Articolo di Michelangelo Salvagni.
Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, anno LXXIV-2023-n.1.
CASSAZIONE, 16.9.2022, n. 27334 - Pres. Raimondi, Est. Ponterio, PM Sanlorenzo (Conf.) – F.F. (Avv.ti Boni, De Marchis Gomez) c. G. S.r.l. (Avv.ti Gragnoli, Zaccarelli, Romanelli).
Diff. Corte appello Bologna del 28.5.2019.
Licenziamento individuale – Malattia o infortunio – Superamento del periodo di comporto – Recesso intimato da datore con meno di 15 dipendenti – Responsabilità del datore ex art. 2087 c.c. – Comporto – Non computabilità assenze per malattia – Violazione art. 2110, c. 2, c.c. – Norma imperativa in combinato disposto con art. 1418 c.c. – Nullità del licenziamento – Tutela applicabile – Art. 18, c. 7, St. lav. quale norma speciale – Reintegrazione.
Nel sistema delineato dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, il licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, c. 2, c.c., è nullo e le sue conseguenze sono disciplinate, secondo un regime sanzionatorio speciale, dal c. 7, che a sua volta rinvia al comma 4, del medesimo articolo 18, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. (1)
Sommario: 1. Rilievi preliminari. – 2. I fatti di causa. – 3. La nullità “bifronte” del licenziamento per violazione dell’art. 2110 c.c. e il “doppio salto” esegetico: l’estensione della tutela reale attenuata a prescindere dal requisito dimensionale e la non applicazione del regime della nullità di diritto comune – 4. L’art. 2110, c. 2, c.c., quale fattispecie autonoma di norma a carattere imperativo finalizzata all’esigenza di tutela della salute. – 5. La sentenza delle Sezioni Unite del 22.5.2018, n. 12568 risolve il contrasto giurisprudenziale sul licenziamento intimato durante la malattia: è nullo e non inefficace – 6. La nullità del recesso e la forza espansiva dell’art. 18 St. lav. nell’elaborazione giurisprudenziale. – 7. L’art. 18, c. 7, St. lav. è norma speciale di equilibrio del sistema che consente la reintegra a prescindere dal requisito dimensionale.
– Rilievi preliminari. - Il tema posto al vaglio della sentenza in commento riguarda le conseguenze sanzionatorie in caso di nullità di un licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto da un datore di lavoro con meno di 15 dipendenti. Nel caso di specie, i giudizi di merito avevano accertato, in maniera univoca, che le assenze, in ragione della responsabilità datoriale sull’infortunio occorso alla lavoratrice, non fossero computabili ai fini della realizzazione della fattispecie del superamento del comporto. La Suprema Corte si è dovuta misurare con un problema esegetico di non facile soluzione con riferimento al tipo di sanzione da applicare in riferimento alla nullità dell’atto espulsivo: nullità di diritto comune e, quindi reintegra piena, oppure reintegra attenuata o, addirittura, solo quella risarcitoria ex art. 8 l. n. 604 del 1966.
La sentenza in commento, con una articolata motivazione, ha affrontato la questione dell’applicabilità della reintegrazione ai casi di nullità del licenziamento per mancato superamento del comporto anche alle imprese il cui requisito dimensionale è inferiore ai 15 dipendenti. La Cassazione ha richiamato sul punto l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite n. 12568 del 22.5.2018 che avevano sancito la nullità del licenziamento adottato in violazione dell’art. 2110, c. 2, c.c., affermando il seguente principio di diritto: “il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, c. 2, c.c.”[1].
I giudici di legittimità, sulla base di tale assunto, hanno sviluppato il proprio ragionamento decisorio, il quale è caratterizzato da alcuni importanti passaggi logico sistematici che si andranno ad approfondire nelle pagine seguenti. Tuttavia, va dato conto di come la sentenza in esame si distingua per la novità della soluzione che riguarda, in realtà, una fattispecie fattuale e giuridica in parte differente rispetto a quella posta al vaglio delle citate Sezioni Unite del 2018. Ciò per due ragioni fondamentali che ne caratterizzano la rilevanza dei principi espressi. Da una parte, in quanto in quel caso il licenziamento era antecedente alla c.d. riforma Fornero, poiché intimato in data 8 luglio 2004 e, quindi, i giudici non avevano dovuto affrontare le suesposte problematiche sulla eventuale tutela applicabile ex art. 18, St. lav. Dall’altro, perché la società che aveva irrogato il recesso aveva un requisito dimensionale superiore ai 15 dipendenti e, quindi, non vi era alcuna problematica da risolvere su quale tutela applicare, ossia reintegratoria o solo risarcitoria, in virtù dei dipendenti occupati. Per completezza d’informazione, si evidenzia che le enunciazioni adottate dalla Cassazione per definire il caso di specie non sono sovrapponibili neanche alle determinazioni stabilite da altra sentenza di legittimità, la n. 19661 del 22.7.2019, nonostante entrambe ineriscano a un licenziamento nullo per violazione dell’art. 2110, c. 2, c.c., intimato da un datore di lavoro in area tutela obbligatoria. Infatti, tale vicenda veniva risolta, ratione temporis (anche per il fatto che l’atto di recesso era del 15.7.2008 e, quindi, prima della l. n. 92 del 2012), applicando la sanzione delle nullità di diritto comune e non le tutele ex art. 18, St. lav. [2].
– I fatti di causa. - Per una migliore comprensione dell’intera questione, occorre partire dalle circostanze fattuali. La vicenda tratta il caso di una lavoratrice, dipendente di un’azienda con meno di 15 dipendenti, che adiva il Tribunale di Reggio Emilia contestando la nullità del licenziamento intimatole per mancato superamento del periodo di comporto. In punto di diritto, la ricorrente chiedeva la reintegrazione nel posto di lavoro invocando la responsabilità del datore di lavoro nell’infortunio occorsole e la conseguente violazione dell’art. 2110 c.c., comma 2, in quanto erano stati computati illegittimamente nel comporto i giorni di assenza imputabili invece alla condotta datoriale. L’istruttoria svolta aveva accertato che l’infortunio era avvenuto mentre la lavoratrice espletava le proprie mansioni, nella specie posizionare la merce sugli scaffali, utilizzando però uno sgabello instabile in quanto privo di uno dei piedini antiscivolo. A parere del primo giudice, risultava provata la violazione delle norme a tutela dell’integrità psicofisica della prestatrice, poiché il datore non aveva dimostrato in giudizio di aver adempiuto agli obblighi ex art 2087 c.c., apprestando idonee misure di sicurezza. Il comporto non poteva quindi ritenersi superato in quanto la responsabilità del datore nella verificazione dell’infortunio sul lavoro comportava la non computabilità dei periodi di assenza dal lavoro per la malattia. Il Tribunale, in ragione della violazione dell’art. 2110, c. 2, c.c., accertava la nullità del recesso e applicava la tutela reale attenuata ex art. 18, c. 4, St. lav., condannando il datore di lavoro alla reintegrazione della dipendente nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria nella misura massima di 12 mensilità. L’ordinanza veniva confermata anche nella fase di opposizione. Il datore di lavoro proponeva reclamo presso la Corte d’appello di Bologna. Sul punto, i giudici di secondo grado, pur confermando nel merito l’illegittimità del licenziamento, riformavano parzialmente la sentenza di primo grado ritenendo fosse applicabile la fattispecie più tenue della tutela obbligatoria (art. 8 della l. n. 604 del 1966), condannando la società alla riassunzione della lavoratrice o, in alternativa, alla corresponsione di un’indennità pari a 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. La lavoratrice impugnava la sentenza innanzi alla Cassazione, contestando l’errore di diritto in cui erano incorsi i giudici di appello nel ritenere applicabile al caso di specie la sola tutela risarcitoria prevista dall’art. 8 della l. n. 604/66; i giudici, invece, avrebbero dovuto dichiarare nullo il licenziamento e, conseguentemente, applicare la tutela reintegratoria di cui all’art. 18 St. lav.
3. – La nullità “bifronte” del licenziamento per violazione dell’art. 2110 c.c. e il “doppio salto” esegetico: l’estensione della tutela reale attenuata a prescindere dal requisito dimensionale e la non applicazione del regime della nullità di diritto comune. - I punti d’indagine che maggiormente caratterizzano la sentenza in analisi, alla luce di quanto sin qui evidenziato, riguardano due problemi interpretativi estremamente complessi. La Cassazione è stata costretta, in un certo senso, ad un articolato ragionamento esegetico che si è risolto con l’individuazione di una fattispecie di nullità di tipo “bifronte” del tutto particolare, in ragione delle diverse conseguenze che produce rispetto ai canoni normativi tipici che la caratterizzano. I giudici di legittimità, infatti, hanno dovuto superare, utilizzando una metafora sportiva, due ostacoli di rilevante difficoltà mediante un “doppio salto” esegetico. Da una parte, quello delle stringenti previsioni normative stabilite per l’applicazione della tutela reale collegata a requisiti dimensionali espressamente tipizzati; dall’altra, l’eventuale contraddizione generata dalla riconduzione ad un regime sanzionatorio diverso (nella specie la tutela reale attenuata) rispetto a quello che, invece, produce giuridicamente la fattispecie della nullità di diritto comune, ossia la reintegra piena ex 18, c. 1, St. lav.
In concreto, queste in breve le difficoltà affrontate dalla Cassazione a seguito dei giudizi di merito. In prima battuta, il contrasto scaturito dalle statuizioni della Corte di appello rispetto a quelle del Tribunale con riferimento alla diversa lettura della reintegrazione rispetto alle disposizioni dell’art. 18, c. 8, St. lav., che, invece, come osservato dalla Corte bolognese, escludono l’applicazione dei commi dal quarto al settimo al datore di lavoro privo dei requisiti dimensionali individuati nel medesimo c. 8. Il tema è complesso in quanto, come è noto, per le aziende con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, c. 2, c.c., la sanzione è disciplinata dal c. 7 dell’art. 18 St. lav., come novellato dalla l. n. 92 del 2012, che, a sua volta, rinvia al comma 4 (reintegra attenuata), anziché al comma 1 (reintegra piena); norma quest’ultima che prevede un regime sanzionatorio speciale nei casi di nullità quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. In altri termini, la tematica da risolvere per la Cassazione ha riguardato quello che, a parere dei giudici della Corte di appello, sarebbe un limite normativo insuperabile, ossia il requisito dimensionale. Tale delimitazione legale non consentirebbe l’applicazione della reintegrazione nel caso di specie in virtù del combinato disposto dell’art. 18 St. lav., cc. 4 e 7, che produce i propri effetti nei limiti della tutela reale, non estendibili ai datori di lavoro privi di quel requisito occupazionale[3]. In seconda istanza, la Cassazione si è dovuta confrontare con un ulteriore profilo normativo di non facile soluzione, ossia l’eventuale “cortocircuito” interpretativo derivante dalla mancata applicazione al licenziamento nullo delle conseguenze “ontologiche” derivanti appunto dalla categoria giuridica della nullità di diritto comune ex art. 1418 c.c.
– L’art. 2110 c.c., comma 2 quale fattispecie autonoma di norma a carattere imperativo finalizzata all’esigenza di tutela della salute. - La vicenda in esame, tra i vari istituti giuridici trattati, in prima istanza riguarda quello del superamento del periodo di comporto ove la malattia, tuttavia, era stata provocata da una illegittima condotta del datore di lavoro. Partendo dal dato normativo, l’art. 2110 c.c., comma 2, rappresenta una fattispecie autonoma secondo cui è nullo il licenziamento intimato in ragione di assenze per malattia che non superino il periodo di comporto determinato dai contratti collettivi[4]. In giurisprudenza, è principio consolidato quello per cui non devono calcolarsi, ai fini del superamento del comporto contrattualmente previsto, i giorni di assenza dal lavoro (per malattia o infortunio) causati dalla illegittima condotta del datore che non ha rispettato gli obblighi di sicurezza posti a tutela dell’integrità psico-fisica dei prestatori, così come disciplinati dall’art. 2087 c.c. e dal d.lgs. n. 81/08[5]. Occorrono, tuttavia, alcune puntualizzazioni dal punto di vista sistematico-normativo con riferimento agli istituti che regolano la malattia, per comprendere quali siano le statuizioni che inibiscono o consentono il recesso stesso. Gli artt. 2110 e 2111 c.c. disciplinano la fattispecie del c.d. periodo di comporto durante il quale il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto di lavoro nel momento in cui si determini per il medesimo una impossibilità temporanea della prestazione[6]. In particolare il legislatore, mediante la previsione dell’art. 2110, c. 2, c.c., ha stabilito che vi deve essere un congruo periodo di assenze per consentire al lavoratore di poter tornare in servizio dopo un periodo di malattia od infortunio senza che il medesimo possa subire pregiudizio alcuno proprio in ragione delle patologie di cui è affetto. La norma in parola offre al prestatore una sorta di “scudo” protettivo, con lo scopo di impedire il licenziamento per un determinato periodo temporale. Come affermato dalla citata sentenza delle Sezioni Unite n. 12568 del 2018, l’art. 2110, c. 2, c.c., stabilisce “un’astratta predeterminazione (legislativo- contrattuale) del punto di equilibrio fra l'interesse del lavoratore a disporre d'un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all'organizzazione aziendale”. Le Sezioni Unite del 2018, nell’interpretare l’art. 2110, c. 2, c.c., ne hanno sottolineato il carattere di norma imperativa derivante dalla lettura combinata con l’art. 1418 c.c. L’esigenza sottesa all’imperatività di tale disposizione è quella di tutelare la salute, il cui valore è sicuramente prioritario all’interno dell’ordinamento in ragione dell’art. 32 Cost. che lo definisce come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
Tuttavia, il problema si pone per quanto riguarda l’interpretazione degli effetti prodotti da tale disposizione che, come sostenuto dalla dottrina, sembra “scritta a rovescio” poiché stabilisce il diritto a risolvere il rapporto ex art. 2118 c.c. dopo che sia decorso il tempo stabilito dalla contrattazione collettiva, ma “senza sancire un collegamento tra malattia (…) e divieto di licenziamento”[7]. Il legislatore ha quindi previsto, per il caso del licenziamento per superamento del periodo di comporto, un’ipotesi speciale di recesso[8], diversa dal giustificato motivo oggettivo, che legittima ex se il datore di lavoro a recedere dal contratto nel momento in cui sia stato superato il periodo di comporto senza che il medesimo debba fornire la prova di poterlo adibire ad altre mansioni compatibili con il suo stato di salute[9]. Nessun dubbio interpretativo si pone invece per il licenziamento per giusta causa ex art. 2119 c.c. durante la malattia, in quanto tale fattispecie prevale sulle disposizioni poste a tutela del recupero psico-fisico; tale tipologia di recesso, infatti, non è espressamente esclusa dal regime protettivo dell’art. 2110, c. 2, c.c.[10].
– La sentenza delle Sezioni Unite del 22.5.2018, n. 12568 risolve il contrasto giurisprudenziale sul licenziamento intimato durante la malattia: è nullo e non inefficace. - In tema di licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, c. 2, c.c., vi è stata una lunga querelle nella giurisprudenza di legittimità in ragione di due diversi orientamenti in merito alla qualificazione giuridica del licenziamento: se in tale ipotesi si applicasse l’inefficacia temporanea o, invero, la nullità del recesso. Tale contrapposizione può così riassumersi. Da un lato, un indirizzo maggioritario per cui il recesso è giuridicamente valido ma tecnicamente inefficace, in quanto gli effetti del medesimo sono differiti alla cessazione del periodo di malattia[11]. Dall’altro, quello secondo cui l’atto espulsivo è nullo, e non già temporaneamente inefficace, per violazione di norma imperativa ex art. art. 2110, c. 2, c.c., che vieta il licenziamento in costanza della malattia del lavoratore[12].
Tale contrasto è stato risolto dalla già citata sentenza delle Sezioni Unite del 22.5.2018, n. 12568, dopo che i giudici di legittimità, con ordinanza interlocutoria n. 24766 del 19.10.2017[13], avevano rimesso al primo presidente la questione riguardante il licenziamento intimato durante la malattia del lavoratore. Sul punto, ai fini anche di una miglior comprensione della novità dei principi che caratterizzano la decisione in commento, occorre una breve disamina delle circostanze sottese ai vari gradi di giudizio, nonché di principi espressi per la risoluzione del contrasto giurisprudenziale. Nel merito, si trattava del caso di un lavoratore che, dopo aver inviato un certificato di malattia con una prognosi che comportava il superamento del comporto, veniva immediatamente licenziato al momento della ricezione del certificato, senza che, tuttavia, fosse effettivamente spirato il termine previsto dal contratto collettivo per legittimare il recesso. Il Tribunale e la Corte d’appello, investiti della questione, ritenevano che il licenziamento fosse solo inefficace sino all’ultimo giorno di malattia. Il lavoratore ricorreva per cassazione chiedendo che fosse riconosciuta la nullità del recesso.
In punto di diritto, le Sezioni Unite del 2018 avevano preliminarmente evidenziato come il sistema normativo fosse caratterizzato da un “vuoto legislativo” che interessava la fattispecie. Infatti, l’articolo 2110, c. 2, c.c., pur stabilendo che, in caso di malattia del lavoratore, l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto solo dopo il decorso del periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità, tuttavia, non stabilisce alcuna previsione specifica per la diversa ipotesi del recesso irrogato prima che tale intervallo temporale sia effettivamente superato. Secondo la Cassazione, nonostante tale mancanza, il recesso deve qualificarsi come nullo per un’insuperabile argomentazione: all’atto della comunicazione del recesso non si è realizzato il presupposto giuridico che lo consente. La sentenza delle Sezioni Unite chiarisce anche un altro aspetto che, sempre a parere dei giudici, aveva ingenerato l’equivoco su cui si erano fondati alcuni arresti giurisprudenziali. Indirizzi, questi, richiamati espressamente nella motivazione della sentenza del 2018 come precedenti specifici in materia, ma ritenuti inconferenti sul presupposto che si basassero su motivi diversi e autonomi rispetto al mero protrarsi della malattia[14]. Situazioni ove, in realtà, come affermato correttamente dalle Sezioni Unite, il “perdurante stato di malattia funge non già da motivo di recesso, ma da elemento ad esso estrinseco e idoneo soltanto a differire l’efficacia del licenziamento”. Il recesso, invece, nella vicenda rimessa alla propria attenzione, integrava “l’unica ragione del licenziamento medesimo”, la quale doveva essere risolta in termini di coerenza dogmatica con riferimento alla teoria generale del negozio giuridico. Per avvalorare ulteriormente le rilevanti finalità protettive insite nelle disposizioni dell’art. 2110, c. 2, c.c., i giudici di legittimità richiamavano, quale specifico precedente in materia, la sentenza delle Sezioni Unite n. 2072 del 29.3.1980[15]. In considerazione di tale orientamento, il datore può recedere dal rapporto solo dopo la scadenza del periodo di comporto contrattualmente previsto, trattandosi di ipotesi autonoma di licenziamento. Altrimenti, tornando invece alle statuizioni delle Sezioni Unite del 2018, si ammetterebbe la legittimità di un atto espulsivo “acausale disposto al di fuori delle ipotesi residue previste dall’ordinamento” che, nel momento della sua irrogazione, risulta giuridicamente privo di giustificazione poiché “sprovvisto di giusta causa o giustificato motivo oggettivo e non è sussumibile in altra autonoma fattispecie legittimante”. Ipotesi questa che, sempre a parere delle Sezioni Unite da ultimo citate, è inammissibile, in quanto verrebbe completamente obliterata la ratio sottesa all’art. 2110, c. 2, c.c., quale norma imperativa che ha lo scopo di “garantire al lavoratore un ragionevole arco temporale di assenza per malattia od infortunio senza per ciò solo perdere l’occupazione”. Violazione questa che comporta sempre la nullità del provvedimento adottato dalla società[16]. Pare opportuno evidenziare che i principi sin qui esaminati si sono consolidati anche nelle ipotesi di licenziamento disposto in violazione dell’art. 2110, c. 2, c.c., con riferimento però ad un rapporto di lavoro a tutele crescenti. La Corte di appello di Torino, investita di una controversia in cui il licenziamento era stato intimato prima della scadenza del comporto, nel richiamare proprio le determinazioni delle Sezioni Unite del 2018, ha reintegrato il prestatore ritenendo applicabile a tale fattispecie di recesso la disciplina dell’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015, trattandosi di ipotesi riconducibile “agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”[17].
6. – La nullità del recesso e la forza espansiva dell’art. 18 St. lav. nell’elaborazione giurisprudenziale. - La particolarità della sentenza in analisi deriva proprio dalle interessanti argomentazioni logico-interpretative utilizzate dai giudici di legittimità al fine di risolvere gli aspetti contraddittori evidenziati nelle pagine precedenti.
Procedendo con ordine, la decisione in commento ha dovuto valutare preliminarmente la natura giuridica del recesso intimato per mancato superamento del periodo di comporto. A parere dei giudici, il contrasto interpretativo in tema di licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, c. 2, c.c., risolto dalle Sezioni Unite del 2018, tra la tesi della nullità del recesso oppure della sua temporanea inefficacia, è “probabilmente all’origine della mancanza di una elaborazione giurisprudenziale specifica sul regime di tutela applicabile”[18]. Al riguardo, la Suprema Corte ha dato conto di come, invece, nelle ipotesi di licenziamento dichiarato nullo nei rapporti assistiti dalla c.d. tutela obbligatoria, si sia formato un costante e consolidato orientamento giurisprudenziale. In questi casi, secondo la Cassazione, la sanzione è quella della nullità di diritto comune ex art. 1418 c.c., non potendosi, di contro, applicare, in via di estensione analogica, le norme dell’art. 8 della l. n. 604/66 che disciplinano le diverse e non sovrapponibili ipotesi di annullamento del recesso privo di giusta causa o giustificato motivo oggettivo[19].
La Corte Suprema, partendo da tali presupposti, ha evidenziato che nelle aziende con meno di 15 dipendenti anche il licenziamento per superamento del periodo di comporto ex art. 2110, c. 2, c.c., debba qualificarsi come fattispecie autonoma e diversa dal giustificato motivo o dalla giusta causa di cui alla legge n. 604 del 1966. Il recesso, quindi, resta assoggettato alla disciplina generale del licenziamento nullo da ricondursi, tuttavia, nella sanzione tipizzata ex art. 18, l. 300 del 1970 della specifica tutela reintegratoria attenuata prevista sempre dall’art. 18, comma 4, e non da quella piena del c. 1. Il legislatore, infatti, ha individuato uno specifico “perimetro” di tutela per le ipotesi di licenziamento nullo intimato in violazione dell’art. 2110 c.c. che riguarda però solo i datori di lavoro con più di 15 dipendenti.
Il punto nodale della questione, come già anticipato, riguarda proprio la collocazione di tale fattispecie nel c. 7 dell’art. 18 St. lav. che prevede una tutela differente rispetto a quella reintegratoria piena di cui al c. 1. Occorre pertanto comprendere come i giudici di legittimità abbiano risolto tale impasse legislativo rispetto a norme disciplinate in maniera non lineare e che si espongono a determinazioni contradditorie da parte della giurisprudenza, come è avvenuto infatti nel caso di specie. Nella sentenza de qua, vi è un passaggio di particolare interesse. I giudici di legittimità, infatti, per superare i limiti di una stringente tipizzazione delle ipotesi che danno accesso alla reintegra, se non per fattispecie espressamente individuate, hanno ripercorso l’orientamento giurisprudenziale sviluppatosi all’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 18, St. lav. Si era infatti realizzato un indirizzo rigoroso con riferimento alla possibilità di applicazione della reintegra, non estendibile a fattispecie per cui le norme dello Statuto non facevano espresso riferimento. Sul punto, pare opportuno evidenziare, richiamando le stesse argomentazioni della sentenza in esame, come la Corte cost.[20], già prima delle modifiche apportate nel 1990, aveva riconosciuto la “forza espansiva” alle disposizioni contenute nell’art. 18 St. lav.[21]. Prescrizioni queste suscettibili di assicurare la tutela reale del posto di lavoro anche nei casi in cui l’invalidità del licenziamento non dipendesse da una delle ragioni specificamente risultanti dal combinato disposto dello stesso art. 18 St. lav. e dell’art. 4 della legge n. 604 del 1966. In altri termini, in virtù delle considerazioni della Consulta, le fattispecie della inefficacia, annullabilità e nullità, così come previste dalla norma dello Statuto, avrebbero carattere meramente esemplificativo. Forza espansiva che veniva in seguito confermata da un’altra sentenza della Corte cost., la n. 17 del 1987, secondo cui “l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, nell'ambito della disciplina del rapporto di lavoro, non è né speciale né eccezionale ma dotato di forza espansiva che lo rende riferibile ed applicabile anche a casi diversi da quelli in esso contemplati e tuttavia ad essi però assimilabili sotto il profilo della identità di ratio”[22]. Indirizzo questo recepito poi dalla successiva giurisprudenza di legittimità, che aveva ritenuto applicabile tale disposizione “a tutte le ipotesi di invalidità del recesso del datore di lavoro, qualora non assoggettate a una diversa, specifica disciplina, e quindi anche nel caso di nullità per inosservanza delle norme di cui ai primi tre commi dell'art. 7 della stessa l. n. 300/1970[23]”. Principi questi ribaditi anche per “i licenziamenti nulli per illiceità del motivo determinante ed, in particolare, a quelli che siano determinati in maniera esclusiva da motivo di ritorsione o di rappresaglia”, a prescindere dal numero dei dipendenti, tutela questa estesa anche ai dirigenti[24].
Il provvedimento in esame ha evidenziato, altresì, come la dottrina si sia ormai orientata nel ritenere che la “forza espansiva” dell’articolo 18 St. lav., comma 1, vada oltre le fattispecie tipizzate dalla norma stessa[25]. Infatti, è parere consolidato quello per cui, a seguito della c.d. riforma Fornero, debbano essere ricondotte nella reintegra piena anche le ipotesi precedentemente assoggettate al regime delle nullità di diritto comune in ragione della espressa previsione legislativa che estende tale tutela agli “altri casi di nullità previsti dalla legge”, e ciò a prescindere di quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro[26].
- L’art. 18, comma 7, St. lav. è norma speciale di equilibrio del sistema che consente la reintegra a prescindere dal requisito dimensionale. - La Cassazione, alla luce della ricostruzione normativa e giurisprudenziale sin qui analizzata, ha offerto una soluzione esegetica equilibrata rispetto ai diversi piani di tutela offerti dall’ordinamento e ontologicamente differenziati in ragione proprio dei requisiti selettivi richiesti dalla legge per accedere alla tutela reale. Al riguardo, la Suprema Corte ha osservato che laddove si fosse accolta la tesi per cui alla fattispecie in esame potesse applicarsi il regime più favorevole della nullità di diritto comune ex art. 1418 c.c., oppure della sanzione prevista dall’art. 18, c. 1, “si creerebbe una evidente irragionevolezza nel sistema ed una disarmonia nel regime delle tutele per il caso di licenziamento”[27]. La sentenza in commento ha quindi fornito un’interpretazione costituzionalmente orientata per risolvere la problematica di tutele differenziate quando l’ipotesi che le accomuna è la stessa, ossia la nullità dell’atto risolutivo, situazioni che invece sono “assimilabili sotto il profilo della identità di ratio”. Altrimenti si verificherebbe il seguente paradosso normativo: l’applicazione dell’art. 18 St. lav., comma 1, oppure dell’art. 1418 c.c. ai licenziamenti nulli intimati nell’area della tutela c.d. obbligatoria e, quindi, di una tutela più forte di quella garantita dai cc. 7 e 4 dell’art. 18 St. lav. che, invece, per i lavoratori dipendenti da datori aventi i requisiti dimensionali previsti dalla norma stessa, limita a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto il risarcimento del danno. In tale ultimo caso, vi è un’espressa previsione normativa che stabilisce una sorta di “regime speciale” mediante la sanzione della reintegrazione c.d. debole. Collocazione questa che, a parere della Cassazione, “non depone nel senso di una opzione in favore della illegittimità di tale forma di recesso ma costituisce, unicamente, espressione della scelta legislativa di sanzionare con minor rigore la fattispecie di licenziamento in esame, attraverso una «norma speciale rispetto a quella generale contenuta nel c. 1”. In altri termini, riportando testualmente le parole della decisione in analisi, il licenziamento in violazione dell’art. 2110, c. 2, c.c., “pur rientrando tra gli «altri casi di nullità previsti dalla legge» di cui al comma 1, è inserito nel c. 7 soltanto quoad poenam, al fine cioè della applicazione del rimedio meno rigoroso quale è la tutela reintegratoria attenuata”. Ciò comporta l’irrilevanza, rispetto alle conseguenze del recesso, del criterio selettivo basato sul numero dei dipendenti “che, se può giustificare livelli diversi di tutela in ipotesi di licenziamento annullabile non può legittimare una diversificazione delle conseguenze del licenziamento nullo”. Un diverso approccio interpretativo determinerebbe una irrazionale disparità di trattamento derivante da tutele differenziate solo in ragione del requisito dimensionale.
Riferimenti bibliografici
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[1] In RGL, 2018, 4, II, 496 ss., con nota di Lamberti, nonché in LG., 1, 2019, 43, con nota di Nicolosi.
[2] Cass. 22.7.2019, n. 19661 in FI, Rep. 2019, voce Lavoro (rapporto di), n. 1599 che non ha condiviso la decisione della Corte di appello che, in un caso di un recesso intimato prima della scadenza del comporto da un datore di lavoro con meno di 15 dipendenti, aveva ritenuto di applicare la sola tutela ex art. 8, l. 604 del 1966. A parere della Cassazione “l’equiparazione del licenziamento nullo con quello illegittimo, in applicazione di una sorta di “parallelismo delle tutele”, non appare coerente con il sistema normativo e neppure coerente ad una precisa scelta del legislatore”.
[3] La Corte bolognese, al fine di corroborare il proprio ragionamento, ha richiamato i principi di un indirizzo di Cassazione, nella specie la sentenza n. 17589 del 2016, che in una ipotesi di recesso inefficace per vizio di motivazione ha ritenuto irragionevole l’applicazione della disciplina delle nullità di diritto comune. Siffatta interpretazione avrebbe comportato per i datori di lavoro con un requisito occupazionale inferiore ai 15 dipendenti un onere più gravoso rispetto a coloro che ne hanno uno superiore.
[4] In dottrina vd. Ferrugia 2011, 1061.
[5] In tal senso, Cass. 27.2.2019 n. 5749, in RIDL, 2019, II, 461, con nota di Simeone, per cui “in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, la responsabilità del datore di lavoro, di natura contrattuale e non oggettiva, va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti da conoscenze tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso causale tra l’una e l’altra; solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie a impedire il verificarsi del danno. Inoltre, l’unico caso in cui le assenze del lavoratore, imputabili a malattia professionale, possono detrarsi dal computo del comporto è quello in cui detta malattia sia riconducibile ad una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c.”. Sul punto, si veda anche Trib. Pavia, 25.1.2021, in ilgiuslavorista.it, secondo cui in “tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l’infermità dipenda dalla nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.)...”. In senso conforme ex multis Cass. 7.4.2011, n. 7946, in RFI, 2011, voce Lavoro (rapporto di), n. 1315; Cass. 1.2.1995, n. 1169, in MGL, 1995, 66; Cass. 14.5.1994, n. 4723, in MGL,1994, 597; Cass. 14.6.1984, n. 3559, in MGL,1984, 455.
[6] In dottrina, in generale, sull’inquadramento sistematico-normativo del comporto si veda: Cinelli 2015, 448; Nunin 2006, 955; Pandolfo 1991, 340.
[7] Voza 2015, 3.
[8] In merito, si veda Iarussi 2012, 689.
[9] Cass. 20.5.2013, n. 12233, in LG, 2013, 845, nonchè Cass. 31.1.2012, n. 1404, in LG, 2012, 689.
[10] Cass. 23.9.2002, n. 14074, in RIDL, 2003, 394, con nota di Santini.
[11] Cfr. ex multis: Cass. 10.10.2013, n. 23063, in FI, Rep. 2013, voce Lavoro (rapporto di), n. 1331; Cass. 4.7.2001, n. 9037, in NGL, 2001, 766; Cass. 26.10.1999, n. 12031, in MGL, 2000, 61; Cass. 10.2.1993, n. 1657, in GC, 1993, I, 2421; Cass. 26.2.1990, n. 1459 e Cass. 2.7.1988, n. 4394, in NGL, 1988, 524; Cass. 6.7.1990, n. 7098, in GC, 1990, n. 7, 32.
[12] Si vd., tra le tante: Cass. 18.11.2014, n. 24525, in RFI, 2014, voce Lavoro (rapporto di), n. 1246; Cass. 31.1.2012, n. 1404, in GI, Rep, 2012; Cass., 26.10.1999, n. 12031, in MGL, 2000, 61; Cass. 21.9.1991, n. 9869, in RGL, II, 1030; Cass. 17.4.1987, n. 3849, in NGL, 1987, 756.
[13] Cass. 19.10.2017, n. 24766, in RIDL, 2018, II, 72, con nota di Tempesta.
[14] Sul punto, le Sezioni Unite, per confutare la tesi dell’inefficacia del recesso, evidenziano l’inconferenza rispetto al caso sottoposto al proprio vaglio delle sentenze Cass.10.2.93, n. 1657, in GC, 1993, I, 2421 e Cass. 4.7.2001, n. 9037, in NGL, 2001, 766 ss, le quali, nelle loro argomentazioni decisorie, fanno espresso riferimento ad altri precedenti di legittimità (nella specie Cass. 4.2.1988, n. 1151, in NGL, 1988, 148 e Cass. 6.7.2000, n. 9032, in FI, Rep. 2001, voce Lavoro (rapporto di), n. 1509; in ADL, 2001, 361, con nota di Maio, che in realtà muovono da presupposti diversi. Le Sezioni Unite evidenziano ancora sul punto che anche in altre sentenze più recenti, in cui si era statuito il differimento dell’efficacia del recesso, le ragioni poste alla base dell’atto espulsivo erano diverse ed autonome dal mero protrarsi della malattia. In particolare, tali controversie erano riferite ad ipotesi di licenziamenti intimati per giustificato motivo oggettivo (Cass. 10.10.2013, n. 23063, cit.,), o giustificato motivo soggettivo derivante anche da sopravvenuta inidoneità a determinate mansioni (Cass. 7.1.2005, n. 239, in GC, 2005, 1, 87), per riduzione di personale (Cass. 6.7.1990, n.7098, in GC, 1990, 7, 57), per giusta causa (Cass. 26.5.2005, n. 11087, in GC, 2005, 5, 134 ss.), per giustificato motivo oggettivo rispetto al quale era, poi, sopraggiunta una giusta causa di recesso considerata come idonea di per sé a risolvere immediatamente il rapporto, anche prima che cessasse lo stato di malattia (Cass. 04.01.2017, n. 64, in FI, Rep. 2017, voce Lavoro (rapporto di), n. 1320), o per licenziamento ad nutum (Cass. 13.01.1989, n. 133, in FI, Rep. 1989, voce Lavoro (rapporto di), n. 1679.
[15] In GI, 1980, I, 1438.
[16] Si veda, con riferimento agli orientamenti giurisprudenziali che hanno aderito ai principi espressi dalle Sezioni Unite del 2018: Cass. 28.7.2022, n. 23674, inedita a quanto consta, nonchè Corte app. Roma 12.6.2020, in LG, 2020, 1105, per cui “il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, secondo equità, eÌ€ nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, c. 2, c.c.”.
[17] C. app. Torino 5.8.22, inedita a quanto consta.
[18] Cfr. punto 28 della sentenza.
[19] Cfr. punto 29 della sentenza. In merito, a supporto di tali argomentazioni, la decisione in esame richiama espressamente i seguenti precedenti di legittimità: Cass. 22.7.1999, cit. e, in particolare, le seguenti sentenze a seconda della fattispecie di invalidità accertata: Cass. 15093 del 2009, sul licenziamento nullo per illiceità del motivo; Cass. 18537 del 2004 e Cass. 9459 del 1995, in tema di recesso nullo per violazione dell’art. 2, c. 2, della l. n. 1204/1971 e, da ultimo, Cass. 2856 del 1979 per l’ipotesi di licenziamento per rappresaglia.
[20] Corte cost. 30.11.1982, in FI, 1982, I, 2981, per cui “una volta estesi i commi 1°, 2° e 3° ai licenziamenti disciplinari per i quali la normativa (contrattuale, n.d.r.) si limiti ad includerli tra le sanzioni disciplinari senza l'espresso richiamo dei ripetuti commi, la forza espansiva, di cui sono muniti testi suscettibili di esprimere più ampia norma, estende l'art. 18, c. 1, alla fattispecie consecutiva alla pronuncia d'incostituzionalità che si sta per emanare”.
[21] Sul punto, si rimanda a Meucci 1999, 113, per cui “decisiva non fu tanto l'estensione del principio della reintegrazione alla specifica ipotesi di licenziamento invalido non contemplato originariamente nell'art. 18 Stat. lav., quanto l'affermazione della forza espansiva dell'art. 18 dello Statuto, il che importava l'effetto di relegare a ruolo meramente “esemplificativo” le tre ipotesi di “inefficacia, annullabilità e nullità” previste dal legislatore del 1970 nel testo letterale del c. 1 dell'art. 18, l. n. 300/70”.
[22] In RIDL, 1987, II, 431.
[23] Cfr. le sentenze richiamate sul punto dalla sentenza in esame: Cass. 10.07.2012, n. 11547, in FI, Rep. 2012, voce Lavoro (rapporto di), n. 1351; Cass. 5.10.2006, n. 21412, in FI, Rep. 2006, voce Lavoro (rapporto di), n. 1528; Cass. n. 5083 del 2000; Cass. 20.5.1994, n. 4938, in FI, Rep. 1994, voce Lavoro (rapporto di), n. 1511, che hanno definito il recesso in violazione dell’art. 7 St. lav. ingiustificato e non nullo.
[24] In tal senso, si vedano: Cass. 01.12.2010, n. 24347, in FI, Rep. 2010, voce Lavoro (rapporto di), n. 1423; Cass. 15.03.2006, n. 5635, in FI, Rep. 2006, voce Lavoro (rapporto di), n. 1559; Cass. 20.11.2000, n. 14982, in FI, Rep. 2000, voce Lavoro (rapporto di), n. 1598; Cass. n. 4543 del 1999; Cass. 03.05.1997, n. 3837, in FI, Rep. 1997, voce Lavoro (rapporto di), n. 1678.
[25] Sul punto, Mazzotta 2016, 709, secondo cui le sanzioni della nullità di diritto comune, dopo la riforma c.d. Fornero, debbano considerarsi ricomprese nell’art. 18, comma 1, St. lav.
[26] In merito, tra le tante tesi dottrinali cfr.: Del Punta, 2014, 21, a parere del quale la novella dell’art. 18, comma 1, debba qualificarsi quale norma di chiusura del sistema in cui si collocano anche i casi di nullità virtuale in quanto in contrasto con norme imperative; dello stesso avviso anche Bavaro, D’Onghia 2016, 5. In materia, si veda anche Recchia 2015, 96.
[27] In tal senso, la sentenza in commento richiama Cass. n. 19661 del 2019, cit.