi, precisi e concordanti".

In tal senso l’orientamento della Suprema Corte afferma che “in tema di prova per presunzioni (la quale rappresenta uno strumento, normativamente concesso al giudice, che permette di arrivare alla conoscenza di un fatto per il quale non sia possibile dare una diretta dimostrazione, attraverso un procedimento logico), giacché non occorre che i fatti su cui si fonda la presunzione siano tali da far apparire l’esistenza di un fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio, è sufficiente che il fatto ignoto sia desunto alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento ad una connessione di avvenimenti possibile secondo un criterio di normalità”.[12]

Si segnala, altresì, l’indirizzo delle Sezioni Unite, sentenza n. 9961 del 1996, secondo cui nella prova per presunzioni ai sensi dell’articolo 2729 c.c. “ non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile. Infatti, è sufficiente che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza”.

Al riguardo, si rileva che il Tribunale di Latina aveva accertato un comportamento del datore di lavoro definito in sentenza “inqualificabile, vessatorio ed inamissibilmente lesivo della dignità della lavoratrice". E ciò a fronte di una condotta invece ineccepibile della dipendente: non è stato infatti contestato alcun addebito, né irrogata alcuna sanzione disciplinare. E allora perché tale contegno ostile, insultante, denigratorio ed inqualificabile posto in essere dal Presidente della Cooperativa? Forse perché la ricorrente non aveva accettato le avances di quest'ultimo. Al riguardo, si rileva che uno dei testimoni escussi in primo grado, tra l'altro, aveva  dichiarato che il Presidente della cooperativa “…con il quale ero amico mi confidò  che la Cordeschi le piaceva  e che ci avrebbe provato…”.

Pertanto, avendo come riferimento principale il sopra citato insegnamento delle Sezioni Unite, nella questione in oggetto vi era sicuramente un “rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto” (e quindi tra le vessazioni e le molestie sessuali) che poteva essere accertato “alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza”.

A conclusione di tale ragionamento si evidenzia che le molestie sessuali e la dequalificazione professionale sono entrambe situazioni mobbizzanti poiché vi è una parziale identità di beni lesi, essendovi una intersecazione dell'area della libertà e della dignità sul lavoro. Pertanto, le due situazioni sono sorrette da una medesima esigenza di tutela in virtù della quale ciò che è disposto per l'una (la dequalificazione) può trovare applicazione per l'altra (la molestia sessuale). Se la giurisprudenza ricorre all’istituto giuridico delle presunzioni per l'accertamento della violazione alla professionalità non si vede per quale ragione, in virtù di quanto fin qui argomentato, non possa farsi applicazione dello stesso strumento in caso di tutela della libertà sessuale.  

A supporto di quanto fin qui esposto in merito all'onere della prova sulle molestie sessuali, si evidenzia che il Tribunale di Latina, pur avendo accertato il comportamento ostile e vessatorio del datore di lavoro, tuttavia, non ha ritenuto che il recesso datoriale  fosse stato una logica conseguenza del rifiuto della ricorrente di accettare le cosiddette avances del Presidente della Cooperativa, né ha tenuto in debito conto le pesanti ingiurie e le minacce di licenziamento rivolte alla medesima nei mesi precedenti il recesso.

 

I principi enunciati dalla Suprema Corte in materia di violazione degli obblighi di correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c..

La Suprema Corte non ritiene condivisibile la limitata attenzione posta dal Giudice di Appello sull'atteggiamento ostile posto in essere dal Presidente della Cooperativa nei confronti della lavoratrice in quanto, secondo il Tribunale di Latina, tale comportamento "non sarebbe stato determinativo del licenziamento". La Cassazione nella sentenza in commento, in merito a tale questione, evidenzia invece l'errore in cui è incorso il giudice di secondo grado che, comunque, pur accertando in concreto un atteggiamento persecutorio nei confronti della ricorrente da parte del Presidente della Cooperativa, non ha però ritenuto che tale comportamento fosse determinante per il licenziamento. Ed infatti, secondo la Suprema Corte, l'errore del Tribunale deve essere ravvisato nella circostanza per cui lo stesso aveva accertato che "in effetti il Presidente aveva rivolto alla Cordeschi frasi offensive e volgari, risultate da registrazioni fonografiche prodotte in atti e le ha ritenute configurare (non un fatto episodico, ma) un atteggiamento di avversione del superiore rispetto alla dipendente: anche se non erano stati provati altri gravissimi fatti denunciati da quest'ultima, il Tribunale ha ritenuto accertato un inqualificabile comportamento vessatorio ed inammissibile lesivo della dignità della lavoratrice manifestato anche alla presenza di tutti gli operai riuniti ".

Ciò a giudizio dei giudici di legittimità rileva sicuramente "una cattiva disposizione nei riguardi della lavoratrice"  episodio questo di cui il Tribunale invece non ha tenuto conto. Peraltro, sempre secondo la Cassazione, il giudice d’Appello, proprio in virtù dell'accertato comportamento vessatorio, avrebbe "dovuto approfondire l'indagine circa l'osservanza da parte datoriale dei canoni generali di correttezza e buona fede nell'intimare il licenziamento alla Cordeschi, pur in presenza di ragioni oggettive che imponevano la riduzione del personale".

A questo punto occorre focalizzare la nota odierna sul principio cardine affermato dalla Cassazione che rappresenta oggi un ulteriore passo in avanti della giurisprudenza in materia degli obblighi di correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c. e 1375 c.c. che necessariamente devono essere rispettati nell'ambito delle scelte imprenditoriali in materia di licenziamenti individuali. La Corte, infatti, nel licenziamento de quo è stata chiamata a pronunciarsi sul rispetto delle regole della correttezza e buona fede da parte del datore di lavoro.

 

L'applicazione analogica dei criteri di scelta previsti dalla legge 223 del 1991 nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo sottratto alla disciplina dei licenziamenti collettivi.

Il tema principale deciso dai giudici di legittimità,  peraltro già affrontato da una precedente sentenza di  Cassazione, la n. 14663 del 2001, di cui meglio si dirà nel prosieguo della presente annotazione, riguarda la problematica relativa al rispetto o meno dei criteri di scelta tra lavoratori con mansioni fungibili anche nelle ipotesi di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, dovuti a ragioni inerenti l'attività produttiva, che però non danno luogo ad un'ipotesi di licenziamento collettivo regolata dalle legge 223 del 1991.

Il nodo centrale della questione, che si sottopone sotto forma di quesito, è dunque questo:  un licenziamento per giustificato motivo a cui però non si applichi la legge 223 del 1991 (per mancanza dei requisiti occupazionali e temporali previsti dalla legge), deve comunque rispettare le regole di correttezza di cui all'art. 1175 c.c. nella scelta del lavoratore licenziato tra più lavoratori che svolgono però mansioni fungibili? E' possibile riferirsi, in via del tutto analogica, ai criteri previsti dalla legge sui licenziamenti collettivi come quelli dei carichi di famiglia ed anzianità aziendale?

Preliminarmente, si rileva che a tali quesiti la Suprema Corte, nella sentenza in commento, ha dato risposta positiva.

La censura che la Cassazione opera nei confronti del Tribunale di Latina muove le proprie premesse proprio dalla circostanza che, in realtà, il giudice di secondo grado non si è peritato di accertare in concreto la fungibilità o meno delle mansioni svolte dalla ricorrente con  quelle a cui erano addetti gli altri lavoratori nel settore contabilità.

In buona sostanza, secondo quanto affermato dalla decisione de quo, l'indagine avrebbe dovuto verificare "se si fosse trattato di posizioni lavorative tra loro sostanzialmente fungibili per competenze funzionali e conoscenze tecniche, tanto che la Cordeschi avrebbe potuto, eventualmente, svolgere i compiti propri degli altri addetti e, in caso affermativo avrebbe dovuto dare ragione, essendo la prova della giustificatezza del licenziamento a carico del datore di lavoro, di come l'individuazione del lavoratore da licenziare proprio nella persona della Cordeschi fosse stata conforme a correttezza e buona fede ".

A questo punto, prima ancora di trattare nello specifico la soluzione adottata dalla Cassazione, è opportuna, quantomeno, una breve digressione sulla distinzione tra licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e licenziamenti per riduzione di personale, con riferimento alle regole applicabili alle fattispecie concrete, agli oneri di prova, ed alle condizioni di legittimità.

In dottrina e giurisprudenza è ormai pacifica la differenza esistente tra licenziamenti per giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 legge 604/1966 e licenziamenti per riduzione del personale ex art. 24, primo comma, legge 223/91.

In passato, prima dell'entrata in vigore della legge sui licenziamenti collettivi, il contrasto tra gli interpreti riguardava essenzialmente l'individuazione dei criteri in base ai quali si dovesse distinguere tra il licenziamento collettivo e licenziamento per giustificato motivo oggettivo che riguardava però una pluralità di lavoratori. L'orientamento maggioritario, tuttavia, si attestò sulla posizione secondo cui si doveva distinguere tra criteri "quantitativi" e "qualitativi" della riduzione del personale; se la necessità di ridurre il personale era dovuta "alla trasformazione o al ridimensionamento dell'impresa di carattere quantitativa dell'attività", si era di fronte ad un licenziamento collettivo, se invece vi era una "trasformazione qualitativa del processo produttivo, non necessariamente collegata ad una diminuzione dell'attività di impresa" si configurava la fattispecie del licenziamento individuale plurimo per giustificato motivo.[13]

In realtà, il presupposto che giustifica il licenziamento è lo stesso e cioè "le ragioni inerenti alla attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa" (art. 3, legge 604/66). Cambia però, nei licenziamenti collettivi, il requisito dimensionale e temporale in quanto l'impresa con più di 15 dipendenti può ricorrere ad una procedura di mobilità (che è appunto un recesso da parte dell'impresa) quando in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intenda effettuare almeno cinque licenziamenti nell'arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell'ambito della del territorio di una stessa provincia (art. 24, primo comma, legge 223/91).

Secondo la dottrina si può ricorrere al licenziamento collettivo "non solo quando si abbia una riduzione dell'attività di impresa, ma anche quando diminuisca l'esigenza di utilizzare prestazioni lavorative come accade nei casi, ormai frequenti, in cui sono state introdotte nuove tecniche e nuovi procedimenti di produzione".[14]

Tale indirizzo dottrinario ritiene, conseguentemente, che solo quando il numero dei lavoratori sia inferiore a quello previsto dalla legge dei licenziamenti collettivi (avendo come riferimento sia il dato numerico sia quello temporale) continui ad applicarsi la disciplina sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 legge 604/66.

Alla luce di quanto sopra riferito occorre analizzare il caso concreto. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, caratterizzante la fattispecie de quo, riguardava l’inutilità sopravvenuta di una certa funzione aziendale che, a giudizio del datore, non era più necessaria per una giusta economicità d'impresa e che, dunque, nessun lavoratore della Cooperativa avrebbe dovuto più svolgere.

Un tale esubero non può che essere “nominativo”, perché colpisce il lavoratore che svolge quella funzione attraverso l’abolizione della mansione stessa.

La dottrina, facendo riferimento all’indirizzo prevalente della giurisprudenza, a cui si conforma la decisione in commento, afferma che in caso di licenziamento oggettivo che coinvolga più dipendenti e a cui però non si applichi la le legge sui licenziamenti collettivo  vi è comunque “l’obbligo di osservare i criteri di scelta oggettivi, rispondenti ai criteri di correttezza e buona fede”. [15]

La Cassazione poi, con sentenza non più recente, in quanto precedente alla disciplina introdotta dalla legge 223 del 1991, ma comunque di notevole interesse, aveva anche affermato che il principio di correttezza ex art. 1175 c.c. comporta che anche nell’ipotesi di giustificato motivo oggettivo il datore di lavoro doveva fare riferimento ai criteri previsti per i licenziamenti collettivi così come regolati dagli accordi interconfederali sui licenziamenti collettivi  precisando che “detti canoni vanno apprezzati dal giudice di merito con riferimento alla coerenza intrinseca dell’atto e alla congruità del risultato realizzato”.[16]

Nel licenziamento per riduzione di personale, invece, quest’ultimo “è caratterizzato da un’esuberanza della mano d’opera conseguente ad una riduzione o trasformazione dell’attività imprenditoriale, sicché i lavoratori licenziati – scelti sulla base di criteri stabiliti dalla legge – non possono pretendere di essere utilizzati in altri reparti della stessa impresa”. In questo caso il lavoratore da licenziarsi si dovrà individuare solo in base ai criteri di scelta previsti dalla legge o dalla contrattazione sindacale essendo comunque indifferente, una volta rispettati tali criteri, che sia il lavoratore licenziato tra più dipendenti che svolgono mansioni fungibili. Le procedure previste dalla legge ed il confronto sindacale presuppongono un rispetto di regole che non viola in questo caso i principi di correttezza e buona fede nel rapporto di lavoro.

 

L’illegittimità della soppressione del posto di lavoro tesa unicamente all'estromissione del lavoratore. L'ipotesi di lavoratori con mansioni  fungibili.

Il problema allora può sorgere nel caso di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo  non generato da una vera e propria esigenza di ridimensionare l’attività aziendale, ma solo dalla necessità di sopprimere un posto di lavoro a cui è addetto il lavoratore, come avvenuto nella presente controversia. Tale licenziamento va qualificato “come licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con la conseguenza che, al fine della sua legittimità, non basta che il datore provi la necessità di una ristrutturazione aziendale, ma occorre che egli dimostri, oltre che la conseguente soppressione del posto di lavoro  e delle mansioni affidate al lavoratore licenziato, l’impossibilità di adibire il medesimo ai un altro settore dell’azienda, anche con l’attribuzione di mansioni diverse da quelle per le quali è stato assunto”.[17]

Di certo questa, anche per non appesantire la presente trattazione, non è la sede per una disamina completa degli indirizzi di dottrina e giurisprudenza sull’onere della prova che grava sul datore di lavoro ex art. 5, legge 604 del 1966, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo; comunque, è ormai pacifico, nel prevalente orientamento interpretativo, che in tal caso il datore di lavoro dovrà dar prova di aver fatto tutto il possibile per salvaguardare il posto del lavoratore (licenziamento come extrema ratio).[18]

Affinché si possa stabilire se la soppressione del posto di lavoro, nel caso di specie, sia stata legittima o meno, è necessario fare ricorso ai criteri ermeneutici sviluppati in materia dalla giurisprudenza. La Cassazione, con indirizzo consolidato, afferma che il recesso conseguente ad un riassetto organizzativo effettivo, attuato per realizzare il ridimensionamento dei costi ed una più economica gestione in azienda è sicuramente legittimo.[19] Altro indirizzo dei giudici di legittimità afferma che “non è sindacabile, nei suoi profili di congruità ed opportunità, la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto di lavoro al quale era addetto il lavoratore licenziato, sempreché risultino l’effettiva e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato”.[20]  

Nel caso di specie, tuttavia, tralasciando i sopra riferiti aspetti, ciò che maggiormente rileva è che il Tribunale di Latina ha confuso la differenza basilare che passa tra una reale soppressione del posto di lavoro (come sopra specificata),  giustificata dall’esigenza di un buon andamento aziendale, di per sé sicuramente legittima ed insindacabile, e l’abolizione propria del lavoratore. Ed infatti, in realtà, nella vicenda de quo in questo si sostanzia il licenziamento della Cordeschi. La posizione lavorativa della medesima, nei fatti, non veniva soppressa giacché le funzioni svolte dalla ricorrente venivano, a seguito del suo licenziamento, ridistribuite tra gli altri lavoratori che ricoprivano mansioni fungibili. Una siffatta operazione risulta illegittima in quanto in questo modo si realizza “un’economia di gestione attraverso il risparmio delle retribuzioni dovute al personale dipendente, non inserendosi il recesso in una diversa organizzazione aziendale imposta dalle necessità finanziarie dell’impresa o dall’esigenza di una maggiore competitività”.[21]

La riduzione dei costi è un obiettivo legittimo per ogni imprenditore, ma diventa illegittima se essa è perseguita attraverso “l’abolizione del lavoratore”, (con accollo del suo carico lavorativo ai superstiti), e non delle funzioni o incombenze che egli esplicava. In questo modo, sicuramente, l’estromissione di un lavoratore riduce i costi salariali ma è contraria alla ratio legis.

Il licenziamento risulta illegittimo proprio perché non vi è alcun ridimensionamento organizzativo nella soppressione del posto di lavoro conseguente a riduzione dell’attività aziendale quando  le funzioni del lavoratore sono distribuite ad altri prestatori di lavoro.[22]

Al riguardo, si segnala la consolidata giurisprudenza delle S.U. della Cassazione secondo cui devono essere ritenuti illegittimi i licenziamenti intimati per giustificato motivo oggettivo che mirino solo ad una maggior redditività attraverso la sostituzione di lavoratori più costosi con lavoratori meno costosi (Cass. S.U. 11 aprile 1994 n. 3353).

Si riporta  un passo significativo di tale sentenza delle Sezioni Unite al fine di permettere un agevole comprensione della vicenda sottoposta alle Sezioni Unite e di verificarne le similitudini con la fattispecie in commento: “E’ stato altresì  ritenuto che rientra nella previsione dell’art. 3, 2ª parte, l. 15 luglio 1966 n. 604 l’ipotesi di un riassetto organizzativo dell’azienda, attuato al fine di una più economica gestione di essa, e deciso dall’imprenditore, non pretestuosamente e non semplicemente per un incremento del profitto, bensì per far fronte a sfavorevoli situazioni -  non meramente contingenti – ininfluenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva (Cass. 18 aprile 1991, n. 4164, id. Rep, 1991, voce cit., n.  1541; 10 maggio 1986, n. 3127, id. Rep. 1986, voce cit., n. 2082; 2 febbraio 1983, id. Rep. 1983, voce cit., n. 2299).  Ma nella specie nessuna ristrutturazione dell’impresa vi è stata e nessuna soppressione di posto si è verificata, ma si è operata puramente e semplicemente la sostituzione dell’Alterio con una suora, che, appartenendo alla  stessa congregazione che gestisce la scuola, non viene retribuita. Non si tratta, quindi di  una diversa  organizzazione aziendale, imposta dalle necessità finanziarie dell’impresa o anche più semplicemente dall’esigenza di produrre  a costi più competitivi, ma si tratta di un risparmio sulle retribuzioni dovute al personale dipendente. Se fosse ammissibile una motivazione siffatta per far cessare un rapporto di lavoro, verrebbe del tutto vanificato lo scopo della  disciplina  sui licenziamenti individuali, scopo che consiste nella tutela della  stabilità del posto di lavoro per i dipendenti a tempo indeterminato. Se  diventano rilevanti le economie sulle retribuzioni dei dipendenti, ogni datore di lavoro potrebbe licenziare  i suoi lavoratori più anziani per sostituirlo con quelli più giovani, che, per ragioni d’età e di carriera, hanno diritto a retribuzioni inferiori…”.

Come si vede, in identiche vicende processuali, la Suprema Corte ribadisce principi consolidati in tema di configurabilità del giustificato motivo oggettivo e degli oneri probatori a carico del datore di lavoro, ex art. 5 L. 604/66, completamente disattesi nella sentenza del giudice di Appello. L’errore del Tribunale di Latina è stato, dunque, anzitutto quello di non considerare che tra i cinque lavoratori impiegati vi fosse una fungibilità piena e ciò risulta dimostrato dalla circostanza che i lavoratori rimasti nell’ufficio in cui era addetta le ricorrente hanno potuto sobbarcarsi, senza problemi, i compiti della lavoratrice licenziata e che, quindi, non sono mai stati soppressi. 

Il licenziamento de quo risulta illegittimo, per tutti i motivi fin qui esposti, in quanto non consentito dall’art. 3 della legge 604/66 poiché diretto solo ad una mera riduzione di costi nella identità e permanenza del risultato lavorativo totale (come nel caso di sostituzione di lavoratori più anziani e costosi, con più giovani ed economici).

Tuttavia, il licenziamento potrebbe essere anche legittimo purché il datore di lavori dimostri, in caso in cui non vi sia stata una vera e propria soppressione del posto di lavoro,  che nella scelta del lavoratore licenziato sia avvenuta a stregua dei criteri di correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c. e 1375 c.c..

Su questo interpretazione s’inserisce un’importante decisione dei giudici di legittimità che con sentenza del 21 novembre 2001 n. 14663,[23] sul punto oggetto di nota afferma:“…in sostanza, la società ricorrente sostiene che, una volta provata l’esistenza delle esigenze obiettive aziendali, alla base dei licenziamenti in questione, la scelta delle dipendenti da sacrificare doveva ritenersi del tutto legittima, sia sotto il profilo della correttezza e buona fede, sia delle mancanza di ogni intendo discriminatorio, su cui, peraltro, non v’era stata alcuna deduzione da parte delle intimate. Deve tuttavia osservarsi che, mentre l’intento discriminatorio, perché causa estrinseca d’invalidità del recesso, va provato da parte di chi lo deduce, la correttezza o la buona fede costituiscono modalità proprie dell’esercizio del diritto, e, dunque, condizioni intrinseche di validità del medesimo diritto la cui dimostrazione – nel caso del diritto di recesso del datore di lavoro – non può che incombere  a carico di quest’ultimo, in quanto tenuto, per  legge (art. 5 l. n. 604 del 1966), a fornire la prova della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento. Questo rilievo è alla base della  tesi  – confermata dalla costante giurisprudenza di questa Corte – secondo cui l’onere probatorio del datore di lavoro non si esaurisce nella dimostrazione della sussistenza delle ragioni obiettive poste alla base del licenziamento, ma deve riguardare anche l’impossibilità di impiegare aliunde  o altrove il dipendente licenziato. Non si tratta, invero, di un’amplificazione  irrazionale della regola sull’onere probatorio dettata dal citato art. 5, poiché  la  dimostrazione del “giustificato motivo” di licenziamento non può limitarsi all’esistenza delle esigenze  obiettive di cui  parla  il  precedente  art. 3, ma deve riguardare anche l’esistenza di un nesso di conseguenzialità necessaria tra tali esigenze e la risoluzione del singolo rapporto di lavoro riguardante un particolare dipendente, la cui permanenza in azienda non è più compatibile con quelle esigenze. In altre parole, la prova deve riguardare anche le ragioni della scelta  del singolo lavoratore licenziato”.[24]

Ed ancora, tale indirizzo dei giudici di legittimità afferma che “l’esigenza, derivante da ragioni inerenti all’attività produttiva, di ridurre di una o più unità il numero dei dipendenti dell’azienda, se non dà luogo ad un’ipotesi  di licenziamento collettivo, regolata dalla citata  legge n. 223 del 1991, può di per sé concretare un giustificato motivo obiettivo di licenziamento individuale, la cui legittimità dipende, tuttavia, dall’ulteriore condizione della comprovata impossibilità di utilizzare aliunde il lavoratore licenziato, ovvero dal rispetto delle regole di correttezza di cui all’art. 1175 c.c. nella scelta del lavoratore licenziato, tra più lavoratori occupati in posizione di piena fungibilità (per l’applicazione di questo criterio, con  riferimento a licenziamenti anteriori all’entrata  in vigore della legge n. 223 del 1991 e regolati dall’Accordo interconfederale 4.4.1965 sui licenziamenti per riduzione di personale, cfr. Cass. 4.3.93, n. 2595)”.

Alla luce di quanto sopra esposto, quindi, la decisione oggi commentata risulta pienamente condivisibile in merito all’interpretazione della violazione datoriale delle regole di correttezza e buona fede e sulla mancata applicazione alla fattispecie, in via analogica, dei criteri di scelta ex art. 5 legge 223/91 in quanto, come emerso nel corso di tutta l’istruttoria, la lavoratrice Cordeschi aveva l’anzianità lavorativa più alta (17 anni) e un maggiore carico famigliare ma, soprattutto, l'istruttoria aveva ampiamente dimostrato il comportamento ostile, persecutorio e vessatorio del Presidente della Cooperativa nei confronti della medesima.

In virtù di quanto fin qui argomentato, si può concludere la presente annotazione riportando il principio di diritto di cui dovrà tener conto la Corte d’Appello di Roma, a cui la Suprema Corte ha rinviato la causa per un nuovo esame: “in caso di licenziamento di un dipendente dovuto a ragione economiche, quando vi è una generica esigenza di riduzione del personale, il nesso di causalità tra questa necessità ed il licenziamento può non rappresentare una sufficiente funzione individualizzante del lavoratore licenziabile; dunque, la selezione del lavoratore non avrebbe dovuto essere compiuta liberamente, ma con applicazione analogica di criteri obiettivi quali quelli dei carichi di famiglia e dell’anzianità previsti dall’art. 5 della legge 223 del 1991, escludenti l’arbitrarietà della scelta, in attuazione degli artt. 2,3, e 41, comma 2, della Costituzione (che impongono una maggior tutela del lavoratore socialmente più debole, rispetto al più avvantaggiato)”.

[1] In tal senso cfr. Cass. 17 luglio 1995, n. 7768, Pretura Trento 22 febbraio 1993.

[2] Riguzzi S., "Il mobbing. Violenze morali e persecuzioni psicologiche sul lavoro", Ed. CieRre, 2004, 203.

[3] Per un approfondimento della giurisprudenza in materia di molestie sessuali e della sentenza di Cass. 8 gennaio 2000, n. 143 vedi il testo integrale pubblicato in Riguzzi S., op. cit., 203. Tale sentenza affronta la questione dell’onere probatorio e osserva: “ora non è dubbio che le molestie sessuali, poste in essere dal datore di lavoro o da suoi stretti collaboratori nei confronti dei lavoratori soggetti al rispettivo potere gerarchico, costituiscono uno dei comportamenti più detestabili fra quelli che possono ledere la personalità morale e, come conseguenza, l’integrità psicofisica  dei prestatori d’opera subordinati, Non per nulla da parte di questa Corte, in una controversia in cui era stata dedotta da parte di una  lavoratrice  un siffatto atteggiamento del datore di lavoro, è stato ritenuto che fosse sorta nei confronti di quest’ultimo una vera e propria responsabilità contrattuale, con conseguente devoluzione  della controversia stessa al giudice del lavoro, essendo stato sostenuto che l’obbligo previsto dalla disposizione contenuta nell’art. 2087 c.c. «non  è limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma – come si evince da una interpretazione della norma in aderenza a principi costituzionali e comunitari – implica anche il divieto di qualsiasi comportamento  lesivo dell’integrità psicofisica dei dipendenti, qualunque ne siano la natura e l’oggetto e, quindi, anche nel caso in cui siano posti in essere atti integranti molestie sessuali nei confronti dei lavoratori» (Cass. 17 luglio 1995, n. 7768, indicata nella memoria della ricorrente  principale)……La prova degli elementi essenziali della fattispecie indicata (esclusa ovviamente la dimostrazione del dolo o della colpa, vertendosi in tema di responsabilità contrattuale) deve peraltro essere fornita dal lavoratore. Di tal che, pur non potendosi escludere che il reperimento delle varie  fonti di prova possa risultare  particolarmente difficoltoso a causa di eventuali sacche di omertà, sempre presenti, o per altre ragioni, tuttavia non è chi non veda che la  mancata acquisizione della prova in questione, riguardo alle cause che hanno determinato la lesione dedotta ed agli effetti asseritamene derivanti, impedisce al giudice l’accoglimento della domanda…”.

Nella sentenza 5825/02 si conferma la correttezza dell’operato del Giudice di appello che aveva fondato la decisione circa la sulla effettività delle molestie sessuali sulle dichiarazioni della lavoratrice. Afferma la Suprema Corte: «…Invero il convincimento dei giudici di merito – circa la sussistenza delle molestie sessuali, addotte a motivazione del licenziamento dell’attuale ricorrente – riposa, essenzialmente, sulla deposizione della vittima delle molestie, della quale risultano motivatamente  verificati efficacia probatorio, attendibilità e riscontri…».

[4] Sentenza pubblicata in Riv. it. dir. lav., 1999, II, 326, nonché si veda, nello stesso senso, altra decisione di poco successiva: Trib. Torino 30 novembre 1999, in Danno e resp. 2000, 406 e Trib. Torino 11 novembre 1999 in Foro it. 2000, I, 1555.

[5] Meucci M., "Il danno alla professionalità di natura non patrimoniale", D&L - Rivista Critica di Diritto del Lavoro, 2004, 252.

[6] In tal senso cfr. tra le tante: Cass. 23 ottobre 2001 n. 130333; Cass. 2 novembre 2001 n. 13580; Cass. 2 gennaio 2001 n. 10; Cass. 1 giugno 2002 n. 7967; Cass. 12 novembre 2002 n. 15868; Cass. 22 febbraio 2003 n. 2763.

[7] Cass. Sez. Lav., del 29 aprile 2004, n. 8271, Pres. Iannirubeto, Rel. Mazzarella.

[8] Cass, Sez. Lav., del 7 febbraio 2004, n. 2354, Pres. Mattone, Rel. De Matteis. In senso conforme si segnala anche altra giurisprudenza, Cass. 18 ottobre 1999, n. 11727, la quale afferma che “il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 c.c. ma ridonda in lesione del diritto fondamentale, da riconoscere al lavoratore anche in quanto cittadino, alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro con la conseguenza che il pregiudizio correlato a siffatta lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell’interessato ha una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, secondo quanto previsto dall’art. 1226 c.c. (Nel caso di specie la sentenza impugnata – cassata dalla S.C. – aveva respinto la domanda  di risarcimento del danno proposta dal lavoratore demansionato sull’assunto del mancato assolvimento, da parte dello stesso, dell’onere probatorio relativo alla sussistenza di un danno patrimoniale in qualche modo risarcibile).

[9] Sanlorenzo, relazione "il mobbing e il diritto del lavoratore alla prestazione lavorativa, pag. 43, in http://dirittolavoro. altervista.org/mobbing_sanlorenzo.html., citata in Meucci M. op, cit, pag. 253.

[10] L'art. 2729 c.c. disciplina le presunzioni semplici e stabilisce al primo comma che “le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti".   

[11] Cosio R., “Il mobbing: alcune riflessioni sul disegno di legge n. S 122”, Foro It., I, 2004, 2323, il quale afferma che “sul terreno della prova della situazione d’incapacità naturale la giurisprudenza ha mostrato grande sensibilità ammettendo che la stessa possa essere indiziaria (fornita con presunzioni semplici)”. A  completamento di tale ragionamento e per una ricostruzione delle giurisprudenza si veda Cass. 15 gennaio 2004, n. 515, Foro it., Mass., 31.

[12] Cass. n. 2700 del 1997, secondo cui “l’apprezzamento del giudice di merito circa l’esistenza degli elementi assunti a fronte della presunzione e circa la rispondenza di questi ai requisiti di idoneità, gravità e concordanza richiesti dalla legge, non è sindacabile in sede di legittimità”. Altresì, si veda in senso conforme Cass. n. 5821 del 1987 per cui le presunzioni “pur essendo lasciate alla prudenza del Giudice, per assurgere a prova oltre ad essere gravi e precise, anche concordanti rispetto al fatto ignorato che si intende provare, pur non richiedendosi necessariamente che esso sia l’unica conseguenza razionale possibile della loro retta interpretazione”.

 

[13] Persiani M. e Proia G. "Il contratto e rapporto di lavoro", Cedam, Padova, 2001, 155, i quali citano in tal senso la sentenza  di Cassazione del 27 luglio 1990, n. 7540, decisione precedente alla  successiva  legge sui licenziamenti collettivi del 1991 che ha di fatto superato ogni contrasto interpretativo ed incertezza  in materia prevedendo infatti la nozione di licenziamento collettivo. 

[14] Persiani M. e Proia G., op. cit.,  172.

[15] Piccinini A., Il Diritto del lavoro, Estinzione del rapporto di lavoro, Ediesse, Roma, 2002,VIII, 31, il quale, sull’obbligo di osservare i criteri di scelta obiettivi cita in nota Cass. 21 dicembre 2001, n. 16144 secondo cui si può far riferimento, in via analogica, ai criteri dei carichi di famiglia e dell’anzianità indicati dall’art. 5 della legge 223 del 1991.  

[16] In tal senso Cass. 4 marzo 1993 n. 2595, in DPL, 1993, 1272,  riportata anche in Ceritelli V. e Piccinini A., Il licenziamento individuale, Ediesse, Roma, 1999, 67, nonché pubblicata su MGL, 1993, 473 e ancora in Dir. Lav. 1993, II, 236 con nota di Vallebona, Licenziamento individuale per riduzione del personale, 

[17] Ceritelli V. e Piccinini A., op. cit., 84.

[18] Di seguito si riportano alcuni degli indirizzi rilevanti della giurisprudenza e della dottrina.   La Cassazione, con sentenza del 14 giugno 1999, n. 5893 ha affermato che “in materia di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, disciplinati dall’art. 3, seconda parte, della L. 604/66, oltre alla sussistenza delle ragioni addotte e al nesso di causalità con il recesso, il datore di lavoro ha l’onere di provare, con riferimento all’organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento e anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici, l’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva. Il licenziamento, infatti, si giustifica solo come extrema ratio, sia pure nella persistente insindacabilità della scelta determinante del datore di lavoro medesimo”. La dottrina, al riguardo, ha affermato che “possa essere ravvisato il giustificato motivo oggettivo, e di conseguenza dichiarato legittimo il licenziamento, solo quando esso costituisca una misura estrema e non si presenti al datore di lavoro alcuna prospettiva di recupero del lavoratore nell’organizzazione produttiva, attraverso l’adibizione a mansioni diverse (c.d. extrema ratio), intendendo per tali quelle equivalenti e talvolta anche quelle inferiori” (Edoardo Ghera, Manuale di Diritto del Lavoro, Ed. Cacucci, 2002, 360).

[19] In tal senso si veda Cass. 18. aprile 1991, n. 4164, in NGL, 1991, 488 che afferma “è logicamente accettabile che l’imprenditore, in quanto esercita un’attività economica nella competizione del mercato, che tende ad emarginare le imprese con i costi più elevati ed impone di eliminare ogni spesa che, con una diversa organizzazione, risulti superflua, possa reimpostare la sua attività, anche sostituendo con il proprio lavoro un dipendente”. Altresì ex multis: Cass. 14 settembre 1995, n. 9715, Cass. 24 giugno 1994, n. 6067.

[20] Cfr. Cass. 29 marzo 2001 n. 4670, in Settimana Giuridica 2001, 796, decisione alla quale si affianca altra sentenza simile nei presupposti e cioè Cass. 14 giugno 200, n. 8135 secondo cui “ai fini della configurabilità dell’ipotesi di soppressione del posto di lavoro, integrante – nell’impossibilità di una diversa collocazione del dipendente – il giustificato motivo oggettivo di recesso (ai sensi dell’art. 3, L. 604/66), non è necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, nel senso della loro assoluta, definitiva eliminazione, nell’ottica dei profili tecnici e degli scopi propri dell’azienda di appartenenza, atteso che le stesse ben possono essere diversamente ripartite ed attribuite nel quadro del personale già esistente, secondo insindacabili e valide o necessitate scelte datoriali relative ad una ridistribuzione o diversa organizzazione, senza che detta operazione comporti (comunque) il venir meno dell’effettività di tale operazione”.

[21] Tatarelli M., Il licenziamento individuale e collettivo, Cedam, Padova, 1997, 199, il quale, in nota, oltre a riportare il l’indirizzo delle S. U. del 11 aprile 1994, n. 3353, di cui si dirà in seguito, segnala Cass. del 5 aprile 1996, n. 3176 fattispecie riguardante il licenziamento di un’impiegata per sostituirla con altra meno costosa.

[22] In tal senso Cass. 24 giugno 1995, n. 7199,  M.G.L., 1995, 393 che contemplava la fattispecie di un licenziamento di una lavoratrice unica addetta alle pulizie le cui mansioni erano state ridistribuite ad altri lavoratori, nonché si veda Trib. Milano 18 ottobre 1995, O.G.L., 1995, 996, sentenza che afferma che la “mera distribuzione di incarichi non dà luogo ad alcuna ristrutturazione o ridimensionamento dell’impresa, che consegue, invece, alla soppressione reale ed effettiva della funzione coinvolta, né, in definitiva, ad alcun risparmio duraturo ed avvertibile, restando inalterata l’organizzazione aziendale:l’unico risultato è quello di precostituire le condizioni per procedere al licenziamento di un’unità, che è obiettivo di per sé infondato”. 

[23] In MGL, n. 4, aprile 2002, pagg. 268 e segg..

[24] Cass. 21 novembre 2001 n. 14663 osserva inoltre che “a proposito di tale scelta, deve rilevarsi che in un regime di inoperatività della disciplina dei licenziamenti collettivi – che la legge n. 223 del 1991, in attuazione della direttiva n. 75/129/CE, ha riservato a fattispecie ben precise, connotate da puntuali  requisiti numerico – temporali, oltre  che dall’inesistenza di motivi inerenti la persona del lavoratore (da ult. Cass. 4.3.2000, n. 2463) – ove sussista una situazione di totale fungibilità tra dipendenti potenzialmente licenziabili, il datore non è tenuto a ricercare preventivamene il consenso dell’interlocutore sindacale sulla scelta dei  dipendenti da licenziare (diversamente da quanto  prescritto, per i licenziamenti collettivi, dall’art. 4 della  citata legge n. 223 del 1991), ma deve dimostrare di aver esercitato quella scelta secondo criteri di correttezza e buona fede…… Su questa linea argomentativa si colloca anche la sentenza impugnata, la quale osserva come, allorché il giustificato motivo obiettivo  si identifica – come nel caso in esame – in una generica esigenza di riduzione di un personale assolutamente omogeneo e fungibile, non soccorre il criterio della “posizione lavorativa” da sopprimere, in quanto non più necessaria, né è sufficiente il criterio della impossibilità di rèpechage, in quanto tutte le posizioni lavorative e tutti i lavoratori sono equivalenti. In questa situazione si pone allora il problema di individuare in concreto i criteri  obiettivi che consentano di ritenere tale scelta conforme ai dettami di correttezza e buona fede imposti dall’art. 1175 c.c.".

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