IL “PRISMA” DELLE SOLUZIONI GIURISPRUDENZIALI IN TEMA DI LICENZIAMENTO DEL DISABILE PER SUPERAMENTO DEL COMPORTO: DISCRIMINAZIONE INDIRETTA, CLAUSOLE CONTRATTUALI NULLE, ONERE DELLA PROVA E ACCOMODAMENTI RAGIONEVOLI

Articolo di Michelangelo Salvagni.

pubblicato su Lavoro e Previdenza Oggi n. 3-4/2023. Link all'articolo.

Vai al PDF.

Sommario:

1. Considerazioni preliminari.

2. Le varie fattispecie e il dato comune: la gravità delle patologie comportanti disabilità.

3. Il quadro normativo di riferimento della normativa antidiscriminatoria: la legislazione internazionale, eurounitaria e nazionale.

4. L’allargamento della nozione di “handicap” quale modello sociale e dinamico di disabilità nell’elaborazione della Corte di giustizia e della Corte di cassazione.

5. L’evoluzione giurisprudenziale sulla discriminazione indiretta: la giurisprudenza eurounitaria e i due diversi orientamenti della giurisprudenza di merito nazionale.

            5.1. La giurisprudenza eurounitaria.

            5.2. L’orientamento giurisprudenziale sulla discriminazione indiretta allorché il CCNL non preveda periodi di comporto diversificati per i portatori di handicap.

            5.3. L’indirizzo di segno opposto: la tesi restrittiva della nozione di disabilità ai fini del mantenimento del posto di lavoro che non obbliga la contrattazione collettiva a periodi di comporto differenziati.

La ripartizione dell’onere probatorio in tema di discriminazione: i principi della Corte di cassazione e i due opposti filoni della giurisprudenza di merito.

            6.1. L’orientamento di merito secondo cui la discriminazione opera oggettivamente.

            6.2. Segue. L’indirizzo della necessaria consapevolezza del fattore discriminante.

            6.3. La tesi della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c.

Gli accomodamenti ragionevoli nell’interpretazione della Corte di cassazione.

            7.1. Segue. Le soluzioni ragionevoli secondo la giurisprudenza di merito.

Conclusioni. La tutela “rafforzata” a salvaguardia del posto di lavoro del disabile.

 

Abstract

Il presente elaborato intende fare il punto sulle diverse interpretazioni adottate dalla giurisprudenza di merito in materia di licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore allorché le assenze che lo hanno determinato siano collegate alla disabilità o, in un’accezione più ampia, all’handicap del lavoratore. Il tema centrale riguarda la questione del configurarsi o meno di una discriminazione indiretta nel momento in cui i contratti collettivi non prevedano periodi di comporto differenziati per le assenze dei soggetti affetti da gravi patologie a carattere duraturo e tali da ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nell’adempimento della propria prestazione. Sul punto, si è sviluppata una querelle giurisprudenziale che appare di rilevante interesse proprio in ragione, non solo delle normative antidiscriminatorie, soprattutto di tipo sovranazionale che caratterizzano la fattispecie, ma anche per i rilevanti principi della Corte di giustizia e della Suprema Corte che vengono richiamati da tutti i provvedimenti oggetto di trattazione con riferimento sia alla nozione di disabilità sia agli accomodamenti ragionevoli che il datore di lavoro deve adottare per la salvaguardia del posto di lavoro.

 

This paper aims to take stock of the different interpretations adopted by the case law on the subject of dismissal for exceeding a worker's comport period when the absences that led to it are related to the worker's disability or, in a broader sense, handicap. The central issue concerns the question of whether there is indirect discrimination when collective bargaining agreements do not provide for differentiated comportion periods for the absences of individuals with serious illnesses of a lasting nature and such as to hinder their full and effective participation in the performance of their duties. On this point, a jurisprudential querelle has developed that appears to be of relevant interest precisely because of, not only the anti-discrimination regulations, especially of the supranational type that characterize the case, but also because of the relevant principles of the Court of Justice and the Supreme Court that are recalled by all the provisions under discussion with reference both to the notion of disability and to the reasonable accommodations that the employer must adopt to safeguard the job.

 

Considerazioni preliminari.

I provvedimenti che verranno trattati offrono l’opportunità di un approfondimento sulla fattispecie del licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore disabile o, in un’accezione più ampia, affetto da gravi patologie che possono rientrare in una nozione “allargata” di handicap. La questione appare di rilevante interesse poiché riguarda molti aspetti, in un certo senso un vero e proprio “prisma”, rispetto alle diverse interpretazioni adottate dalla giurisprudenza in materia di tutela antidiscriminatoria[1].

Il tema centrale riguarda le seguenti direttrici: da una parte, la portata generale della nozione di “disabilità”, che non può più limitarsi ad una definizione rigorosa del termine ma che, invece, deve tener conto di una concezione di “handicap” di più ampio respiro, mutuata dalle normative sovranazionali e dalle decisioni della Corte di giustizia; dall’altro, le soluzioni adottabili dal datore di lavoro per la salvaguardia del posto di lavoro del prestatore disabile - i cosiddetti accomodamenti ragionevoli - nel momento in cui le assenze del medesimo sono determinate dalle proprie patologie, comportando così il superamento del periodo di comporto. E, infine, se il licenziamento del disabile, allorché le assenze per malattia siano collegate alle gravi patologie di cui è affetto, integri o meno la fattispecie della discriminazione diretta o indiretta[2].

In merito, ormai da qualche anno, si registra un contrasto negli orientamenti della giurisprudenza di merito anche se, negli ultimi mesi, sembra consolidarsi maggiormente l’indirizzo che riconosce la discriminazione indiretta allorché i contratti collettivi non prevedano periodi di comporto differenziati per le assenze dei lavoratori disabili. A parere di quest’ultima giurisprudenza, si configura la fattispecie della discriminazione indiretta nel momento in cui vi sia un trattamento identico tra lavoratori abili e disabili che, invece, si assentano per malattie collegate alla loro gravi patologie. In altre parole, a parere di alcune sentenze e, in particolare, secondo i recenti provvedimenti della Corte di appello di Milano del 16 febbraio 2023, della Corte di appello di Napoli del 17 gennaio 2023, del Tribunale di Parma del 9 gennaio 2023, della Corte di appello di Milano del 9 dicembre 2022 e del Tribunale di Lecco del 26 giugno 2022, seguita recentemente da altra sentenza, sempre del Tribunale di Lecco, del 23 gennaio 2023[3], la previsione di un comporto uguale per tutti, superato il quale si configura la licenziabilità del dipendente, determinerebbe l’adozione di un criterio apparentemente neutro che, tuttavia, comporta effetti più sfavorevoli per i lavoratori disabili. Dal punto di vista delle fattispecie normative poste al vaglio della magistratura, in tutte le sentenze che accolgono la tesi della discriminazione indiretta si fa espresso richiamo a normative sovranazionali (diritto eurounitario e Convenzione Onu), nonché alle sentenze della Corte di giustizia europea.

Per completezza, occorre segnalare che in data 31 marzo 2023 è intervenuta in materia, a quanto consta, la prima sentenza della Suprema Corte sulla fattispecie del lavoratore portatore di handicap ai sensi dell’art. 3, co. 1, Legge n. 104 del 1992 e licenziato per superamento del periodo di comporto. I giudici di legittimità hanno confermato la discriminazione operata dalla società nei confronti del prestatore consistita proprio nell’aver applicato la contrattazione collettiva (nella specie l’art. 42 del CCNL Federambiente) senza distinguere tra assenze per malattia ed assenze per patologie correlate alla disabilità[4].  

Fatta tale premessa di ordine logico sistematico, occorre affrontare in concreto i differenti orientamenti giurisprudenziali intervenuti sulla materia, con l’obiettivo di comprendere quali siano i presupposti argomentativi posti alla base di una vera e propria querelle interpretativa che mostra, nelle soluzioni adottate, tutta l’importanza e l’ampiezza del fenomeno.

 

Le varie fattispecie e il dato comune: la gravità delle patologie comportanti disabilità.

Il filo conduttore posto alla base del ragionamento della giurisprudenza oggetto di trattazione, come anticipato, affronta principalmente la seguente questione: se integri o meno, per un soggetto disabile affetto da una permanente grave patologia, una discriminazione indiretta la previsione di un medesimo periodo di comporto stabilito per un soggetto non afflitto da handicap. In poche parole, se tale situazione, per così dire paritaria, determini una violazione dei corollari del principio di parità di trattamento, in base al quale, per evitare discriminazioni indirette, situazioni diverse meritano un trattamento differenziato.

Le sentenze che si sono occupate delle problematiche oggetto di approfondimento, si riferiscono tutte a vicende in cui il lavoratore era portatore di handicap o di invalidità o, comunque, colpito da gravi patologie. In particolare, si tratta di assenze determinate da una patologia cronica (Tribunale di Pisa, ordinanza 16 aprile 2015) da carcinoma all’utero (Tribunale Asti, ordinanza 23 luglio 2018), dal morbo di Parkinson (Tribunale Ivrea, ordinanza 7 luglio 2018), da invalidità derivanti da infortunio (Tribunale Roma, sentenza 8 maggio 2018), da malattie oncologiche (Tribunale Mantova, 22 settembre 2021 n. 126; Tribunale Milano, ordinanza 26 luglio 2022), da un flebolinfodema all’arto inferiore destro (Tribunale Milano, ordinanza del 2 maggio 2022), da aneurisma (Corte appello Milano del 3 settembre 2021), da neoplasia cerebrale (Tribunale Bologna, 15 aprile 2014 e Tribunale Mantova, ordinanza n. 160 del 2018), da sclerosi multipla (Corte appello Napoli, 17 gennaio 2023), da sarcoidosi (Tribunale Lecco, 26 giugno 2022), da diversi gradi di invalidità (Corte appello Roma, 25 giugno 2021; Tribunale Modena, 11 ottobre 2019), da una sindrome depressiva determinata del senso d’inadeguatezza causato dall’immagine del proprio volto affetto da una grave dermatite seborroica (Corte appello Milano, 16 febbraio 2023).

Malattie queste tutte diverse tra loro, invalidanti, di lunga durata e che, proprio in ragione del fatto che costringevano il dipendente a prolungate assenze o, addirittura, a ricoveri ospedalieri, sempre collegati alla propria disabilità, rientravano nella nozione di “handicap” oggetto di tutela antidiscriminatoria secondo l’elaborazione della giurisprudenza eurounitaria. Nei casi affrontati dalla Corte di giustizia, infatti, di cui si dirà meglio oltre, si era in presenza di patologie a carattere duraturo tali da ostacolare la piena ed effettiva partecipazione del prestatore nell’adempimento della propria prestazione al pari degli altri lavoratori non affetti da tali limitazioni fisiche o psichiche.

 

Il quadro normativo di riferimento della normativa antidiscriminatoria: la legislazione internazionale, eurounitaria e nazionale.

La normativa antidiscriminatoria trova i propri fondamenti, oltre che nel diritto eurounitario, anche in altre legislazioni internazionali. In particolar modo, nella Carta di Nizza e nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità alle quali è garantita una parità di trattamento sia per l’instaurazione del rapporto di lavoro sia nello svolgimento dello stesso. Gli obiettivi di ogni normativa antidiscriminatoria, sia di origine internazionale, eurounitaria o nazionale, tendono tutti, da un verso, all’eliminazione di ostacoli che possano impedire al disabile di fornire la prestazione lavorativa; dall’altro, a promuovere misure che incidano sull’organizzazione del lavoro e sulla prestazione anche degli altri dipendenti.

Ai fini della presente annotazione, anche per comprendere le diverse soluzioni adottate dalla giurisprudenza, occorre evidenziare come la normativa interna, in tema di licenziamento discriminatorio del disabile, debba necessariamente essere integrata con quella eurounitaria e internazionale, anche qualora il legislatore nazionale non ne abbia dato completa attuazione.

In breve, questi i riferimenti normativi sovranazionali.

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza) che, all’art. 26 (intitolato “Inserimento delle persone con disabilità”), prevede: “l’Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l'autonomia, l'inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”.

La Convenzione delle Nazioni Unite[5] (art. 27) sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dalla Legge n. 18/2009, secondo cui gli Stati Parti riconoscono il diritto al lavoro delle persone con disabilità al fine di favorire la loro inclusione e accessibilità al pari degli altri prestatori. In particolare, la Convenzione, agli art. 5, par. 3 e all’art. 1 co. 2, pone un obbligo per gli Stati Parti a prendere tutti i provvedimenti appropriati per assicurare che siano forniti “soluzioni ragionevoli” a garantire la tutela dei diritti dei disabili che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo.

Con riferimento poi al diritto eurounitario, occorre segnalare la Direttiva UE 2000/78, volta alla lotta alle discriminazioni fondate anche sulla condizione di handicap, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro. Tale normativa, facendo leva sul principio della parità di trattamento (art. 1), ha stabilito il divieto di discriminazioni dirette o indirette in danno anche dei disabili (art. 2), ai quali deve essere garantito “di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione”, mediante la previsione di “soluzioni ragionevoli”, anche con un onere finanziario proporzionato a carico del datore di lavoro (art. 5).

In ambito nazionale, la normativa a tutela dei disabili trova particolare cogenza, con riferimento ai limiti al potere di recesso del datore di lavoro in caso di sopravvenuta inidoneità alla mansione, nella L. n. 68/1999, nelle disposizioni del D.Lgs. n. 81/2008 (in particolare, l’art. 42) e, con riferimento alla disciplina sul licenziamento individuale, in entrambe le due riforme del 2012 (Legge n. 92/2012) e del 2015 (D.Lgs. n. 23/2015).

Con riguardo poi al recepimento delle legislazione eurounitaria, deve segnalarsi il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, che ha dato attuazione alla Direttiva UE 2000/78 per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, individuando, tra i fattori di rischio, anche la condizione di handicap fisico, suscettibile di tutela giurisdizionale con specifico riferimento all’area della “occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento” (art. 3, comma 1, lett. b, D.Lgs. n. 216/2003).

L’articolo 2 del D.Lgs. n. 216/2003 individua poi una discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, apparentemente neutro, possono mettere le persone portatrici di handicap in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

Successivamente, il legislatore nazionale, con il D.L. 28 giugno 2013, n. 76, conv. con modificazioni in L. 9 agosto 2013, n. 99, ha modificato il D.Lgs. n. 216 del 2003, aggiungendo all’art. 3, il comma 3-bis, secondo il quale: “al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della L. 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”.

 

L’allargamento della nozione di “handicap” quale modello sociale e dinamico di disabilità nell’elaborazione della Corte di giustizia e della Corte di cassazione.

Nel nostro ordinamento non è rinvenibile una definizione unitaria di “disabilità”, in quanto la L. n. 68/1999, all’art. 1, considera disabili coloro che presentano “minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali” nonché i “portatori di handicap intellettivo, che comportino una riduzione della capacità lavorative…” superiori ad un certo grado di invalidità, in base al riconoscimento delle Commissioni mediche. Invece, con riferimento a quella di handicap, essa può definirsi, secondo la L. n. 104/92, quella menomazione “delle capacità psico-fisiche che incidono sulla vita quotidiana, anche se irrilevanti per la capacità lavorativa”. Il D.Lgs. n. 216/2003 tratta poi la parità di trattamento, ma non contiene una nozione di disabilità al pari della Direttiva 78/2000.

La mancanza di una concezione univoca della disabilità ha quindi ingenerato notevoli difficoltà interpretative per ricondurre le tutele previste dalla normativa antidiscriminatoria sovranazionale e nazionale quando si è in presenza di patologie croniche e definitive che non sempre consentono di accedere alle protezioni previste dalle disposizioni della L. n. 68/1999 e del D.Lgs. n. 104/1992[6]. In merito, occorre evidenziare che, al fine di invocarne le tutele, sicuramente sarà più semplice ottenerle se il soggetto sia in possesso di una invalidità civile ex L. n. 68/1999 o sia titolare dei benefici ex L. n. 104/1992. Questo, però, non significa che un soggetto, il quale non sia portatore di tali requisiti, secondo il diritto nazionale, non possa ricevere la protezione stabilita dalla normativa sovranazionale a protezione dei disabili[7]. Le patologie di cui il medesimo è affetto possono sempre rientrare in una nozione di “handicap” di più ampio respiro, così come elaborata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Infatti, così come per la legislazione nazionale, non è semplice individuare una nozione di disabilità anche nelle fonti sovranazionali di tipo antidiscriminatorio, in quanto non è rinvenibile in esse una definizione puntuale della stessa anche se, ai fini della tutela, l’art. 1 della Direttiva 2000/78 parla solo di “handicap”. Per tale ragione, la giurisprudenza eurounitaria è stata portata a distinguere tra handicap e malattia, ritenendo che le due fattispecie fossero diverse e non godessero della medesima tutela con riferimento alle misure da adottare a protezione della persona.  Invero, la Corte europea, con la prima sentenza intervenuta sul punto, ha escluso che la malattia possa ritenersi automaticamente sovrapponibile alla disabilità ma, poiché la direttiva 78/2000, come accennato, non contiene una definizione di handicap o disabilità, possono ricadere in questa ipotesi anche le menomazioni non irreversibili, purché “di lunga durata[8]; ciò che rileva maggiormente per qualificare la fattispecie è l’aspetto sociale e relazionale delle “minorazioni fisiche, mentali o psichiche” che devono essere tali da ostacolare “la partecipazione della persona considerata alla vita professionale[9]. Successivamente la Corte di giustizia, premessa sempre la differente tutela tra malattia e disabilità, è stata investita della questione se possa costituire discriminazione indiretta il licenziamento per superamento del periodo di comporto in ragione di assenze per gravi patologie. In merito, la giurisprudenza eurounitaria ha affermato che la nozione di handicap, di cui alla Direttiva 2000/78, deve essere interpretata nel senso che essa include “una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori e tale limitazione sia di lunga durata[10].

In sostanza, alla luce dell’interpretazione della giurisprudenza della Corte di giustizia, si configura un “modello sociale e dinamico di disabilità[11],  ove l’handicap può essere definito come quella menomazione che non necessariamente deve essere definitiva, ma che limita la partecipazione alla vita professionale per un lungo periodo temporale.

A questo punto, appare necessario esaminare anche l’elaborazione giurisprudenziale nazionale inerente la disabilità derivata da una situazione di infermità di lunga durata tale da non consentire al dipendente di effettuare l’attività lavorativa in condizioni di uguaglianza con gli altri prestatori.

Tale fattispecie, a parere della Suprema Corte, anche ai fini della tutela del licenziamento, rientra nel campo di applicazione della Direttiva Comunitaria n. 78/2000/CE del 27 novembre 2000. Secondo un indirizzo ormai consolidato della cassazione, nell’ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità psicofisica, ricorrono entrambi i requisiti richiesti dalla citata Direttiva e, in particolare, sia l’attinenza della controversia alle condizioni di lavoro, tra cui rientra anche l’ipotesi del licenziamento (art. 3 della direttiva), sia il fattore soggettivo dell’handicap (protetto dall’articolo 1 della direttiva)[12]. La Suprema Corte poi, in un secondo arresto, ha confermato “l'assoluta autonomia del concetto di handicap, quale fattore di discriminazione, rispetto all'accertamento della condizione di handicap grave di cui alla legge 104 del 1992[13].

Alla luce di tali statuizioni di legittimità, viene così confermato il principio fondamentale per cui all’interno del nostro ordinamento non esiste più una nozione univoca di handicap o disabilità; il riconoscimento della condizione di lavoratore disabile, secondo la normativa antidiscriminatoria, prescinde dal previo accertamento dell’handicap per come stabilito ai sensi della L. n. 104/1992 o di lavoratore disabile ai sensi della L. 12 marzo 1999, n. 68.  Viene così individuata una nozione di handicap più ampia e dinamica rispetto a quella prevista dalla normativa nazionale ex L. n. 68 del 1999 e L. n. 104/1992, mutuata dal diritto dell’Unione Europea in ragione della avvenuta ratifica, da parte di quest’ultima, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006[14]. Nozione questa di più ampio respiro grazie anche al richiamo, da parte della cassazione nelle proprie motivazioni, dei principi espressi in materia delle già indicate sentenze della Corte di giustizia e, in particolare, la decisione dell’11 luglio 2006, causa C-13/05. Interpretazione questa recepita anche dalla giurisprudenza di merito, in particolare dal Tribunale di Milano, con ordinanza del 2 maggio 2022, est. Tosoni, secondo cui, infatti, può parlarsi di handicap ogni qualvolta la malattia sia di lunga durata, necessiti di cure ripetute e invalidanti, e/o abbia l’attitudine a incidere negativamente sulla vita professionale del lavoratore anche costringendolo a reiterate assenze[15].

 

L’evoluzione giurisprudenziale sulla discriminazione indiretta: la giurisprudenza eurounitaria e i due diversi orientamenti della giurisprudenza di merito nazionale.

 

5.1. La giurisprudenza eurounitaria.

Preliminarmente, con riferimento alla fattispecie oggetto di commento, occorre richiamare quanto statuito dalla Corte di giustizia e, in particolare, dalla sentenza del 18.1.2018 - causa C-270/16, inerente all’interpretazione del divieto di discriminazione basata sull’handicap, con riferimento ad un licenziamento per superamento del comporto. Sul punto, è stato  osservato che l’art. 2, paragrafo 2, lett. b, della Direttiva 2000/78/CE, osta ad una normativa nazionale che consente al datore di lavoro di licenziare un lavoratore in ragione di assenze intermittenti dal lavoro, sebbene giustificate, laddove tali assenze siano imputabili alla disabilità di cui soffre il lavoratore, tranne se tale normativa, nel perseguire un obiettivo legittimo (nella fattispecie specificamente individuato nella lotta all'assenteismo), non va al di là dello stesso[16]. Sempre a parere della Corte di giustizia “rispetto a un lavoratore non disabile, un lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità (…). Egli è quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare i giorni di assenza per malattia e, quindi, di raggiungere i limiti (…). Risulta, dunque, che la norma di cui a tale disposizione è idonea a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità ai sensi dell’articolo due, paragrafo due, lettera B) della direttiva 2000/78[17].

Secondo la giurisprudenza eurounitaria, appare evidente il rischio a cui sono soggette le persone disabili, le quali incontrano sicuramente maggiore difficoltà rispetto ai lavoratori non affetti da handicap a inserirsi nel mondo del lavoro e, pertanto, hanno esigenze specifiche collegate alla loro condizione[18].

 

5.2. L’orientamento giurisprudenziale sulla discriminazione indiretta allorché il CCNL non preveda periodi di comporto diversificati per i portatori di handicap.

Nel tempo, con riferimento alla contrattazione collettiva che non prevede periodi di comporti differenziati tra lavoratori abili e disabili o che, invece, non prevede lo scomputo dal comporto delle assenze dovute all’handicap, si sono formati nella giurisprudenza di merito due diversi filoni.

Per quanto riguarda l’orientamento che accoglie la tesi della discriminazione indiretta, alcuni Tribunali, proprio in ragione dei sopra evidenziati principi espressi dalla giurisprudenza eurounitaria in tema di disabilità, hanno qualificato il licenziamento per superamento del periodo di comporto come discriminatorio nel momento in cui il contratto collettivo non distingua le assenze di malattie tra lavoratori disabili e non.

Tra i primi provvedimenti di merito, a quanto consta, occorre segnalare quello del Tribunale di Pisa, con ordinanza del 16 aprile 2015, nonché le decisioni del Tribunale di Milano e, in particolare, del 28 ottobre 2016, n. 2875, del 6 aprile 2018 e del 12 giugno 2019, seguite poi dagli arresti del Tribunale di Verona del 22 marzo 2021 e del Tribunale di Mantova del 22 settembre 2021. In tali pronunce i giudici, effettuando un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2110 c.c., e sulla scorta di quanto precisato dalla giurisprudenza eurounitaria, hanno affermato che la previsione di un periodo di comporto, la cui quantificazione prescinda tout court dalla “disabilità” del lavoratore, configura un’ipotesi di “discriminazione indiretta” a norma del D.Lgs. n. 216/2003 (e della Direttiva 2000/78/CE).

In particolare, con riferimento ai provvedimenti del Tribunale meneghino, si segnala la sentenza del 12 giugno 2019, est. Colosimo, richiamata anche dalla più recente ordinanza del 22 maggio 2022, est. Tosoni, secondo cui “l’assunto della assoluta equiparabilità delle condizioni del lavoratore non disabile ma affetto da malattia, e quindi, della possibilità di applicare ai primi la medesima - indistinta – disciplina di comporto è erroneo. Così operando, infatti, si regolano nel medesimo modo due situazioni radicalmente differenti, violando il principio di eguaglianza sostanziale e, prima ancora, dando luogo ad una discriminazione indiretta”. Principi questi già enunciati in un’altra ordinanza, sempre del Tribunale di Milano, del 6 aprile 2018, che aveva riconosciuto la nullità della norma contrattuale, per discriminazione indiretta, in quanto la stessa prevedeva, per il portatore di handicap, il medesimo periodo di comporto stabilito per i lavoratori non affetti da disabilità; tale statuizione osservava in merito che il primo è posto in una condizione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori “in quanto costretto ad un numero di assenze di gran lunga superiore rispetto al lavoratore che limita le proprie assenze ai casi di contingenti patologie che hanno durata breve o comunque limitata nel tempo”.

Sulla medesima scia interpretativa, si segnalano altre recenti decisioni, sia di Tribunale sia di Corte di appello, che hanno incentrato il loro ragionamento sui seguenti presupposti argomentativi. Il datore di lavoro, equiparando la condizione della dipendente disabile a quella degli altri lavoratori, pone in essere una condotta discriminatoria in quanto può invece considerare irrilevanti, ai fini del superamento del comporto, le assenze dovute alla disabilità, dimostrando così di avere adottato quel “ragionevole accomodamento” per consentire l’effettiva equiparazione dei lavoratori affetti da handicap rispetto agli altri dipendenti[19]. Costituisce, infatti, discriminazione indiretta la previsione del contratto collettivo che non tenga conto del “fattore di rischio” del soggetto disabile non scomputando, quindi, dal periodo di comporto, le assenze dovute alle patologie gravi[20]. Il licenziamento pertanto è nullo, con diritto conseguenziale del lavoratore alla reintegra nel posto di lavoro, quando la norma contrattuale del CCNL stabilisce un periodo di comporto uguale sia per i lavoratori disabili che per quelli non disabili, poiché discrimina indirettamente i dipendenti affetti da handicap[21].

Pare opportuno richiamare gli arresti più interessanti che hanno conformato i loro provvedimenti a tali principi e che si distinguono per la particolarità delle soluzioni adottate. Ad esempio, la Corte di appello di Genova, con sentenza del 21 luglio 2021, n. 211, ha dichiarato nullo, in quanto discriminatorio, il licenziamento di una lavoratrice affetta da patologia invalidante le cui assenze, dovute alla necessità di ricevere cure relative alla propria disabilità, erano state ritenute rilevanti ai fini del superamento del periodo di comporto. Il datore di lavoro aveva infatti applicato il CCNL di settore che, in materia di assenze per malattia, non prevedeva una disciplina specifica per i lavoratori disabili, ma equiparava le assenze legate alle cure relative alla disabilità a quelle dovute alla comune malattia dei dipendenti non invalidi. La Corte territoriale ha ritenuto che l’applicazione di tale norma, di origine collettiva, costituisca una forma di discriminazione indiretta, ai sensi dell’art. 2 D.Lgs. n. 216/2003, recante la disciplina sulla parità di trattamento in materia di occupazione.

In merito, si segnala anche la sentenza del 26 giugno 2022 del Tribunale di Lecco. La particolarità delle statuizioni di tale arresto si rinviene nella circostanza che, in realtà, il CCNL di settore differenziava la malattia normale da quella grave, stabilendo periodi di comporto diversi. Tuttavia, a parere del giudice di Lecco, l’indicazione di un periodo di comporto più lungo per le malattie gravi (tra cui rientravano anche quelle connesse alla disabilità), “non fa venire meno il carattere discriminatorio della norma contrattuale, che non scomputa i giorni di malattia dovuti alla disabilità, ma semplicemente allunga il periodo di comporto”. La mancata differenziazione nelle tutele contrasta con il principio di parità di trattamento in ragione del fatto che le situazioni sono oggettivamente diverse e meritano un trattamento differenziato.

A tale decisione è seguita quella della Corte di appello di Milano che, con sentenza del 9 dicembre 2022, n. 1128, ha ritenuto nullo, sempre per discriminazione indiretta, un licenziamento per superamento del periodo di comporto irrogato ad un lavoratore che si era assentato oltre il limite del comporto a causa di una patologia (artrosi dell’anca). I giudici, hanno ricondotto tale malattia allo stato di “handicap”, come definito dalla Corte di giustizia, ovvero a una “limitazione di capacità risultante da durature menomazioni fisiche mentali o psichiche che (…) possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale[22]. Anche in questo caso, sempre secondo la Corte meneghina, poiché il prestatore doveva considerarsi affetto da handicap, la norma contrattuale applicabile (art. 51 del CCNL Multiservizi) avrebbe dovuto prevedere un “contemperamento perequativo”, ossia disporre una disciplina particolare e di maggior tutela per i lavoratori disabili.

Da ultimo, sono intervenute le decisioni del Tribunale di Parma, del 9 gennaio 2023, n. 1 e della Corte di appello di Napoli, del 17 gennaio 2023, n. 168, sempre con riferimento alla nullità di un licenziamento per superamento del periodo di comporto di un soggetto disabile. In particolare, la Corte partenopea, nel decidere la controversia con riferimento ad un licenziamento intimato ad un lavoratore affetto da sclerosi multipla degenerativa e definitiva, hanno fatto propri i sopra citati principi della giurisprudenza eurounitaria e, richiamando espressamente la sentenza del 18 gennaio 2018, causa C-270/16, hanno affermato che trattando “in modo generalizzato le assenze intermittenti dal lavoro dei dipendenti, si creava una disparità di trattamento sostanziale e si finiva per assimilare una patologia legata ad una disabilità alla nozione generale di malattia”.

Partendo da tale presupposto, la Corte territoriale ha osservato che, nel tempo, la contrattazione collettiva si è evoluta nel disciplinare il c.d. periodo di comporto entro il quale il lavoratore che si assenta per malattia ha diritto a conservare il posto di lavoro[23]. Ed infatti, sono state introdotte “importanti differenziazioni per situazioni in cui il lavoratore venga colpito da gravi malattie spesso croniche ed invalidanti (quali quelle oncologiche o necessitanti di terapie salvavita o ad esse assimilabili) che, pertanto, vengono assoggettate ad una disciplina speciale, di maggiore tutela rispetto alle altre malattie comuni che evolvono rapidamente in una completa guarigione”. Sulla base di tale assunto, la Corte ha verificato che il CCNL applicabile alla fattispecie prevedeva alcune deroghe relativamente al trattamento economico della malattia di alcune assenze dovute, ad esempio, al day hospital per la somministrazione di terapie salvavita e, specificatamente, proprio per casi di sclerosi multipla; ciò dimostrando come le parti sociali, in tali situazioni, abbiano inteso tutelare maggiormente la salute del lavoratore che deve prevalere sull’esigenza di efficienza perseguita dal datore. Le assenze per malattia, quindi, visto che risultavano collegate ad una patologia rientrante nella nozione di handicap, come delineata dalla Direttiva comunitaria 2000/78, avrebbero dovuto essere escluse dal computo del periodo di comporto, soluzione questa ritenuta non eccessiva per il datore di lavoro.

 

5.3. L’indirizzo di segno opposto: la tesi restrittiva della nozione di disabilità ai fini del mantenimento del posto di lavoro che non obbliga la contrattazione collettiva a periodi di comporto differenziati.

Con riferimento, invece, ai provvedimenti giurisprudenziali di opposto orientamento, si segnalano il Tribunale di Venezia del 7 dicembre 2021, n. 6273, la Corte di appello di Palermo del 14 febbraio 2022, n. 111, il Tribunale di Vicenza del 27 aprile 2022, n. 181, il Tribunale di Bologna del 19 maggio 2022, n. 230 e, da ultimo, il Tribunale di Lodi con sentenza del 12 settembre 2022. Anche in queste vicende i dipendenti, licenziati per superamento del periodo di comporto, denunciavano una discriminazione indiretta stante il loro stato di handicap o invalidità. In particolare, in virtù della legislazione eurounitaria e dei principi espressi dalle sentenze della Corte di giustizia, invocavano l’applicazione degli accomodamenti ragionevoli al fine di garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri dipendenti chiedendo, pertanto, l’esclusione dal computo del periodo di comporto dei giorni di assenza riconducibili alle loro patologie.

I Tribunali investiti di tale tematica, come sopra citati, rigettavano le domande dei prestatori con argomentazioni speculari ma, soprattutto, sulla base del principio per cui la legislazione eurounitaria lasci un ampio margine di discrezionalità in ordine ai ragionevoli accomodamenti da adottare per tutelare il lavoratore affetto da handicap o disabilità. Andando a richiamare le statuizioni più recenti degli organi giudiziali, si segnala il Tribunale di Vicenza che, con provvedimento del 27 aprile 2022 n. 181, ha sostenuto, in tema di scomputo dei giorni di malattia dovuti alla patologia dal calcolo del periodo di comporto, che la nozione di disabilità introdotta dalla direttiva comunitaria, anche alla luce dell’interpretazione della giurisprudenza eurounitaria, “non preveda una tutela assoluta in favore del soggetto disabile, dovendosi salvaguardare il bilanciamento degli interessi contrapposti: da un lato l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro adeguato al suo stato di salute, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà; d’altro lato l'interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l'impresa, tenuto conto che l'art. 23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di lavoro, se non previste per legge (Cass. SS.UU. n. 7755/1998)[24]. In sostanza, secondo il Tribunale di Vicenza, la normativa eurounitaria consente il computo nel periodo di comporto dei giorni di assenza riconducibili alla condizione di handicap del lavoratore. Al riguardo, si era già espresso, nei medesimi termini, il Tribunale di Venezia, con ordinanza n. 6273 del 2021, a parere del quale “ritenere che dalle assenze per malattia debbano essere espunte quelle determinate dallo stato di handicap ... determinerebbe, nella sostanza, una disapplicazione della norma per la maggior parte delle ipotesi”.

Anche il Tribunale di Bologna, con arresto del 19 maggio 2022, n. 230, si è posto sulla stessa linea di ragionamento affermando “come, infatti, puntualmente osservato dalla Suprema Corte, “alla stregua della L. n. 482 del 1968, art. 10, comma 1, (sulla disciplina generale delle assunzioni obbligatorie), il quale stabilisce l'applicabilità agli assunti in quota obbligatoria del normale trattamento economico e giuridico, è da escludere la detraibilità dal periodo di comporto delle assenze determinate da malattia ricollegabile allo stato di invalidità (Cass. 20 marzo 1990, n. 2302; Cass. 16 aprile 1986, n. 2697)[25]. Ha osservato ancora il giudice bolognese, che la tutela antidiscriminatoria vada esclusa nei casi, come quello sottoposto al proprio vaglio, in cui il dipendente sia stato comunque adibito a mansioni compatibili con la sua ridotta capacità lavorativa, in base a una ragionevole scelta organizzativa del datore.

Anche il Tribunale di Lodi, con sentenza del 12 settembre 2022, sulla falsariga delle decisioni sin qui richiamate, ha affermato che la mancata previsione da parte del contratto collettivo di periodi di comporto diversificati non determinerebbe alcuna discriminazione indiretta poiché, in realtà, in linea generale ed astratta non vi sono ragioni nell’ordinamento italiano per trattare i lavoratori disabili diversamente dagli altri, con particolare riguardo alle conseguenze sulla stabilità del rapporto legate alla durata della malattia.

Va segnalato in merito anche un precedente della Corte di appello di Torino, del 3 novembre 2021, n. 604, secondo cui, visto che l’ordinamento interno prevede già un apparato di garanzia del diritto al lavoro dei disabili, ciò compensi ampiamente la mancata inclusione delle assenze per malattie connesse alla disabilità nel periodo di comporto. Assunto questo che, a parere della citata decisione del Tribunale di Bologna, è corroborato dalla sentenza del 28 ottobre 2021, n. 30478 della Suprema Corte, secondo cui, ai fini della applicazione delle tutele antidiscriminatorie previste dalla Direttiva 2000/78/CE, deve escludersi che la malattia possa integrare lo stato di “handicap” in quanto temporanea, il quale, al contrario, è invocabile solo nel caso in cui la disabilità sia stata certificata dall’INPS con il riconoscimento di un’invalidità permanente.

 

La ripartizione dell’onere probatorio in tema di discriminazione: i principi della Corte di cassazione e i due opposti filoni della giurisprudenza di merito.

In tema di ripartizione dell’onere della prova, occorre distinguere tra discriminazione diretta e indiretta. Nel primo caso, la prova attiene al fattore di rischio, al trattamento che si assume meno favorevole, a quello che, invece, si ritiene più favorevole e riservato ai soggetti che non sono portatori di quel fattore di rischio, e, infine, al nesso causale tra il fattore di rischio e il trattamento deteriore. Nel secondo caso, invece, la prova riguarda sempre il fattore rischio, la disposizione, il criterio o una prassi di cui si deduce la discriminatorietà, gli effetti di queste misure sul disabile e su coloro che non siano portatori di handicap, nonché il particolare svantaggio che risulta dal confronto degli effetti sul primo gruppo sugli altri gruppi.

La giurisprudenza, con indirizzo ormai consolidato, trattandosi di discriminazione, prevede per il lavoratore un regime probatorio “alleggerito”, il quale può anche avvalersi dello speciale regime di prova presuntiva di cui all’art. 28 D.Lgs. n. 150/2011.

Il datore di lavoro, di contro, dovrà provare che l’intero periodo di assenza computato ai fini dell’art. 2110, c. 2, c.c. fosse assolutamente indipendente dall’handicap del proprio dipendente, dimostrando di aver adottato tutte le misure idonee a ovviare agli svantaggi derivanti dalla condizione di disabilità.

In materia, appaiono di particolare rilevanza le statuizioni della sentenza della Corte di cassazione del 9 marzo 2021 n. 6497, ove è stato osservato che, in caso di licenziamento del disabile per superamento del comporto (fattispecie a cui si applicano le disposizioni del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3-bis), agli oneri che normalmente gravano sul datore di lavoro si aggiunge quello, distinto, relativo all’adempimento dell’obbligo di “accomodamento ragionevole”. I giudici di legittimità, infatti, hanno affermato che, per verificare l’adempimento o meno di tale obbligo, la fattispecie non è sovrapponibile a quella del repêchage e, quindi, alle allegazioni sull’impossibilità di ricollocare il prestatore disabile per la mancanza di posizioni, equivalenti o inferiori, disponibili in azienda[26].

Al fine di comprendere quale sia, invece, il tipo di condotta richiesta al datore per non incorrere nella sanzione della nullità del recesso, senza che si possa sconfinare in forme di responsabilità oggettiva, la Suprema Corte, sempre con la sentenza 9 marzo 2021 n. 6497, ha sostenuto che occorre indagare sul compimento in positivo di “atti concreti o operazioni strumentali rispetto all’avveramento dell’accomodamento ragionevole, che assumano il rango di fatti secondari di tipo indiziario o presuntivo, i quali possano indurre nel giudicante il convincimento che il datore abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata che scongiurasse il licenziamento”.

 

6.1. L’orientamento di merito secondo cui la discriminazione opera oggettivamente.

Sempre in tema di ripartizione dell’onere probatorio, una parte della giurisprudenza ha ritenuto del tutto irrilevante la consapevolezza datoriale rispetto al fatto che il lavoratore sia portatore di handicap, valorizzando, a tal fine, l’affermazione della Corte di cassazione secondo cui “la discriminazione- diversamente dal motivo illecito - opera obiettivamente - ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta- ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro…[27].

In ragione dei principi espressi dalla Suprema Corte, si è formato un indirizzo di merito secondo cui “la discriminazione, diretta o indiretta che sia, opera sempre su di un piano puramente oggettivo possedendo per questa ragione delle connotazioni negative che vanno al di là della pura e semplice consapevolezza in capo al soggetto agente in ordine ai presupposti del fenomeno, ai suoi effetti e al suo disvalore giuridico oltre che umano e sociale: basta in pratica che si manifesti con effetti nella sfera soggettiva della “vittima” un fatto di per sé foriero di una valenza discriminatoria perché esso operi lasciando spazio ai mezzi di tutela ordinamentali[28].

In virtù di tale prospettazione, spetta quindi al datore di lavoro l’onere di dimostrare che alcune assenze, o l’intero periodo di astensione dalla prestazione per malattia, non dipendano dalle patologie dovute a disabilità o all’handicap, nell’accezione eurounitaria sin qui esaminata[29].

Sul versante poi della conoscibilità della patologia grave del prestatore da parte del datore di lavoro, tale indirizzo giurisprudenziale ha osservato che la stessa può ritenersi provata sulla base di elementi indiziari rinvenibili nel fatto oggettivo di assenze per malattia compiute per lunghi periodi, o per un unico periodo, che fanno superare il comporto[30]. Oppure, sulla base di comunicazioni inviate successivamente al recesso da parte del prestatore. Ad esempio, su tale ultima ipotesi, il Tribunale di Lecco, con la sentenza del 22 giugno 2022, ha ritenuto che il datore avesse appreso della gravità della malattia, assimilabile alla nozione di handicap sin qui esposta, mediante l’atto di impugnazione del recesso, ove il prestatore aveva espressamente evidenziato la correlazione tra le assenze e la propria disabilità che consentiva lo scorporo dal periodo di comporto delle stesse. Conseguentemente l’azienda, in ragione di tale consapevolezza, ben poteva revocare il recesso ai sensi dell’art. 18, comma 10, L. n. 300/70, quale accomodamento ragionevole.

 

6.2. Segue. L’indirizzo della necessaria consapevolezza del fattore discriminante.

L’orientamento di merito che si contrappone all’indirizzo sin qui esaminato, afferma invece che la parità di trattamento non può assicurarsi tout court mediante l’automatica disapplicazione del periodo di comporto in quanto “anche si volesse ipotizzare l’esistenza di un obbligo in capo al datore di lavoro di espungere dal comporto le assenze collegate allo stato di invalidità del dipendente…allora necessariamente occorrerebbe, al fine di rendere esigibile detto obbligo, imporre al dipendente l’onere di comunicare quali assenze siano riconducibili alla malattia invalidante stante l’oggettiva impossibilità per il datore di lavoro di controllare detto nesso causale non essendo a conoscenza della diagnosi dei certificati di malattia di cui normalmente viene a conoscenza solo in sede di impugnazione del recesso[31].

Tale filone giurisprudenziale presuppone una consapevolezza da parte del datore di lavoro delle ragioni poste alla base delle assenze che dipende dalla cooperazione del lavoratore, il quale ha il dovere di comunicare espressamente quali siano quelle collegate alle patologie invalidanti. Alcuni arresti riconducono tale onere di collaborazione a carico del lavoratore in ragione delle disposizioni di cui al D.M. 18.4.2012 che, introducendo la possibilità di indicare nei certificati se l’assenza dal lavoro sia dovuta ad uno stato patologico connesso alla situazione di invalidità riconosciuta, barrando la corrispondente casella, consente al medesimo (in realtà il medico curante) il rispetto dei canoni di buona fede e correttezza nell’adempimento della prestazione[32]. Al riguardo, è stato sostenuto che nel “giudizio di bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti non può infatti prescindersi dalla considerazione che è il lavoratore a dover dimostrare l’esistenza di una causa giustificatrice dell’assenza, fatto impeditivo dell’inadempimento conseguente alla mancata erogazione della prestazione lavorativa[33]. In tal senso, si è anche osservato che la domanda di nullità del recesso non poteva essere accolta sul presupposto che il lavoratore “non ha mai chiesto il riconoscimento dell’handicap alle competenti strutture, né ha mai comunicato al datore di lavoro quale fosse la malattia che ha determinato l’assenza dal lavoro, né ha segnalato eventuali inidoneità al lavoro[34]. Ancora sul punto, si è fatto leva sulla circostanza che, per la qualificazione del fattore discriminante, esso deve essere noto a colui che abbia posto in essere la condotta potenzialmente vietata, in quanto, la mancata comunicazione della disabilità da parte del lavoratore, impedisce al datore di lavoro di mettere in atto i meccanismi di protezione[35].

A parere poi di altro giudice, tale conoscibilità del trattamento sfavorevole appare ancora più evidente allorché si sia in presenza di una discriminazione diretta, poiché in questo caso si assiste ad un trattamento differenziato (e meno favorevole) per quanti appartengano ad una data categoria di soggetti[36]. Tuttavia, secondo il medesimo giudice, la necessaria consapevolezza del fattore discriminante “s’impone anche nel caso delle discriminazioni indirette, le quali si verificano, all’opposto, quando la situazione di svantaggio è derivante dall’applicazione di un trattamento generalizzato – apparentemente neutro – a soggetti che, per l’appartenenza ad una data categoria, finiscono per esserne svantaggiati[37]. Tale indirizzo giurisprudenziale, a conforto delle proprie tesi, afferma che non osta il fatto che Corte di cassazione abbia ormai chiarito come la discriminazione operi obiettivamente in quanto tale assunto “ha lo scopo di svuotare di significato le ragioni soggettive che muovono l’azione del datore di lavoro, attribuendo esclusivo rilievo al suo esito, ossia il trattamento discriminatorio, ed escludendo che tra i suoi presupposti vi sia l’intento lesivo”. Al contempo, tuttavia, sempre il Tribunale di Pavia, in un precedente arresto dell’8 marzo 2020, non ha mancato di evidenziare che, ritenendo qualificabile come discriminatoria una condotta di cui il datore di lavoro non abbia la piena consapevolezza, determinerebbe una sorta di responsabilità oggettiva che “non pare in alcun modo predicata dalle norme applicabili e che, del resto, pare positivamente esclusa dall’universo disciplinare in materia discriminatoria[38].

Per completezza d’indagine, occorre tuttavia segnalare che la già citata sentenza di cassazione del 31 marzo 2023, n. 9095, ha ritenuto non decisivo l’assunto della società di non essere stata messa a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, visto che i certificati non indicavano la specifica malattia che aveva causato l’assenza, in quanto la discriminazione opera in modo oggettivo in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al soggetto disabile.       

 

6.3. La tesi della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c.

Tra questi diversi orientamenti giurisprudenziali, sempre in tema di onus probandi in caso di dedotta discriminazione indiretta, si innesta la recente sentenza della Corte di appello di Milano, del 16 febbraio 2023, che appare di rilevante interesse con riferimento alla soluzione offerta, onde evitare l’affermarsi di una fattispecie di responsabilità oggettiva. A parere dei giudici meneghini, la tesi della prevalenza al fattore soggettivo, ossia la mancanza di conoscenza da parte del datore circa le reali condizioni di salute del suo dipendente, pur ancorata a una “dogmatica impeccabile”, non può essere condivisa poiché occorre inevitabilmente “rifarsi al piano su cui opera la responsabilità contrattuale del datore di lavoro in base alla norma cardine del sistema ex art. 1218 c.c.”. Secondo i giudici milanesi, anche a voler ammettere che la società non fosse a conoscenza della patologia, “quel che appare deficitario nello schema di imputazione di responsabilità contrattuale, è la parimenti deficitaria allegazione dell’esimente valevole a liberare il debitore dall’adempimento che gli era richiesto”. In concreto, in ragione di un concetto di solidarietà umana e sociale, che si ricava anche dall’esegesi della giurisprudenza eurounitaria, il datore avrebbe dovuto porre in essere quei rimedi (ragionevoli) connaturati all’adempimento delle obbligazioni nascenti dalla prestazione lavorativa. Pertanto, seguendo lo schema di imputazione della responsabilità contrattuale, il datore “avrebbe dovuto provare le uniche due esimenti previste dall’art. 1218 c.c. per integrare il concetto di ‘causa non imputabile’ o quantomeno (accedendo a una teorica risalente) di avere fatto tutto il possibile per scongiurare l’inadempienza”. L’azienda, secondo la ricostruzione della Corte di appello, in presenza delle lunghe assenze per malattia che determinavano il superamento del comporto, avrebbe dovuto, da un lato, fornire “la prova della sua piena impossibilità di attivarsi”, dall’altro, quantomeno, appurare in maniera conforme ai principi di correttezza e buona fede “il reale stato di salute del dipendente e la portata delle complicazioni che, all’evidenza, lo affliggevano, come ben sarebbe stato possibile”; soluzione questa, peraltro, imposta anche in ragione delle difficoltà create all’organizzazione aziendale proprio a causa delle assenze del dipendente. Al riguardo, si segnala altro precedente della Corte territoriale milanese, la sentenza n. 301/2021, ove, con riferimento alla portata oggettiva del fattore discriminante, si è affermato che “la discriminazione, diretta o indiretta che sia, opera sempre su di un piano puramente oggettivo possedendo per questa ragione delle connotazioni negative che vanno al di là della pura e semplice consapevolezza in capo al soggetto agente in ordine ai presupposti del fenomeno, ai suoi effetti e al suo disvalore giuridico oltre che umano e sociale”.

 

Gli accomodamenti ragionevoli nell’interpretazione della Corte di cassazione.

La nuova disposizione ex art. 3, comma 3-bis, del D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, prevede che i datori di lavoro pubblici e privati, al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, sono obbligati ad adottare accomodamenti ragionevoli entro il limite di un onere finanziario proporzionato e non eccessivo. A norma poi dell’articolo 5 della Direttiva 78/2000 per “garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli”. Tale Direttiva è stata più volte richiamata dal giudice europeo e, in particolare, nella sentenza 4 luglio 2013, C 312/2011, ove si legge che gli “Stati membri devono stabilire nella propria legislazione un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati e cioè efficaci e pratici, ad esempio sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze delle situazioni concrete (…) senza imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato”.

L’esegesi giurisprudenziale, in ragione di tali principi sovranazionali e nazionali, ha allargato i confini degli “accomodamenti ragionevoli” inerenti alla tutela della disabilità anche alle fattispecie delle malattie gravi anche se non “coperte” dal sigillo delle certificazioni di invalidità e di disabilità e delle relative tutele previste dalle Leggi n. 68/1998 e n. 104/1992. In merito, si segnala la sentenza n. 6798 del 19 marzo 2018, ove la Suprema Corte ha approfondito i principi in materia di tutela del disabile e di parità di trattamento richiamando sul punto, in maniera completa e dettagliata, i riferimenti normativi comunitari ed internazionali[39]. La vicenda trattava infatti il caso di un licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore alle mansioni, determinata da malattie (nella specie broncopneumopatia, dermatite da contatto, angioneurosi alle mani) tali da non consentire al medesimo la esposizione alle polveri presenti sul luogo di lavoro. La sentenza di cassazione appare di rilevante interesse in quanto, in punto di diritto, ha affrontato la questione del bilanciamento di norme rispetto all’interpretazione degli articoli 1453, 1455, 1464 del codice civile e dell’articolo 3 della Legge n. 604 del 1966, anche in combinato disposto con l’articolo 41 della Costituzione. In estrema sintesi, il tema è fino a che punto deve arrivare la cooperazione del datore di lavoro, in caso di accertata inidoneità fisica del prestatore alle proprie mansioni per determinate patologie o handicap, al fine di salvaguardare il rapporto di lavoro. L’arresto della cassazione ha preso le mosse da un ricorso proposto dall’azienda in quanto la sentenza della Corte di appello di Cagliari rappresentava una indebita ingerenza sulla libertà dell’imprenditore, costituzionalmente tutelata ex art. 41, di organizzare la propria impresa. Infatti, secondo la censura della società, il provvedimento oggetto di gravame imponeva al datore di stravolgere, in maniera irragionevole, la propria organizzazione del lavoro con sacrificio anche degli interessi degli altri dipendenti al fine di consentire al lavoratore, proprio mediante la modifica della propria struttura organizzativa, di espletare la propria prestazione. In concreto, secondo l’assunto della società ricorrente, la sentenza di appello era meritevole di censura in quanto obbligava l’imprenditore a spostare alcune unità di personale da un reparto ad un altro per consentire al lavoratore di svolgere le proprie mansioni, nonostante l’azienda non avesse un interesse oggettivamente apprezzabile all’esecuzione parziale della prestazione. La Cassazione ha risolto la vicenda affermando che il recesso doveva ritenersi illegittimo in quanto tale riorganizzazione non configurava per l’azienda un onere finanziario sproporzionato ai fini dell’adozione degli accorgimenti necessari alla conservazione del posto di lavoro.

Tali principi sono stati confermati da una successiva sentenza della cassazione, del 22 ottobre 2018, n. 26675, secondo cui “il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possono ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato[40]. Sussiste pertanto, a parere dei giudici di legittimità, un obbligo del datore di lavoro di assegnare il lavoratore, in condizioni di handicap, a mansioni diverse, equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori. Sempre che, tuttavia, tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore, anche in presenza di un costo, purché esso sia sostenibile e ragionevole, avuto riguardo anche all’interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti[41]. Non è quindi sufficiente, per il datore di lavoro, allegare le difficoltà che possono sorgere nell’operare nel senso richiesto, ma occorre dimostrare che le stesse siano tali da determinare costi insostenibili o irragionevoli, o una destabilizzazione dell’assetto organizzativo dell’azienda, o che si tratti di andare ad incidere sull’interesse degli altri lavoratori[42].

 

7.1. Segue. Le soluzioni ragionevoli secondo la giurisprudenza di merito.

La giurisprudenza di merito, in più occasioni, ha accolto l’orientamento della cassazione relativo all’adozione di accomodamenti ragionevoli ai fini della salvaguardia del posto di lavoro del soggetto disabile[43]. Tra quelli più efficaci e di semplice soluzione, senza alcuna eccessiva onerosità per il datore, rientra sicuramente la sottrazione dal calcolo del comporto dei giorni di malattia ascrivibili all’handicap[44]. Sempre in tema di accomodamenti ragionevoli, la citata Corte di appello di Napoli del 17 gennaio 2023 afferma, ad esempio, che l’azienda ha a disposizione una serie di misure e sostegni per poter sopportare tale carico ed evitare la discriminazione indiretta, come ad esempio, controllare, in maniera costante, l’idoneità alla mansione del lavoratore oppure non computare le assenze dovute alla malattia che ha cagionato la disabilità o, in alternativa, la riduzione dell’orario di lavoro[45]. Adattamenti ragionevoli possibili e non sproporzionati.

Altre pronunce hanno indicato poi, quale soluzione non eccessivamente onerosa per il datore di lavoro, quella della ridistribuzione dei compiti tra lavoratori in maniera da assegnare al prestatore mansioni compatibili con la proprie patologie[46], oppure la creazione di un nuovo posto di lavoro[47]; con la considerazione, da ultimo, che tale adibizione non possa arrivare al punto di mortificare la dignità del lavoratore con mansioni notevolmente inferiori rispetto sia al proprio livello sia alla precedente professionalità, laddove esistano in azienda posizioni compatibili che prevedano solo una diversa modulazione di orario o turni di lavoro[48]. Per comprendere, infine, quando tale onere finanziario non possa ritenersi sproporzionato, recentemente il Tribunale di Lodi, con sentenza del 9 febbraio 2023, ha affermato che esso “andrà valutato in rapporto alle dimensioni ed alle risorse finanziarie dell’impresa, mentre la ragionevolezza implicherà che la modifica organizzativa non pregiudichi significativamente l’interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti, il tutto in un’ottica di rispetto dei principi di buona fede e correttezza nei rapporti contrattuali e di un adeguato bilanciamento dell’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà e dell’interesse del datore di lavoro a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l’impresa”.

 

Conclusioni. La tutela “rafforzata” a salvaguardia del posto di lavoro del disabile. L’impostazione ermeneutica adottata dai recenti indirizzi giurisprudenziali di merito, avallata da ultimo dalla citata sentenza della Suprema Corte n. 9095 del 31 marzo 2023, conferma il consolidarsi dell’orientamento della salvaguardia del posto di lavoro del disabile allorché le assenze dovute alla propria patologia invalidante determini il superamento del comporto. In tal caso, è imposto l’obbligo al datore di adottare gli “accomodamenti ragionevoli”[49]. Tale soluzione interpretativa, peraltro, trova un’espressa previsione normativa, in via analogica, anche nell’art. 4, co. 4, L. n. 68 del 1999, in relazione all’obbligo di ricollocazione del disabile sopravvenuto, nonché nell’art. 10, co. 3, che già prevedeva, per evitare il licenziamento, l’attuazione da parte del datore di “tutti i possibili adattamenti dell’organizzazione produttiva”. Senza dimenticare che l’obbligo di trovare un ragionevole adattamento ha un ulteriore riferimento normativo, ai fini della tutela della salute e sicurezza del prestatore, nell’art. 42 D.Lgs. n. 81 del 2008 che stabilisce, in via generale, di adibire, “ove possibile”, il lavoratore a mansioni equivalenti o inferiori. Al riguardo, si è espressa la cassazione, proprio con riferimento all’interpretazione dell’art. 42 del D.Lgs. n. 81 del 2008, affermando che la norma, ove prevede l’inciso che il lavoratore divenuto inabile alle mansioni specifiche possa essere assegnato, “ove possibile”, anche a mansioni equivalenti o inferiori, contempera “il conflitto tra diritto alla salute ed al lavoro e quello al libero esercizio dell’impresa, ponendo a carico del datore di lavoro l’obbligo di ricercare - anche in osservanza dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto - le soluzioni che, nell’ambito del piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti ed idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore e lo grava, inoltre, dell’onere processuale di dimostrare di avere fatto tutto il possibile, nelle condizioni date, per l’attuazione dei detti diritti[50].In tal senso, l’orientamento consolidato della Suprema Corte e, in parte della giurisprudenza di merito - che come visto richiama a supporto delle proprie decisioni i principi del diritto internazionale e eurounitario sulla parità di trattamento del disabile (e del lavoratore divenuto inidoneo alla mansione) nel rapporto di lavoro e nel momento della risoluzione dello stesso -  confermano il configurarsi di una tutela “rafforzata” a favore del lavoratore volta a scongiurarne l’espulsione in quanto il recesso deve rappresentare l’extrema ratio[51]. Obiettivo che deve essere perseguito anche mediante il ricorso agli “accomodamenti ragionevoli” di cui all’art. 3, co. 3 bis, del D.Lgs. n. 216 del 2003, che condizionano “a monte il potere di recesso del datore[52]. Tale ultima disposizione, la cui cogenza trae maggiore forza in ragione delle fonti internazionali e eurounitarie, impone una rigorosa attenzione da parte dei giudici sulla condotta doverosa a cui è tenuto il datore di lavoro, il quale deve adottare idonee misure a tutela del prestatore portatore di handicap, non solo durante l’esecuzione del rapporto, ma anche nel momento della decisione della risoluzione dello stesso. Soluzioni che il datore di lavoro, secondo la giurisprudenza sin qui analizzata, deve ricercare in maniera pro-attiva per dimostrare - anche in ragione di una responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. di cui è gravato - di aver fatto tutto il possibile al fine della salvaguardia del posto di lavoro, con il solo limite che gli adattamenti da attuare alla propria organizzazione non determinino un costo finanz

[1] Per un approfondimento della normativa antidiscriminatoria, si rimanda a M. Barbera, Il nuovo diritto antidiscriminatorio, 2007, Milano.

[2] Per un approfondimento sul tema, si veda R. Voza, Sopravvenuta inidoneità psicofisica del lavoratore nel puzzle normativo delle ultime riforme, in Arg. dir. lav., 2015, n. 4-5, 771 e ss., nonché B. de Mozzi, Sopravvenuta inidoneità alle mansioni, disabilità, licenziamento, in Lav. dir. Eur., 2020, n. 2, 2 e ss.

[3] Sentenza questa di interesse in quanto avente ad oggetto la vicenda del medesimo lavoratore disabile che segue la precedente ordinanza del Tribunale di Lecco del 26 giugno 2022, ove il giudice aveva accertato la nullità del recesso per discriminazione indiretta in ragione della mancata previsione di un periodo di comporto che non tenesse conto delle assenze per malattia dovute alla disabilità. Nella recente sentenza del 23 gennaio 2023 il Tribunale tratta invece il tema degli “accomodamenti ragionevoli” che il datore di lavoro deve adottare in caso di reintegra del lavoratore disabile, appunto già licenziato per superamento del periodo di comporto, ove si affronta il tema delle mansioni che possono essere assegnate al lavoratore in relazione al proprio handicap, senza che le stesse possano svilire la sua dignità di prestatore.  

[4] Sul punto, si veda Cass. 31 marzo 2023, n. 9095 secondo cui “la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio”. Afferma ancora sul punto la Suprema Corte a chiarimento di tale concetto: “nella misura in cui la previsione del comporto breve viene applicata ai lavoratori disabili e non, senza prendere in considerazione la maggiore vulnerabilità relativa dei lavoratori disabili ai fini del superamento del periodo di tempo rilevante, la loro posizione di svantaggio rimane tutelata in maniera recessiva”.   

[5] Adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, entrata in vigore sul piano internazionale il 3 maggio 2008 e ratificata dall’Italia, con L. 3 marzo 2009, n. 18.

[6] In dottrina, si segnalano alcuni autori che hanno affrontato tale tematiche tra cui: S. Giubboni, Disabilità, inidoneità sopravvenuta, licenziamento, in Riv. giur. lav., 2016, n. 3, I, 621 e ss., nonché D. Izzi, Il licenziamento discriminatorio secondo la più virtuosa giurisprudenza, in Lav. giur., 2019, n. 8-9, 748 e ss.

[7] Sul punto, come si dirà meglio infra, la Cassazione ha infatti riconosciuto una nozione di handicap allargata che prescinde dal previo accertamento di tali requisiti dagli Enti a ciò preposti.

[8] In tal senso, C. giust. Chacon Navas, 11 luglio 2006, causa C-13/05, punto 45.

[9] Cfr. sempre C. giust. Chacon Navas, 11 luglio 2006, causa C-13/05, punto 43.

[10] Cfr. C. giust., 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/2011 e C-337/2011, punto 47, nonché C. giust. 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16. Sulla stessa falsariga, in un’accezione allargata di disabilità, si veda anche C. giust. 18 dicembre 2014, FOA (Fag og Arbejde), C-354/2013, punto 53, secondo cui anche l’obesità rientra nella nozione di handicap, ai sensi della Direttiva 2000/78, allorché sia di ostacolo alla partecipazione del lavoratore alla vita professionale.

[11] In merito, si veda R. Bono, Limiti al licenziamento del lavoratore disabile a garanzia della parità di trattamento, in Riv. giur. lav., 2019, n. 2, II, 289.

[12] Sul punto cfr., tra le tante: Cass. n. 6497/21; Cass. n. 29289/19; Cass. n. 13649/19; Cass. n. 26675/18; Cass. n. 6798/18.

[13] Cass. 27 settembre 2018, n. 23338.

[14] In tema, si veda anche Cass., 29 agosto 2011, n. 17720. In merito, si evidenzia che secondo la Corte costituzionale, in particolare le sentenze n. 135 del 2002, nn. 393 e 394 del 2006, hanno affermato che “(…) la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (detta anche Carta di Nizza) è stata originariamente proclamata a Nizza nel 2000 e, pure prima che le venisse attribuito il valore giuridico dei trattati (col Trattato di Lisbona), ad essa era stato riconosciuto “carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei” (avente quindi, come tale, valore di ausilio interpretativo)”.

[15] Sulla nozione di handicap che si differenzia dalla malattia, si segnala Trib. Milano, 2 maggio 2022, che richiama in merito anche Trib. Milano, 11 febbraio 2023.

[16] Cfr. sentenza C. giust. del 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, causa C-270/1.

[17] In tal senso, sentenza C. giust. 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, causa C-270, nonché C. giust. dell’11 aprile 2013, HK, Dammark, C-335/11.

[18] C. giust. dell’11 aprile 2013, HK, Dammark, C-335/11 e C-337/11, punto 91, secondo cui “non si deve (…) ignorare il rischio cui sono soggette le persone disabili, le quali, in generale, incontrano maggiori difficoltà rispetto ai lavoratori non disabili a reinserirsi nel mercato del lavoro e hanno esigenze specifiche connesse alla tutela richiesta alla loro condizione”.

 

[19] C. App. Genova 21 luglio 2011, n. 211.

[20] Trib. Lecco, 26 giugno 2022.

[21] Tale principio espresso da C. App. Milano, 9 dicembre 2022, n. 1128, è comune a tutti i provvedimenti in esame, tra cui, ex multis, con riferimento ai giudizi di secondo grado: C App. Genova, 21 luglio 2011, n. 211, C. App. Milano, 9 dicembre 2022; C. App. Napoli, 17 gennaio 2023; C. App. Milano, 16 febbraio 2023. Con riferimento, invece, al primo grado: Trib. Milano, 28 ottobre 2016, n. 2875; Trib. Milano, 6 aprile 2018; Trib. Milano 6 ottobre 2018; Trib. Milano 12 giugno 2019; Trib. Verona, 22 marzo 2021; Tribunale di Mantova, 22 settembre 2021; Trib. Lecco, 26 giugno 2022; Trib. Parma, 9 gennaio 2023.

[22] Cfr. C. giust., 11 aprile 2013, C-335.

[23] Su tale principio si è espressa anche C. App. Genova, 21 luglio 2021, n. 211 e, recentemente, Trib. Parma, 9 gennaio 2023, n.1.

[24] Afferma ancora sul punto il Tribunale di Vicenza che “la stessa direttiva 2000/78/CE, al Suo considerando 17, “non prescrive ... il mantenimento dell'occupazione ... di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione” (sent. CGUE 11/09/2019 n. 397 cit.; sent. CGUE 11 aprile 2013, HK Danmark, cause riunite C-335/11 e C-337/11).

[25] Osserva in merito il Tribunale di Bologna che eventualmente “la diversità di tutela ricondursi ai principi generali in tema di adempimento contrattuale (art. 2087 c.c.) ed al loro diverso atteggiarsi nel caso di un rapporto di lavoro instaurato con un prestatore invalido, assunto obbligatoriamente a norma della L. 2 aprile 1968, n. 482, dovendo, in tal caso, il datore di lavoro, che a norma dell'ex art. 2087 c.c. deve adottare tutte le misure necessarie per l'adeguata tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, in osservanza delle disposizioni della detta legge, far si che le mansioni alle quali il lavoratore invalido viene adibito siano compatibili con la sua condizione (Cass. 4 aprile 1989, n. 4626; Cass. 18 aprile 200, n. 5066; Cass. 7 aprile 2011, n. 7946; Cass. n. 17720/2011)”.

[26] In materia di licenziamento e oneri di allegazione con riferimento al repêchage si vedano, ex multis: Cass. n. 5592 del 2016 e Cass. n. 12101 del 2016 pubblicate entrambe in Riv. giur. lav., 2016, 3, II, 302, con nota di L. Monterossi, “Licenziamento per giustificato motivo e repêchage: nessun onere di allegazione”; Cass. 22 marzo 2016, n. 5592 è stata pubblicata anche in Giur. it., 2016, 1666 e ss., con nota di M. Persiani, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage nonché in Lav. giur., 2016, 8-9, 794 e ss., con nota di C. Romeo, L’epilogo in tema di repêchage e onere probatorio; cfr. anche Cass. n. 13379, 26 maggio 2017, con nota di M. Salvagni, Repêchage in mansioni inferiori dopo il Jobs Act: obbligo o facoltà?, in Riv. giur. lav., 2017, 2, II, 577 e ss.; in merito, si segnala ancora: Cass. n. 160 del 2017; Cass. n. 9869 del 2017; Cass. n. 24882 del 2017; Cass. n. 27792 del 2017; nonché C. App. Roma, 1° febbraio 2018, n. 469, con nota di M. Salvagni, Violazione del repêchage e reintegra: l’obbligo di ricollocazione è un elemento del fatto, in Riv. giur. lav., n. 3, II, 359. In dottrina, per una completa ricostruzione della fattispecie del repêchage, sia consentito rimandare a M. Salvagni, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e l’obbligo di repêchage anche in mansioni inferiori nell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale prima o dopo il Jobs Act, in LPO, 2017, n. 5-6, 254 e ss., nonché sempre a M. Salvagni, La Cassazione in funzione nomofilattica: l’obbligo di repêchage fa parte del fatto e la sua violazione può comportare l’applicazione della tutela reale, in LPO, 2018, 7-8, 481.

[27] Cass. n. 6567/2018.

[28] In termini si vedano, tra le tante: C. App. Milano, n. 301/2021; Trib. Mantova, sent. n. 136/2021 e Trib. Verona, ord. 22.03.2021.

[29]  Al riguardo, si vedano: Trib. Verona, 22 marzo 2021; Trib. Mantova, 22 settembre 2021 e Trib. di Milano, 28 ottobre 2016.

[30] In tal senso, da ultimo, C. App. Milano, 16 febbraio 2023. Sulla stessa falsariga di ragionamento anche Trib. Milano, 2 maggio 2022, ove tale elemento presuntivo è ricavabile dalle assenze prolungate che la lavoratrice era costretta ad effettuare in ragione delle proprie patologie da oltre 10 anni essendo affetta da un flebolinfodema all’arto inferiore destro.

[31] In merito, cfr. C. App. Torino, n. 604/2021; C. App. Roma, n. 2589/2020; Trib. Palermo, n. 2305/2021.

[32]  In tali termini, si veda Trib. Bologna, 9 maggio 2022 e Trib. Santa Maria Capua Vetere, 11 agosto 2019, n. 20012.

[33] Sul punto, si segnalano, sempre: C. App. Torino, n. 604/2021; C. App. Roma, n. 2589/2020; Trib. Palermo, n. 2305/2021.

[34] Trib. Milano, n. 314/2021.

[35] Trib. Roma, sent. n. 8865/2021.

[36] Trib. Pavia, ord. 8 marzo 2022, secondo cui, a completamento del proprio ragionamento, con riferimento alla configurazione di una discriminazione diretta e indiretta, afferma che “in sostanza, mentre nel primo caso ci si duole del trattamento differenziato, nel secondo ci si duole della mancanza di opportuni trattamenti differenziati, da garantirsi alla stregua di un necessario accorgimento. Ed anche in quest’ultimo caso, come detto, deve ritenersi che la notorietà del fattore discriminante sia un presupposto ontologico della fattispecie; viceversa, non sarebbe in alcun modo esigibile la disapplicazione del generale trattamento neutro in vista dell’applicazione di una regola diversa ed utile a garantire una parità fra i diversi soggetti”.

[37] Cfr. sempre Trib. Pavia, ord. 8 marzo 2022.

[38] In merito, si veda ancora il precedente arresto sempre del Trib. Pavia, ord. 8 marzo 2020.

 

[39] Cass. 19 marzo 2018, n. 6798, con nota di M. Salvagni, Licenziamento per sopravvenuta inidoneità psicofisica: reintegrazione per mancata adozione di accomodamenti ragionevoli e per violazione del repêchage, in Riv. giur. lav., 2019, n. 2, II, 244 e ss. Su tale arresto della Suprema Corte, si veda anche P. Aimo, Inidoneità sopravvenuta alla mansione e licenziamento: l’obbligo di accomodamenti ragionevoli preso sul serio dalla Cassazione, in Riv. it. dir. lav., 2019, 1, II, 161 e ss., nonché Cass. 12 gennaio 2017, n. 618, in Lav. giur., 2017, n. 4, 326.

[40] Cfr. Cass. 22 ottobre 2018, n.  2675, con nota di M. Salvagni, op. cit., nonché Cass. 12.12.2018, n. 32158, in De Jure.

[41] Ancora sul punto, Cass. n. 2675/2018.

[42] Sempre Cass. n. 2765/2018.

[43] In tema, si vedano: Trib. Roma, 8 maggio 2018, est. Orrù; Trib. Ivrea, 6 luglio 2018, est. Buffoni; Trib. Asti, 23 luglio 2018, est. Antoci, tutte in Riv. giur. lav., 2019, n. 2, II, 283 e ss.

[44] In merito, ex multis, Trib. Milano, sent. n. 2875/2016. Nello stesso senso, Trib. Milano, sentenza n. 487/2020, nonché C. App. Roma, sentenza n. 2589/2020. In senso contrario, C. App. Torino, sentenza n. 604/2021 e C. App. Palermo, sentenza n. 111/2022.

[45] Sulla riduzione dell’orario di lavoro, quale accomodamento ragionevole, si veda anche Trib. Ivrea, 6 luglio 2018.

[46] Trib. Pisa, 16 aprile 2015, nonché Trib. Roma, 8 maggio 2018.

[47] Trib. Ivrea, 6 luglio 2018.

[48] Trib. Lodi, 9 febbraio 2023.

[49] Cfr. in senso conforme: Cass. 26 ottobre 2018, n. 27243, in Giur. lav., 2019, 93; Cass. 5 aprile 2018, n. 8419, in Gius. lav., 2018, 19, 54; Cass. 21 marzo 2018, n. 7065, in Giur. lav., 2018, 18, 63; Cass. 14 dicembre 2018, n. 3616, in Lav. giur., 2018, n. 6, 634, che corroborano tutte il principio secondo cui il recesso non è giustificabile per effetto della sola ineseguibilità della prestazione.

[50] Sul punto, si veda Cass. 1° luglio 2016, n. 13511, in De Jure.

[51] Fautore della tesi dell’obbligo di repêchage in ragione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo come extrema ratio è F. Mancini, in Commento all’art. 18, Commentario allo Statuto dei diritti dei lavoratori, Bologna, 1972. Secondo altra dottrina, nella specie N. Napoli, La stabilità reale del rapporto di lavoro, Milano, 1980, 312 e ss., tale fattispecie deriva dal potere di modifica unilaterale delle mansioni del lavoratore di cui all’articolo 2103 c.c. Altro autore, V. Zoli, I licenziamenti per ragioni organizzative: unicità della causale e sindacato giudiziale, in Arg. dir. lav., 2008, 1, 17 e ss. ritiene invece che il presupposto della ricollocazione del dipendente sia rinvenibile nei principi di correttezza e buona fede a cui devono ispirarsi le parti nell’esecuzione del contratto. In giurisprudenza, quale prima sentenza che collega eziologicamente il repêchage alla necessaria giustificazione del recesso, si veda Cass. 12 dicembre 1972, n. 3578, in Il Foro it., 1973, 96, 605 e ss., secondo cui per la legittimità del licenziamento individuale del lavoratore “non basta che la riduzione sia imposta da esigenze di ristrutturazione dell’azienda, ma deve il datore di lavoro provare di non essere in grado di utilizzare, magari adibendo a diverse mansioni, il lavoratore, destinato al licenziamento”.

[52] In tal senso, S. Giubboni, Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione dopo la legge Fornero e il Jobs Act, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona.IT, 2015, n. 261, 7 e 12.