IL REPÊCHAGE “SUPERA” ANCHE L’OSTACOLO DELLA MANIFESTA INSUSSISTENZA E CONQUISTA LA REINTE-GRAZIONE

Articolo di Michelangelo Salvagni.

Pubblicato nella Rivista giuridica Il Lavoro nella Giurisprudenza, n. 3/2023.

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Licenziamento per g.m.o.

Cassazione Civile, Sez. lavoro, 11 novembre 2022, n. 33341, ord. - Pres. Doronzo - Est. Garri - D.F.A. c. C. G. I S.p.a.

Licenziamento per giustificato motivo - Cessazione dell’appalto - Violazione dell’obbligo di repêchage

(Art. 3, Legge n. 604/1966; art. 5, Legge n. 604/1966; Art. 18, comma 7, L. n. 300/1970; art. 18, comma 5, L. n. 300/1970)

In caso di licenziamento illegittimo per violazione dell’obbligo di repêchage, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 125/2022, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7, secondo periodo, L. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b), L. n. 92 del 2012, limitatamente alla parola “manifesta”, il lavoratore ha diritto alla tutela “reintegratoria” (massima non ufficiale).

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Conforme

Cass. Civ. 2 maggio 2018, n. 10435; Cass. Civ. 22 marzo 2016, n. 5592; Cass. Civ. 13 giugno 2016, n. 12101; Cass. Civ. 26 maggio 2017, n. 13379; Cass. Civ. 5 gennaio 2017, n. 160; Cass. Civ. 21 dicembre 2016, n. 26467; Cass. Civ. 9 novembre 2016, n. 22798; Cass. Civ. 10 maggio 2016, n. 9467

Difforme

Cass. Civ.10 maggio 2016, n. 9467; Cass. Civ. 8 novembre 2013, n. 25197; Cass. Civ. 8 febbraio 2011, n. 3040.

Per il testo della sentenza v. ww.cortedicassazione.it.

IL REPÊCHAGE “SUPERA” ANCHE L’OSTACOLO DELLA MANIFESTA INSUSSISTENZA E CONQUISTA LA REINTEGRAZIONE

di Michelangelo Salvagni *

L’ordinanza n. 33341 dell’11 novembre 2022 della Suprema Corte consente di ripercorrere gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali sulla natura dell’obbligo di repêchage e sulla questione della ripartizione dell’onus probandi, fattispecie questa sulla quale nel 2016 è intervenuto un importante revirement della Cassazione secondo cui tale onere è esclusivamente a carico del datore, indirizzo che può ritenersi ormai consolidato e accolto dalla sentenza in commento. Tale provvedimento offre anche la possibilità di comprendere se l’obbligo di ricollocazione debba qualificarsi quale elemento interno o esterno al licenziamento per giustificato motivo oggettivo e se, in caso di mancata ricollocazione aliunde del prestatore, debba applicarsi la tutela reale o solo quella indennitaria. Tematica questa di particolare rilievo alla luce sia della sentenza della Suprema Corte del 2 maggio 2018, n. 10435 sia dei principi espressi dalla sentenza n. 125 del 19 maggio 2022 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, co. 7, secondo periodo, L. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, limitatamente alla parola “manifesta” e che sono stati espressamente richiamati dal provvedimento in annotazione.
The ordinance no. 33341 of 11 November 2022 of the Supreme Court allows us to go through the doctrinal and jurisprudential guidelines on the nature of the legal obligation of repêchage and on the question of the distribution of the onus probandi, a case on which an important revirement of the Court of Cassation took place in 2016, according to which the burden of proof is exclusively solely on the employer, a direction which can now be considered consolidated and accepted by the Supreme Court. This provision also offers the possibility of understanding whether the obligation to relocate should be classified as an internal or external element of the dismissal for justified objective reasons and if, in the event of failure to relocate the service provider, the judge should apply the real protection or only the indemnity. This issue is also particularly important in the order of both Supreme Court sentences of 2 May 2018, n. 10435, and the principles expressed by the sentence no. 125 of 19 May 2022 of the Constitutional Court, which declared the constitutional illegitimacy of art. 18, co. 7, second sentence, Law no. 300 of 1970, as amended by art. 1, paragraph 42, letter b), of law no. 92 of 2012, limited to the word “manifest” and which were expressly referred to in the provision in the annotation.

Il caso sottoposto al vaglio della Cassazione

La vicenda in commento tratta il caso di un lavoratore licenziato, a seguito di un cambio appalto, che aveva dedotto l’illegittimità del recesso in ragione della manifesta insussistenza del fatto, della mancata utilizzazione dei criteri di scelta ex lege n. 223 del 1991 e della violazione dell’obbligo di repêchage. Su tale ultimo punto deduceva che era possibile la propria ricollocazione in azienda al fine di salvaguardare il posto di lavoro tenuto conto delle nuove assunzioni intervenute al momento del recesso e del ricorso al lavoro supplementare. Il Tribunale, nell’ambito della prima fase sommaria, accertava l’illegittimità del licenziamento per avere la società applicato i criteri di scelta nell’ambito del personale in servizio sull’appalto cessato e non anche con riguardo all’intero complesso aziendale. Inoltre, accertava l’avvenuta violazione dell’obbligo di ripescaggio. Nella successiva fase di opposizione veniva dichiarata la legittimità del recesso. Il lavoratore proponeva reclamo presso la Corte di appello di Salerno che riformava la sentenza ritenendo illegittimo il licenziamento in quanto, pur essendo sussistenti le ragioni poste alla base del motivo oggettivo del recesso, tuttavia, il datore non aveva dimostrato l’impossibilità di ricollocare il lavoratore in altre mansioni anche in ambito extraregionale. La società veniva condannata al pagamento di un’indennità risarcitoria quantificata in 20 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Il punto dolens portato all’attenzione dei giudici di legittimità riguarda il contrasto interpretativo generato dalla diversa applicazione di tutele in caso di recesso quando sia stata accertata la violazione dell’obbligo di repêchage fattispecie questa, tuttavia, che non era stata ritenuta dai giudici di secondo grado quale presupposto sufficiente ad integrare il requisito della manifesta insussistenza, come richiesto dalla norma dell’art. 18 L. 300 del 1970, come riformato dalla L. n. 92 del 2012.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e controllo sull’effettività delle ragioni

Preliminarmente occorre una breve digressione sulla fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo che, secondo le previsioni dell’art. 3 della L. n. 604/1966, è determinato “da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.” Per quanto riguarda la presente annotazione, il tema riguarda i casi, come quello in esame, per cui il recesso sia motivato dalla soppressione del posto di lavoro. In tal caso, il giudice, al fine di accertare la legittimità del recesso, dovrà verificare l’esistenza e coerenza dei due cardini posti alla base di tale provvedimento: il nesso di causalità tra la scelta imprenditoriale e la reale esigenza economico-organizzativa[1]. Oltre a questi due requisiti che qualificano la fattispecie, ve ne è sicuramente un altro che la completa rispetto al controllo di effettività delle motivazioni a supporto del recesso, ossia che sia stato rispettato l’obbligo di repêchage in quanto il licenziamento deve costituire l’extrema ratio. Il magistrato dovrà, pertanto, valutare ex post la genuinità della scelta imprenditoriale effettuando controlli di coerenza e adeguatezza (attraverso la sussistenza del c.d. nesso di causalità), necessità (anche con la verifica dell’avvenuto tentativo di repêchage) e proporzionalità del sacrificio imposto al prestatore dall’atto risolutorio[2]. In concreto, la verifica giudiziale sulle ragioni organizzative che giustificano il licenziamento per motivi economici - organizzativi riguarda esclusivamente il profilo dell’effettività dei motivi addotti dal datore di lavoro[3]. Secondo la dottrina tuttavia il “nesso causale tra decisioni organizzative e soppressione del posto di lavoro non è bidirezionale, ma unidirezionale nel senso che la decisione adottata deve costituire la causa efficiente della soppressione del posto e del relativo licenziamento”[4]. A parere della giurisprudenza più recente, il controllo di effettività delle ragioni del recesso deve concernere la sola scelta aziendale di sopprimere il posto di lavoro occupato dal lavoratore e la verifica del nesso causale tra la soppressione del posto e le ragioni dell’organizzazione aziendale addotte a sostegno, senza però che si possa interferire sulle motivazioni poste alla base del recesso nei suoi profili di congruità ed opportunità in ossequio al disposto dell’art 41 Cost.[5].

Natura dell’obbligo di repêchage

La natura giuridica dell’obbligo di repêchage, la cui teorizzazione va ricollegata al concetto del licenziamento quale extrema ratio, risale ad una elaborazione giurisprudenziale e dottrinale degli anni ‘70[6]. La prima interpretazione della giurisprudenza in materia risale ad una sentenza della Suprema Corte del 12 settembre del 1972, secondo cui per la legittimità del licenziamento individuale del lavoratore “non basta che la riduzione sia imposta da esigenze di ristrutturazione dell’azienda, ma deve il datore di lavoro provare di non essere in grado di utilizzare, magari adibendo a diverse mansioni, il lavoratore, destinato al licenziamento”. Tale tesi si è sviluppata anche nella successiva esegesi giurisprudenziale che ha tratteggiato l’ambito di delimitazione delle scelte imprenditoriali rispetto alle ragioni poste a giustificazione del recesso per giustificato motivo oggettivo[7]. Tutto ciò tenendo sempre in considerazione il necessario bilanciamento dei contrapposti interessi costituzionalmente garantiti per la tutela del lavoro e dell’impresa (artt. 4 e 41 della Cost.), ove alla giurisprudenza è affidato “il difficile compito di fissare degli standards valutativi per un giusto equilibrio tra interesse dell’imprenditore ad un libero esercizio della sua attività economica e quella del dipendente alla conservazione del posto di lavoro”[8]. In dottrina, tuttavia, non sono mancate critiche a tale creazione di origine giurisprudenziale sul presupposto che la stessa non sarebbe collegata ad alcuna specifica norma che ne disciplini l’ambito di applicazione[9]. Le censure muovono dall’assunto per cui l’art. 3 della Legge n. 604 del 1966 impone solo che il recesso per motivo oggettivo sia giustificato da “ragioni inerenti l’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” e non anche un obbligo di ripescaggio[10]. Altra dottrina, invece, ritiene che nel nostro ordinamento la fattispecie del repêchage trova i fondamenti in “un’interpretazione sistematica-adeguatrice conforme alla Carta fondamentale” rinvenibile, appunto, nell’art. 3, L. n. 604/1966 quale disposizione questa che fissa proprio i requisiti di legittimità del licenziamento per ragioni economiche[11]. In particolare, è stato sostenuto che l’obbligo di ricollocazione “implica non tanto, come si suol dire, un diritto al reimpiego del lavoratore, ma l’accertamento che la situazione tecnico-produttiva dell’azienda non consente più una sua proficua utilizzazione[12]”. Da quanto fin qui esposto, è possibile delineare una nozione “integrata” di giustificato motivo oggettivo che deve tenere necessariamente in considerazione, secondo un ormai consolidato indirizzo della Cassazione[13], anche il repêchage quale ulteriore requisito che delimita e completa la fattispecie.

L’evoluzione del repêchage: la ricerca di posizioni disponibili e la prova dell’esatto adempimento

Nel tempo, il percorso giurisprudenziale in tema di obbligo di repêchage ha gradualmente allargato le maglie della propria interpretazione. Inizialmente, si era consolidato un indirizzo rigoroso secondo cui l’obbligo di ripescaggio del dipendente dovesse applicarsi solo per compiti equivalenti, in ragione del divieto di variazione in peius delle mansioni ex art. 2103 c.c.[14]. Tale soluzione esegetica, accolta anche dalla giurisprudenza successiva, prevedeva in capo al lavoratore uno specifico onere di cooperazione e allegazione in giudizio dell’esistenza di posti vacanti per la propria utilizzazione, con il limite che tali mansioni fossero di natura equivalente rispetto alla professionalità posseduta[15]. Vi era poi un indirizzo minoritario secondo cui il datore di lavoro, per salvaguardare il posto di lavoro, era tenuto a ricercare posizioni alternative a quelle da ultimo ricoperte dal dipendente, anche con riferimento allo svolgimento di compiti inferiori[16]. In tal senso, la giurisprudenza ammetteva una deroga al divieto di variazione in peius ex art. 2103 c.c. giustificandola sul presupposto del prevalente interesse del dipendente al mantenimento del posto di lavoro[17]. Recentemente, la Suprema Corte ha ampliato l’ambito di applicazione dell’obbligo di repêchage, anche alla luce della abrogazione del principio di equivalenza ex art. 2103 c.c. post D.Lgs. n. 81 del 2015[18], affermando che lo stesso si estende inevitabilmente anche a mansioni inferiori[19]. Le modifiche apportate dal legislatore in ambito di ius variandi sembrano aver definitivamente superato il limite posto al datore di lavoro del rispetto della capacità professionale acquisita dal prestatore. Occorre comprendere allora quali siano le ricadute della rimozione del principio dell’equivalenza ex art. 2103 c.c. sulla conservazione del posto di lavoro. Il datore, in realtà, dispone oggi di un potere più ampio con riferimento ad una collocazione flessibile del prestatore nell’ambito della propria organizzazione del lavoro in senso sia orizzontale che verticale (intendendosi, in questi termini, la possibilità di adibizione del prestatore a mansioni inferiori). L’imprenditore, in caso di licenziamento per motivo oggettivo, con riferimento all’obbligo di repêchage non è più vincolato al rispetto delle stringenti disposizioni in materia di divieto di variazione delle mansioni, così come previste dalla precedente formulazione dell’art. 2103 c.c. La nuova impostazione normativa consente, invece, l’adibizione del lavoratore a mansioni appartenenti ad un livello di inquadramento inferiore in ragione di una modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidano sulla sua posizione (art. 2103 c.c., comma secondo). La norma in parola poi, al successivo comma sesto, permette anche la stipula di patti di dequalificazione con il prestatore aventi la funzione di tutelare il posto di lavoro[20]. Al riguardo, sono state infatti disciplinate ipotesi legali di tipo tassativo nelle quali è ammesso il cosiddetto “patto in deroga” alle mansioni del livello posseduto, tra le quali viene espressamente prevista quella della “conservazione del posto di lavoro”[21]. In ragione delle modifiche legislative apportate all’art. 2103 c.c. il repêchage estende sicuramente il proprio raggio di azione obbligando il datore, prima di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, a ricercare posizioni alternative, non solo con riferimento a mansioni riconducibili alla categoria di appartenenza o, comunque, al livello posseduto dal prestatore al momento del recesso, ma anche a quelle di tipo inferiore[22]. Sul punto, concorrono due argomentazioni collegate eziologicamente tra loro: da una parte, l’obbligo di repêchage da configurarsi quale elemento costitutivo della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (di cui si dirà meglio ai punti successivi)[23]; dall’altra, quello di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c.[24], entrambi elementi che, proprio in virtù di tale connessione funzionale, impongono al datore di vagliare ogni soluzione possibile tesa alla conservazione del posto di lavoro, compresa quella di assegnare il dipendente anche a mansioni inferiori[25]. In virtù di quanto sin qui esposto, l’obbligo di ricollocazione rappresenta l’ulteriore requisito di verifica della correttezza delle scelte imprenditoriali che, inteso in una visione più elastica, completa la fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Obbligo di repêchage e ripartizione onere probatorio

Per una migliore comprensione della vicenda in commento, occorre un breve excursus sulle tappe dell’elaborazione giurisprudenziale che hanno caratterizzato la questione della ripartizione dell’onus probandi in materia di obbligo di repêchage in caso di licenziamento per motivo oggettivo. Al riguardo, come anticipato, occorre dare conto dell’importante revirement della Suprema Corte che, con due arresti del 2016, ossia le sentenze n. 5592 del 22 marzo e la n. 12101 del 13 giugno, hanno analizzato la fattispecie con particolare accuratezza[26]. Tali sentenze infatti, mediante un articolato ragionamento decisorio e in totale controtendenza rispetto al precedente indirizzo giurisprudenziale[27], hanno affermato il principio per cui l’onere della prova sull’impossibilità di ripescaggio incombe totalmente sul datore di lavoro, non essendo invece il lavoratore onerato di alcuna allegazione in tal senso.[28] I giudici di legittimità, pertanto, con i citati provvedimenti del 2016, hanno fornito una interpretazione “estensiva” del dovere di repêchage, osservando che l’impossibilità della ricollocazione del dipendente rientra nei requisiti del giustificato motivo. In particolare, tale profilo è stato approfondito dalla decisione n. 12101 del 13 giugno 2016, secondo cui non “può dirsi che l’impossibilità del repêchage costituisca autonomo fatto estintivo rispetto all’esistenza di ragioni tecniche, organizzative e produttive tali da determinare la soppressione d’un dato posto di lavoro e, come tale, richieda un’apposita autonoma contestazione da parte del lavoratore: si tratta - invece - di due aspetti del medesimo fatto estintivo (il giustificato motivo oggettivo, appunto), fra loro inscindibili perché l’uno senza l’altro ‘è’ (N.d.R.) inidoneo a rendere valido il licenziamento”.[29] Secondo la dottrina poi, l’orientamento sopravvenuto che muta la precedente elaborazione giurisprudenziale, trattandosi di regola di diritto sostanziale, è suscettibile di immediata applicazione ad ogni vicenda concreta, incluse quelle già pendenti in giudizio; in tal caso, il datore di lavoro non potrà eccepire in giudizio di non aver adempiuto esattamente al proprio obbligo per aver riposto un legittimo affidamento all’indirizzo che si era fino a quel momento consolidato[30].

Tornando alla sentenza in esame, i giudici di legittimità, richiamando espressamente i sopra citati principi stabiliti da Cass. Civ. n. 5592/2016 e Cass. Civ 12101/2016, hanno sostenuto che il lavoratore ha solo l’onere di dimostrare il fatto costitutivo dell’esistenza del rapporto di lavoro, mentre ricade sul datore di lavoro quello di allegazione e prova “dell’impossibilità di ‘repêchage’ del dipendente licenziato, quale requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri”. In concreto, ha sostenuto ancora sul punto la Cassazione, che incombe sul datore di lavoro “la prova del fatto negativo costituito dall’impossibile ricollocamento del lavoratore che può essere data con la prova di uno specifico fatto positivo contrario o mediante presunzioni dalle quali possa desumersi quel fatto negativo”[31]. Sulla base di tale assunto, i giudici di legittimità hanno ritenuto che la Corte territoriale avesse fatto corretta applicazione di tali principi avendo verificato che gli elementi di valutazione dai quali la società avrebbe voluto far derivare l’impossibilità di adibire altrimenti il lavoratore (flessione del numero di dipendenti, assenza di posizioni idonee per il reimpiego, estinzione di numerosi appalti, cospicuo ridimensionamento delle attività e del personale), pur complessivamente considerate non consentivano di escludere che, in presenza di numerosi appalti ancora in piedi anche in ambito extra regionale, vi fossero posizioni utili alle quali assegnare il lavoratore invece che licenziarlo.

L’obbligo di repêchage fa parte del fatto la cui violazione comporta l’applicazione della tutela reale

Alla luce di quanto sin qui analizzato, occorrono alcune considerazioni sulle tutele applicabili in caso di violazione dell’obbligo di repêchage. L’indagine può essere sviluppata sotto un duplice profilo funzionalmente connesso: da una parte, con riferimento alle disposizioni della c.d. legge Fornero e ai recenti orientamenti giurisprudenziali, se tale obbligo debba qualificarsi quale elemento interno o esterno alla fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; dall’altra, se in caso di mancata ricollocazione aliunde del prestatore debba applicarsi la tutela reale o solo quella indennitaria. La dottrina si è divisa sulla rilevanza del repêchage quale presupposto della legittimità del recesso. La tematica sulla quale si sono incentrate le discussioni degli autori, e ciò anche prima della cosiddetta Legge n. 92 del 2012, inerisce le conseguenze della violazione di tale obbligo, ossia se ciò comporti anche la sanzione della tutela reintegratoria[32]. Tale problematica ha poi avuto ulteriori motivi di riflessione anche successivamente all’entrata in vigore di tale ultima riforma che, modificando il precedente regime sanzionatorio applicabile in caso di licenziamento illegittimo, ha posto agli interpreti alcuni interrogativi sulla collocazione dell’obbligo di repêchage quale elemento interno o esterno rispetto alle ragioni del licenziamento per g.m.o.; in altri termini, se tale requisito rientri o meno nella “manifesta insussistenza del fatto” e implichi, in ipotesi di sua inosservanza, l’applicazione della tutela reale. Secondo parte della dottrina, l’obbligo di ripescaggio non rientra tra gli elementi costitutivi della fattispecie del giustificato motivo oggettivo essendo solo una “conseguenza” dello stesso comportando, in caso di sua violazione, solo la sanzione indennitaria di cui al comma 5 dell’art. 18, L. n. 300 del 1970, come modificata dalla L. n. 92/2012[33]. Al riguardo, si è sostenuto che l’obbligo di reimpiego è elemento esterno rispetto alle ragioni che giustificano il recesso e “costituisce logicamente e cronologicamente, elemento di una fattispecie che non solo è diversa da quella che ha come effetto il diritto di licenziare, ma che è anche destinata a produrre effetti diversi: non già il sorgere del diritto a licenziare, ma l’impedimento del suo esercizio”[34]. Altri autori, invece, hanno sostenuto che il repêchage sia un elemento costitutivo del giustificato motivo oggettivo e rientri pienamente nel “fatto”, la cui violazione determina, quindi, l’insussistenza del fatto e la conseguente reintegrazione del lavoratore.[35] Con riferimento a tale ultimo orientamento dottrinale, è stato affermato che il reimpiego del lavoratore fa parte del fatto e l’inosservanza di tale obbligo deve ritenersi “coessenziale alla valutazione della manifesta insussistenza”. In tal caso, il licenziamento è illegittimo per carenza di giustificazione in quanto, “benché di origine giurisprudenziale, il repèchage può infatti dirsi per diritto vivente un attributo normativo sostanziale nella definizione del giustificato motivo oggettivo”[36]. In merito, è stato inoltre sostenuto che l’obbligo di ricollocazione del lavoratore è un “elemento consustanziale al fatto”[37] e che “il carattere manifesto, o no, dell’eventuale insussistenza del fatto afferisce anche a questo aspetto”[38].

La giurisprudenza di merito, seguendo l’impostazione restrittiva della dottrina, aveva valutato l’obbligo di ripescaggio quale elemento esterno al fatto, ritenendo appunto che la violazione dello stesso non comportasse l’applicazione della reintegrazione ma solo la tutela indennitaria ex art. 18, comma 4, l. n. 300/70. Secondo questo orientamento, tale inadempimento non poteva ricollegarsi alla manifesta insussistenza, che può dar luogo alla tutela reintegratoria di cui all’art. 18, co. 7, Stat. Lav., ma solo a quella indennitaria ex art. 18, co. 5, St. lav. In tal senso, si erano espresse le decisioni del Tribunale di Roma del 13.09.2017[39] e del 8.8.2013, nonché del Tribunale di Varese del 4.9.2013, a parere delle quali, in caso di soppressione del posto di lavoro, la violazione dell’obbligo di repêchage è un elemento esterno alla fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, non fa parte del “fatto posto a base del licenziamento”, essendo invece solo una sua conseguenza.[40]. I provvedimenti di merito che, invece, avevano reintegrato il lavoratore su presupposti diametralmente opposti erano rari; a quanto consta, un’ordinanza del 3 giugno 2013 del Tribunale di Reggio Calabria[41], nonché una sentenza della Corte di appello di Roma del 1° febbraio 2018, n. 469[42].

La giurisprudenza di cassazione, successivamente investita della questione, ha invece elaborato il principio secondo cui il repêchage è un elemento costitutivo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, fa parte del fatto. Sul punto, si richiamano le statuizioni di Cass. Civ. 2 maggio 2018, n. 10435, secondo cui “posto che nella nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo rientra (...) sia l’esigenza della soppressione del posto di lavoro sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore, il riferimento legislativo alla ‘manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento’ va inteso con riferimento a tutti e due i presupposti di legittimità della fattispecie”.[43] Il principio espresso dai giudici di legittimità nel 2018 e, incidentalmente anche prima con le citate sentenze del 2016, è dirompente in quanto conferma l’orientamento per cui il repêchage è elemento interno al fatto. Si stabilisce così un unico filo conduttore che collega eziologicamente le due fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e dell’obbligo di repêchage con riferimento alle conseguenze sanzionatorie in caso di inosservanza di quest’ultimo. L’imprenditore, in ragione di tali principi, ha l’onere di dimostrare di aver tentato ogni soluzione alternativa al recesso anche in ragione delle nuove disposizioni ex D.Lgs. n. 81/2015, nell’accezione sin qui evidenziata. In tal modo, l’obbligo di repêchage risulta “rafforzato” dalle nuove disposizioni ex art. 2103 c.c. vista la possibilità, oggi giuridicamente praticabile, di ricollocare il lavoratore in azienda in mansioni alternative o addirittura inferiori, essendo “caduto” il principio della equivalenza professionale, così come confermato dai recenti orientamenti di legittimità[44].

Violazione del repêchage, reintegrazione e manifesta insussistenza dopo la sentenza della Corte cost. n. 125 del 19 maggio 2022

Nel provvedimento in analisi i giudici di legittimità hanno ritenuto che, a fronte dell’accertata violazione dell’obbligo di repêchage, si dovesse disporre la reintegrazione del lavoratore in quanto il requisito della manifesta insussistenza era stato espunto dall’ordinamento. Sul tema della manifesta insussistenza, per completezza d’indagine, pare opportuno richiamare testualmente le motivazione della citata sentenza di Cassazione del 2018 secondo cui “posto che nella nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo rientra (...) sia l’esigenza della soppressione del posto di lavoro sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore, il riferimento legislativo alla ‘manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento’ va inteso con riferimento a tutti e due i presupposti di legittimità della fattispecie”. Tale indirizzo, pertanto, aveva già individuato una fattispecie unitaria che qualificava il licenziamento illegittimo in caso di g.m.o., a prescindere dal criterio della manifesta insussistenza. Infatti, se l’obbligo di ricollocazione fa parte del fatto e la tutela reale si applica in caso di manifesta insussistenza del fatto, la violazione di tale obbligo rende necessariamente il licenziamento “manifestamente” illegittimo. L’avverbio “manifestamente” prestava il fianco ad una incerta applicazione della tutela reale rimessa a canoni esegetici non oggettivi. Al riguardo, infatti, la prevalente dottrina e, una parte della giurisprudenza, avevano sostenuto (cfr. la citata sentenza della Corte di appello di Roma del 1° febbraio 2018) che i fatti o esistono o non esistono, onde, sul piano logico, nulla distingue un fatto insussistente da uno manifestamente insussistente[45]. Le argomentazioni della Suprema Corte in commento prendono invece le mosse direttamente dai principi espressi dalla sentenza n. 125 del 19 maggio 2022 della Corte cost., intervenuta nelle more del giudizio di cassazione. La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, co. 7, secondo periodo, L. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, limitatamente alla parola “manifesta”. In merito, i giudici di legittimità hanno evidenziato che nel giudizio di cassazione, qualora sopravvenga la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma di legge dopo la deliberazione della decisione della Corte di Cassazione, ma prima della pubblicazione della stessa, e tale dichiarazione risulti potenzialmente condizionante rispetto al contenuto ed al tipo di decisione che la Corte stessa era chiamata a rendere, sussiste il dovere “di tenere conto della suddetta dichiarazione”. Ciò ha determinato una nuova camera di consiglio della Suprema Corte con cui è stata cassata la sentenza della Corte d’appello al fine di consentire al giudice del rinvio di verificare, laddove i giudici di merito avevano applicato la sola tutela indennitaria, anziché quella reintegratoria, “quale sia la tutela in concreto applicabile alla fattispecie sulla base della nuova dizione letterale dell’art. 18 comma 7 della legge n. 300 del 1970”.

* N.d.R.: Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione.

[1] Sul punto, si riscontra un indirizzo consolidato nell’orientamento giurisprudenziale, tra cui, ex plurimis: Cass. Civ. 6 settembre 2003, n. 13058, in Mass. giur. lav., 2004, 94; Cass. Civ. 20 agosto 2003, n. 12270, in Rep. Foro it., 2003, voce Lavoro (rapporto) [3890] n. 1576; Cass. Civ. 14 dicembre 2002, n. 17928, in Riv. crit. dir. lav., 2003, 402; Cass. Civ. 24 giugno 1994, n. 6067, in Notiz. giur. lav., 1995, 87.

[2] A. Perulli, Razionalità e proporzionalità nel diritto del lavoro, in Dir. lav. rel. ind., 2005, 105.

[3] Sul controllo dell’effettività delle ragioni del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, si vedano: Cass. Civ. 16 marzo 2015, n. 5173, in Riv. giur. lav., 2015, 4, II, 574, con nota di M. Salvagni, Il controllo giudiziale sull’effettività del licenziamento per motivo oggettivo. In dottrina, cfr. D. Conte, La “manifesta insussistenza” nel giustificato motivo oggettivo tra verità empirica e verità processuale, in Lav. prev. oggi, 7-8, 2018, 438, nonché R. Fratini, Giustificato motivo oggettivo, ragioni tecniche e organizzative, repêchage e valutazione giudiziale, in Lav. prev. oggi, 7-8, 410.

[4] A. Maresca, Il giustificato motivo oggettivo del licenziamento negli approdi nomofilattici della Cassazione, in Mass. giur. lav., 2019, 3, 556.

[5] Sul punto si vedano: Cass. Civ. 17 febbraio 2020, n. 3908 e Cass. Civ. 14 febbraio 2020, n. 3819, entrambe pubblicate in Lav. giur., 2020, 12, 1160, con nota di M. Ballistreri, Il contributo della giurisprudenza in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, 1161. Sull’orientamento giurisprudenziale che in caso di licenziamento per g.m.o. esclude la necessità del datore di lavoro si specificare le motivazioni delle decisioni organizzative che comportano la soppressione del posto di lavoro si veda Cass. Civ. 7 dicembre 2016, n. 25201, in Foro it., I, 123, con nota di M. Ferrari, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e nomofilachia. Su tale sentenza si veda anche M. Persiani, Giustificato motivo di licenziamento e autorità dal punto di vista giuridico, in Arg. dir. lav., 2017, 133 ss.

[6] Fautore della tesi dell’obbligo di repêchage in ragione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo come extrema ratio è F. Mancini, in Commento all’art. 18, Commentario allo Statuto dei diritti dei lavoratori, Bologna, 1972. Secondo altra dottrina, nella specie N. Napoli, La stabilità reale del rapporto di lavoro, Milano, 1980, 312 ss., tale fattispecie deriva dal potere di modifica unilaterale delle mansioni del lavoratore di cui all’articolo 2103 c.c. Altro autore, V. Zoli, I licenziamenti per ragioni organizzative: unicità della causale e sindacato giudiziale, in Arg. dir. lav., 2008, 1, 17 ss. ritiene invece che il presupposto della ricollocazione del dipendente sia rinvenibile nei principi di correttezza e buona fede a cui devono ispirarsi le parti nell’esecuzione del contratto.

In giurisprudenza, si veda Cass. Civ. 12 dicembre 1972, n. 3578, in Foro it., 1973, 96, 605 ss., quale prima sentenza che collega eziologicamente il repêchage alla necessaria giustificazione del recesso.

[7] In tal senso, con riferimento alla ratio del rèpèchage per cui il licenziamento deve rappresentare l’estrema conseguenza cui il datore deve ricorrere nel caso che venga soppressa la posizione di lavoro, si vedano ex multis: Cass. Civ. 21 luglio 2016, n. 15082, in questa Rivista, 2016, 1019; Cass. Civ. 7 aprile 2010, n. 8237, in Arg. dir. lav., 2011, 2, 349; Cass. Civ. 10 marzo 1992, n. 2881; Cass. Civ. 28 settembre 2006, n. 21035, in Rep. Foro it., 2007, voce Lavoro (rapporto di), n. 1422; Cass. Civ. 14 settembre 1995, n. 9715, in Rep. Foro it., 1996, voce cit., n. 1466; Cass. Civ. 19 giugno 1993, n. 6814, in Rep. Foro it., 1993, voce cit., n. 1579; Cass. Civ. 7 luglio 1992, n. 8254, in Rep. Foro it., 1992, voce cit., n. 1549.

[8] In tal senso, G. Vidiri, Art. 41 Cost.: licenziamento per motivi economici e repêchage dopo il Jobs Act, in Corr. giur., 2017, 5, 675 ove l’autore evidenzia come negli indirizzi giurisprudenziali e dottrinali in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage vi sia stata spesso una lettura non corretta dell’art. 41 Cost.

[9] Con riferimento all’invenzione giurisprudenziale dell’obbligo repêchage, in senso critico, cfr. C. Pisani, Il repêchage nel licenziamento per motivi oggettivi: la creazione si espande al pari dell’incertezza, in Mass. Giur. lav., 2013, 4, 187.

[10] Sul repêchage quale fattispecie creativa ad opera della giurisprudenza che non ha alcun fondamento positivo in quanto non esisterebbe un obbligo legale che la impone, si veda, tra i vari autori: M. Persiani, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage, in Giur. it., 2016, 1666 ss., nonché C. Pisani, L’ambito del repêchage alla luce del nuovo art. 2103 cod. civ., in Arg. dir. lav., 2016, 3, 537. Cfr. altresì: G. Santoro Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Dir rel. ind., 2015, 1, 60-61; M. Persiani - G. Proia, Contratto e rapporto di lavoro, Padova, 2003, 164-165; nonché M. Novella, Dubbi e osservazioni critiche sul principio di insindacabilità delle scelte economico-organizzative dell’imprenditore, in Riv. it. dir. lav., 2004, 2, II,791.

[11] In tal senso, P. Tullini, Riforma della disciplina dei licenziamenti e nuovo modello giudiziale di controllo, in Riv. it. dir. lav., 2013, I, 168.

[12] S. Brun, L’obbligo di repêchage tra elaborazione giurisprudenziale e recenti riforme, in Riv. it. dir. lav., 2013, 4, 781. Sempre in senso critico sulla “regola” del repêchage cfr. anche P. Ichino, Il contratto di lavoro, Tomo III, in Trattato di diritto civile e commerciale (a cura di Cicu - Messineo - Mengoni) coordinato da Schlesinger, Milano, 2003, 44, secondo cui se il datore avesse dei benefici dalla ricollocazione del dipendente “egli non avrebbe alcun interesse a licenziare quel lavoratore e procederebbe al repêchage spontaneamente, senza necessità che sia l’ordinamento a imporglielo”.

[13] Cass. Civ. 23 ottobre 2013, n. 24037, in Riv. giur. lav., 1, II, 2014, 46, con nota di M. Russo, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo tra tradizione e innovazione.

[14] Sul punto si vedano, ex multis: Cass. Civ. 18 marzo 2010, n. 6559, in Rep. Foro it., 2010, voce cit., n. 1434; Cass. Civ. 26 marzo 2010, n. 7381, in Rep. Foro it., 1996, voce cit., n. 1431; Cass. Civ. 22 ottobre 2009, n. 22417, in Rep. Foro it., 2009, voce cit., n. 1483; Cass. Civ. 19 febbraio 2008, n. 4068, in Rep. Foro it., 1996, voce cit., n. 1511; Cass. Civ. 14 dicembre 2002, n. 17928, in Rep. Foro it., 2002, voce cit., n. 1613 e in Riv. critica dir. lav., 2003, 402; Cass. Civ. 3 ottobre 2000, n. 13134, in Rep. Foro it., 2000, voce cit., n. 1636; Cass. Civ. 12 giugno 2002, n. 8396, in Rep. Foro it., 2002, voce cit., n. 1283; Cass. Civ. 9 agosto 2003, n. 12037, in Rep. Foro it., 2003, voce cit., n. 1582 Cass. Civ. 27 novembre 1996, n. 10527, in Rep. Foro it., 1996, voce cit., n. 1462; Cass. Civ. 1° ottobre 1998, n. 9768, in Rep. Foro it., 1998, voce cit., n. 1604; Cass. Civ. 10 marzo 1992, n. 2881, in in Rep. Foro it., 1992, voce Lavoro (rapporto di), n. 1837.

[15] In tal senso, tra le tante: Cass. Civ. 12 agosto 2016, 17091, in Foro it., 2017, I, 239; in Lav. giur., 2017, 169; in Riv. it. dir. lav., 2017, II, 12, in Dir. rel. ind., 2017, 218 (m); Cass. Civ. 16 maggio 2016, n. 10018, in Rep. Foro it., 2007, voce Lavoro (rapporto di), n. 1232; Cass. Civ. 10 maggio 2016, n. 9467, in Rep. Foro it., 2016, voce cit., n. 1233; in Giur. it., 2016, 2195; in Arg. dir. lav., 2016, 887; Cass. Civ. 12 febbraio 2014, n. 3224, in Notiz. giur. lav., 2014, 522; Cass Civ. 1° agosto 2013, n. 18416, in Mass. giur. lav., 2014, 1/2, 35; Cass. Civ. 8 novembre 2013, n. 25197, in questa Rivista, 2014, 181; Cass. Civ. 3 marzo 2014, n. 4920, in Rep. Foro it., 2014, voce cit., n. 1254; Cass. Civ. 26 aprile 2012, n. 6501, in Rep. Foro it., 2012, voce cit., n. 1185; Cass. Civ. 8 febbraio 2011, n. 3040, in Rep. Foro it., 2011, voce cit., n. 1245.

[16] In merito si veda Cass. Civ. 23 ottobre 2013, n. 24037, in Riv. it. dir. lav., 2014, 296, con nota di D. Zanetto, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e controllo da parte del giudice, secondo cui, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice deve accertare la reale sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, nonché il nesso di causalità tra il medesimo e l’individuazione del soggetto destinatario del provvedimento di licenziamento, gravando sempre sul datore di lavoro l’onere di prospettare al lavoratore la possibilità di essere adibito a mansioni inferiori. Sul, punto, in dottrina confronta anche M. Brollo, Le modificazioni oggettive: il mutamento di mansioni, in C. Cester (a cura di), Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, in F. Carinci, Diritto del Lavoro, Commentari, Torino, II, II, 2007, 1517 ss.

[17] Sull’adibizione a mansioni inferiori che non contrasta la tutela della professionalità se essa rappresenta l’unica alternativa al licenziamento, si veda Cass. Civ., SS.UU., n. 7755 del 1998, in Riv. it. dir. lav., 1, 1999, II, 170, nonché Cass. Civ. 13 agosto 2008, n. 21579, pubblicata rispettivamente in Mass. giur. lav., 2009, 3, 159, con nota di C. Pisani, Il licenziamento impossibile: ora anche l’obbligo di modificare il contratto, e in Riv. it. dir. lav., 2009, 3, II, 664; cfr. anche Cass. Civ. 23 ottobre 2013, n. 24037, in Riv. it. dir. lav., 2014, 2, II, 296; nonché Cass Civ. 22 maggio 2014, n. 11395, in D&G, 2014.

[18] Il D.Lgs. n. 81 del 2015, entrato in vigore il 25 giugno 2015, sostituisce integralmente l’art. 2103 c.c., introducendo, al primo comma, la seguente formulazione “il lavoratore deve essere adibito a mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a quelle mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.

[19] Da ultimo, si veda Cass. Civ. 26 maggio 2017, n. 13379, in Riv. giur. lav., 2017, 4, II, ss., con nota di M Salvagni, Repêchage in mansioni inferiori dopo il Jobs Act: obbligo o facoltà?, nonché Cass. Civ. 9 novembre 2016, n. 22798; Cass. Civ. 21 dicembre 2016, n. 26467 e Cass. Civ. 5 gennaio 2017, n. 160, tutte pubblicate in Riv. giur. lav., 2017, 2, II, 245, con nota di G. Calvellini, Obbligo di repêchage: vecchi e nuovi problemi all’esame della Cassazione. Sull’obbligo del datore di lavoro di dimostrare l’insussistenza di mansioni inferiori in alternativa al recesso per soppressione del posto di lavoro, si veda anche Cass. Civ. 10 maggio 2016, n. 9467, in Arg. dir. lav., 2016, 4-5, 887 ss., con nota di G. Gaudio, Repêchage tra riforma Fornero e Jobs Act.

[20] Le disposizioni di cui al comma 6 dell’art. 2103 c.c. stabiliscono infatti: “nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita [...]”.

[21] Sulla cosiddetta “dequalificazione contrattata” cfr. Cass. Civ. 15 maggio 2012, n. 7515, in Riv. it. dir. lav., 2013, 67, con nota di M. Falsone, Sul c.d. obbligo di repêchage e la dequalificazione contrattata.

[22] Sul demansionamento, quale unica alternativa al recesso datoriale che non necessita di apposito patto o richiesta, si veda anche Cass Civ. 19 novembre 2015, n. 23698, in Riv. giur. lav., 2016, 2, II, 182, con nota di F.S. Giordano, Sui limiti dell’obbligo di repêchage.

[23] In merito, si veda una ormai consolidata elaborazione giurisprudenziale, recepita anche della sentenza in commento e, in particolare: Cass. Civ. 2 maggio 2018, n. 10435; Cass. Civ. 22 marzo 2016, n. 5592 e Cass. Civ. 13 giugno 2016, n. 12101, per la cui collocazione si rimanda alle successive note.

[24] Sul rispetto dei principi di correttezza e buona fede si veda Cass. Civ. 15 maggio 2012, n. 7509, in Riv. it. dir. lav., 2013, 323, con nota di R. Galardi, Note in tema di licenziamento connesso a trasferimento di ramo d’azienda, ove si sostiene che in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo se il motivo consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile - in relazione al quale non sono utilizzabili né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere, né il criterio della impossibilità di “repêchage” - il datore di lavoro deve pur sempre improntare l’individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell’art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche del recesso di una di esse.

[25] Per una completa ricostruzione sull’evoluzione giurisprudenziale in tema dell’obbligo di repêchage, anche in mansioni inferiori, sia consentito rimandare a M. Salvagni, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e l’obbligo di repêchage anche in mansioni inferiori nell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale prima o dopo il Jobs Act, in Lavoro e prev. oggi, 2017, 5-6, 254 ss.

[26] Pubblicate entrambe in Riv. giur. lav., 2016, 3, II, 302, con nota di L. Monterossi, Licenziamento per giustificato motivo e repêchage: nessun onere di allegazione. Cass. Civ. 22 marzo 2016, n. 5592 è stata pubblicata anche in Giur. it., 2016, 1666 ss., con nota di M. Persiani, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage nonché in questa Rivista, 2016, 8-9, 794 ss., con nota di C. Romeo, L’epilogo in tema di repêchage e onere probatorio. Cass. Civ. 13 giugno 2016, n. 12101 è stata pubblicata su anche in Giur. it., 2017, 412 ss., con nota di M.R. Megna, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo tra impossibilità di repêchage ed oneri probatori.

[27] Si vedano ex multis: Cass. Civ. 10 maggio 2016, n. 9467, in DeJure; Cass. Civ. 8 novembre 2013, n. 25197, in DeJure; Cass. Civ. 8 febbraio 2011, n. 3040, in Giur. lav., 2011, 10, 26.

[28] Su una diversa interpretazione dell’onere della prova in tema di repêchage, secondo cui il lavoratore deve in ogni caso collaborare all’accertamento della possibilità di ricollocazione, si veda L. Confessore, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: repêchage e demansionamento, in Giur. it., 2014, 8, 1969.

[29] Cfr. anche Cass. Civ. 10 maggio 2016, n. 9467, in Giur. it., 2016, 2195, con nota di V. Miraglia, La Corte di Cassazione ritorna sull’obbligo di repêchage.

[30] In tal senso, G. Franza, La prova del repêchage non è il repêchage. Sulla necessaria distinzione tra fatti e oneri processuali per la tutela dell’affidamento al precedente, in Mass. giur. lav., 2021, 4, 989 ss., nota a Trib. Roma 26 febbraio 2021, ord.

[31] Al riguardo, la Cassazione richiama, quale specifico precedente, Cass. Civ. n. 23789 del 2019.

[32] Sul punto, con riferimento agli orientamenti dottrinali antecedenti alla Riforma Fornero si segnala: F. Scarpelli, La nozione e il controllo del giudice, in I licenziamenti collettivi, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1997, 19, 29 ss. nonché U. Carabelli, I licenziamenti per riduzione di personale in Italia, in AA.VV., I licenziamenti per riduzione del personale in Europa, Bari, 2001, 217, secondo cui il repêchage rientra nella fattispecie costitutiva del recesso per giustificato motivo oggettivo la cui violazione comporta l’illegittimità del recesso. Di avviso contrario, L. Nogler, La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento tra i principi costituzionali, in Dir. rel. ind., 2007, 29, 648 ss. Con riferimento, invece, ai contributi della dottrina dopo la Riforma Fornero si segnala: G. Gaudio, Repêchage tra riforma Fornero e Jobs Act., cit., 887 ss., nonché E. Gramano, Natura e limiti dell’obbligo di repêchage: lo stato dell’arte alla luce delle più recenti pronunce giurisprudenziali, in Arg. dir. lav., 2016, 6, 1310 ss.

[33] In tal senso, G. Santoro Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo e l’ambito della tutela risarcitoria, in Arg. dir. lav., 2013, 2, 236 ss. In merito, cfr. anche A. Maresa, Il giustificato motivo oggettivo del licenziamento negli approdi nomofilattici della Cassazione, in Mass. giur. lav., 2019, 3, 560-561.

[34] M. Persiani, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage, in Giur. it., 2016, 5, 1168 ss., il quale ha affermato che l’impossibilità di repêchage rappresenta un elemento esterno al giustificato motivo e non può rientrare tra le ragioni di cui all’art. 3, L. n. 604/1966. Su posizioni analoghe, si veda anche S. Bini, A proposito della divaricazione tra onus probandi e onus allegandi in materia di obbligo di repêchage, in Arg. dir. lav., 2016, 4-5, 1003, secondo cui il repêchage deve essere considerato quale fattispecie a sé stante rispetto alle ragioni del licenziamento.

[35] In questo senso, A. Vallebona, Il repêchage fa parte del “fatto”, in Mass. giur. lav., 2013, 11, 750. Sulla violazione dell’obbligo di repêchage che comporta l’applicazione della tutela reintegratoria si veda anche V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in Riv. it. dir. lav., 2012, 3, I, 563-564. Sul punto, confronta altresì F. Scarpelli, Giustificato motivo di recesso e divieto di licenziamento per rifiuto della trasformazione del rapporto a tempo pieno, in Riv. it. dir. lav., 2013, 1, II, 284 ss.

[36] A. Perulli, Fatto e valutazione giuridica del fatto nella nuova disciplina dell’art. 18 Stat. Lav. ratio ed aporie dei concetti normativi, in Arg. dir. lav., 2012, 4-5, 787 ss., secondo cui il controllo della possibilità di utilizzazione aliunde rientra nell’ambito dell’accertamento della sussistenza del fatto.

[37] M.T. Carinci, Fatto “materiale” e fatto “giuridico” nella nuova articolazione delle tutele ex art. 18 statuto dei lavoratori, in Riv. dir. proc., 2013, 1326.

[38] G. Amoroso, Le tutele sostanziali e processuali del novellato art. 18 dello Statuto dei Lavoratori tra giurisprudenza di legittimità e Jobs Act, 2015, in Riv. it. dir. lav., 3, II, 341.

[39] In Giur. lav., 2018, 13, 5.

[40] Cfr. in merito ordinanze del Trib. Roma 4 settembre 2013 e del Tribunale di Varese pubblicate entrambe in Riv. it. dir. lav., 2014, 1, con nota di C. Di Carluccio, Licenziamento economico: alternative di reimpiego prospettabili al lavoratore e sanzioni per il caso di omesso repêchage, 2014, in Riv. it. dir. lav., II, 167-168; sul punto, si veda anche Trib. Genova 14 dicembre 13, in Arg. dir. lav., 2014, 3, 798, con nota di A. Biagiotti, Profili interpretativi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo tra vizi formali e obbligo di repêchage; nonché Trib. Milano 20 novembre 2012, in Mass. giur. lav., 2013, 1, 39 ss., con nota di A. Vallebona, La tutela reale nel licenziamento per motivo oggettivo e per motivo illecito, nonché le seguenti decisioni, inedite a quanto consta: Trib. Milano 7 giugno 2017, Trib. Torino 5 aprile 2016.

[41] In Mass. giur. lav., 2014, 4, 229 ss.

[42] In Riv. giur. lav., 2018, 3, II, 359, con nota di M. Salvagni, Violazione del repêchage e reintegra: l’obbligo di ricollocazione è un elemento del fatto, secondo cui “l’impossibilità di ricollocamento del lavoratore il cui posto sia stato soppresso costituisce una delle condizioni di fatto che legittimano il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, anche tale impossibilità costituisce un elemento del ‘fatto’ che deve sussistere per evitare l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata”.

[43] In Lav. prev. oggi, 7-8, 2018, 481, con nota di M. Salvagni, La Cassazione in funzione nomofilattica: l’obbligo di repêchage fa parte del fatto e la sua violazione può comportare l’applicazione della tutela reale.

[44] La Corte di cassazione, infatti, ha confermato l’interpretazione esegetica in tema di obbligo di repêchage anche in mansioni inferiori con i seguenti arresti: Cass. Civ. 9 novembre 2016, n. 22798, consultabile su ilgiuslavorista.it con nota del 27 gennaio 2017 di R. Spagnuolo, Obbligo di repêchage per mansioni inferiori?; Cass. Civ. 21 dicembre 2016, n. 26467. Cass. Civ. 5 gennaio 2017, n. 160.

[45] In tal senso, si veda A. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art. 18 Statuto Lavoratori, in Riv. it. dir. lav., 2012, 2, I, 443.