Il procedimento disciplinare ex art 7 St. lav. e le garanzie a tutela del diritto di difesa del lavoratore nell’esegesi giurisprudenziale e dottrinale

Errata corrige 02 OTT 2023

Articolo di Michelangelo Salvagni.

pubblicato su Lavoro e Previdenza Oggi n. 11-12/2020. VaI alla rivista.

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Sommario: 1. Considerazioni preliminari. - 2. Le garanzie del procedimento disciplinare nell’interpretazione della Corte costituzionale. - 3. Obblighi di diligenza e fedeltà e proporzionalità della sanzione quale limite interno al potere disciplinare. – 4. Sulla specificità e immodificabilità della contestazione disciplinare. – 5. Sulla tempestività e immediatezza. – 6. Considerazioni conclusive.

 

Considerazioni preliminari.

Il procedimento disciplinare e le garanzie previste dall’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori rappresentano ancora oggi, a cinquant’anni di distanza dall’emanazione dello stesso, una delle maggiori conquiste per la tutela del diritto di difesa del lavoratore contro l’uso distorto del potere disciplinare da parte del datore di lavoro[1]. Nonostante la mezza età, la norma in parola risulta viva e attuale e per nulla in obsolescenza anche in ragione di una continua opera di aggiornamento effettuata dalla giurisprudenza, in particolare da quella costituzionale, nonché dalla dottrina.

Il filo rosso che orienta gli interpreti nella valutazione della legittimità della condotta datoriale nell’esercizio del potere sanzionatorio è sempre il medesimo: il rispetto delle garanzie del diritto di difesa del prestatore per quanto riguarda sia la contestazione sia il relativo procedimento. Ciò affinché la sanzione, sia essa conservativa o espulsiva, non risulti arbitraria o illegittima rispetto ad alcuni canoni che, ormai, sono elementi acquisiti e insopprimibili per la considerazione di un corretto esercizio di tale potere. Pertanto, l’oggetto principale di interpretazione sia per la dottrina sia per la giurisprudenza è l’individuazione del contenuto imprescindibile della contestazione ai fini della sua legittimità. In un certo senso, la sua “tipizzazione” genetica con riferimento ai requisiti essenziali che la devono connotare e, in particolare: sufficienza e non genericità nella descrizione dell’addebito, immutabilità e tempestività. La presente trattazione tenterà di delineare come, nel tempo, la giurisprudenza e la dottrina abbiano definito i contorni fondamentali delle garanzie del diritto di difesa del lavoratore con riferimento all’esercizio del potere disciplinare del datore.

 

Le garanzie del procedimento disciplinare nell’interpretazione della Corte costituzionale.

In materia di sanzioni disciplinari, la giurisprudenza costituzionale ha svolto un ruolo fondamentale nell’esegesi dell’art. 7 dello St. lav.. A tal proposito, occorre richiamare i principi espressi dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 1982[2] secondo cui “l’art. 7, commi secondo e terzo, poi, raccoglie il ben noto sviluppo – ad un tempo socio-politico e giuridico formale – che ha indotto ad esigere come essenziale presupposto delle sanzioni disciplinari lo svolgersi di un procedimento, di quella forma cioè di produzione dell’atto che rinviene il suo marchio distintivo nel rispetto della regola del contraddittorio: audiatur – lo si ripete – et altera pars...”. La Consulta, successivamente, con la sentenza del 14 ottobre 1988, n. 971[3], con riferimento alla tematica delle cosiddette “sanzioni automatiche” previste nel rapporto di lavoro per i dipendenti civili dello Stato, aveva stabilito che il procedimento disciplinare deve ritenersi la “naturale sede di valutazione” dell’infrazione, dichiarando appunto l’illegittimità costituzionale delle norme che non prevedevano lo svolgimento dello stesso[4]. Conseguentemente, secondo il consolidato orientamento della Consulta, il nodo centrale delle garanzie del diritto di difesa del prestatore è il rispetto del principio del contraddittorio che deve esprimersi mediante l’osservanza di regole rigorose[5]. Tale orientamento è stato confermato anche dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 150 del 2020[6], ove i giudici hanno posto l’accento sulla fondamentale rilevanza del procedimento disciplinare ex art. 7 St. lav. che si “estrinseca nel rispetto di precise regole e si snoda attraverso fasi successive” come: la preventiva contestazione, l’obbligo di motivazione, l’immutabilità della stessa e l’audizione orale. Garanzie queste che, a parere della Consulta, non rappresentano “vuote prescrizioni formali” ma incidono sull'effettività del diritto di difesa. I vincoli di forma e di procedura, infatti, sono volti ad ampliare il perimetro delle tutele posto a protezione del lavoratore. A completamento di tale assunto, i giudici della Consulta affermano che “l'obbligo di motivazione e la regola del contraddittorio sono riconducibili al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli artt. 4 e 35 Cost., che impone al legislatore di circondare di ‘doverose garanzie’ e di ‘opportuni temperamenti’ il recesso del datore di lavoro. (…).[7]”. Proprio in ragione del fatto che le previsioni stabilite dall’art. 7 St. lav. rappresentano il presupposto della legittimità delle sanzioni, la dottrina ha parlato di “procedimentalizzazione” del potere disciplinare, nel senso di una serie di adempimenti, diritti e oneri tesi al rispetto di regole ben delineate e indefettibili per un corretto esercizio dello stesso[8].

 

Obblighi di diligenza e fedeltà e proporzionalità della sanzione quale limite interno al potere disciplinare.

Il rapporto di lavoro subordinato si fonda su un sinallagma contrattuale che impone ad entrambe le parti di adempiere agli obblighi sottostanti. In particolare, il prestatore deve improntare la propria condotta al rispetto delle disposizioni del datore di lavoro come rinvenibili nelle direttive, nel regolamento aziendale e nelle disposizioni sull’organizzazione del lavoro. In generale, la linea di demarcazione di un contegno corretto del lavoratore trova i propri cardini negli obblighi di diligenza e fedeltà ex artt. 2104 e 2105 c.c.. Secondo la Suprema Corte, la valutazione del comportamento del lavoratore, in riferimento a tali obblighi, deve tenere in considerazione sia il disvalore ambientale che la condotta stessa assume anche nei confronti degli altri dipendenti, sia la funzione di dissuasione della sanzione e la congruità della stessa contro il ripetersi di mancanze dello stesso tipo[9].

Occorre quindi comprendere quali sia il tipo di condotta che deve tenere il dipendente in funzione dei suddetti obblighi. Per quanto attiene alla diligenza, la stessa riguarda le modalità di esecuzione della prestazione e rileva ai fini della valutazione del corretto adempimento della stessa da parte del dipendente[10]. La diligenza, a parere della dottrina, rappresenta un “modello di condotta che il debitore deve adottare al fine di soddisfare il diritto di credito[11]. Secondo la Corte di cassazione, “il dovere di diligenza del prestatore di lavoro di cui all’articolo 2104 c.c., trova, il proprio centro e il proprio essenziale limite nella prestazione contrattualmente dovuta, la natura di questa e l’interesse dell’impresa[12]”. Nella valutazione del comportamento del lavoratore nello svolgimento della propria prestazione, non può sottacersi anche il valore cogente dell’obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c.. In merito, tuttavia, il prevalente orientamento della dottrina sostiene che la norma in parola non può interpretarsi nel senso che il prestatore debba porre in essere tutte le condotte necessarie alla realizzazione dell’interesse del datore (creditore), configurandosi, piuttosto, come una sorta di clausola generale di correttezza nell’adempimento della prestazione[13].

La giurisprudenza, invece, ha dato un’accezione più ampia delle condotte collegate all’obbligo di fedeltà che vanno oltre a quelle indicate specificatamente nella suddetta norma in quanto ciò che rileva maggiormente è che le stesse non “siano in contrasto con i doveri connessi con l’inserimento del dipendente nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa[14].

L’inosservanza delle disposizioni aziendali o un comportamento contrario ai doveri di diligenza e fedeltà può determinare l’applicazione da parte del datore di lavoro di sanzioni disciplinari.

L’articolo 7, St. lav. ha introdotto dei limiti “esterni” al potere disciplinare che deve essere esercitato secondo le condizioni ivi stabilite trovando, peraltro, un altro limite, invece “interno”, nel requisito della proporzionalità della sanzione ex art. 2106 c.c., la cui applicazione deve avvenire “secondo la gravità dell’infrazione”. La proporzionalità, secondo la dottrina, assurge “a requisito di legittimità dell’atto datoriale che viene direttamente tipizzato dalla legge come norma imperativa[15]. Pertanto, il datore di lavoro nell’irrogare la sanzione, affinché la punizione sia adeguata, deve tener conto del tipo di condotta commessa dal prestatore[16]. Dovendosi sempre considerare che la discrezionalità del datore nel graduare il tipo di sanzione non può mai assurgere ad arbitrarietà; secondo la dottrina, infatti, l’art. 2106 c.c. assicura che le sanzioni operino in una logica conservativa del rapporto di lavoro[17]; il datore, infatti, deve sempre provare le motivazioni che hanno determinato il proprio giudizio di gravità su una certa condotta del dipendente[18].

 

Sulla specificità e immodificabilità della contestazione disciplinare.

Il corollario di un corretto esercizio del potere sanzionatorio è la specificità della contestazione. Alla luce delle argomentazioni espresse dai giudici della Consulta, da ultimo le sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020, la formulazione di una contestazione effettuata in maniera generica appare contraria anche ai doveri di correttezza e buona fede ex art. 1175 e 1375 c.c., determinando un affievolimento delle garanzie e del diritto di difesa endoprocedimentale[19]. La giurisprudenza ha stabilito, in virtù del principio di cristallizzazione della contestazione, con orientamento ormai consolidato, che la preventiva comunicazione dell’infrazione disciplinare ha quale obiettivo quello di garantire al lavoratore di prendere posizione sui fatti che gli vengono imputati[20]. Secondo la Consulta, infatti, “l’art. 7 comma primo ha sancito il principio fondamentale, per il quale chi è perseguito per una infrazione, deve essere posto in grado di conoscere l’infrazione stessa e la sanzione[21]. L’addebito deve necessariamente individuare, in maniera circostanziata, il comportamento ritenuto suscettibile di sanzione, contenendo un’esposizione “dei dati e degli aspetti essenziali del fatto materiale”, affinché lo stesso prestatore possa difendersi concretamente sui fatti addotti[22]. Descrizione, questa, che non va intesa rigidamente ma che, tuttavia, deve permettere al dipendente di individuare gli elementi necessari ed essenziali del fatto materiale addebitatogli[23]. Una contestazione generica o incompleta condiziona anche la possibilità di compiere una verifica effettiva da parte del giudice circa la sussistenza del fatto contestato o sulla sua riconducibilità alle statuizioni del contratto collettivo e del regolamento disciplinare[24].

Al principio delle specificità si accompagna anche quello della immutabilità della contestazione; su tale ultimo requisito, tuttavia, occorre evidenziare che vi sono alcune differenziazioni interpretative. In giurisprudenza è principio consolidato quello della immodificabilità del fatto imputato al lavoratore in quanto i comportamenti addebitati al lavoratore devono corrispondere esattamente a quelli posti a sostegno del recesso[25]. Il giudice può valutare fatti diversi ma solo quando i medesimi siano strettamente connessi all’addebito disciplinare. La ratio di tale principio risiede nel garantire al lavoratore il diritto di difesa, come previsto dal procedimento disciplinare ex art. 7, L. n. 300 del 1970 e dall’art 24 Cost., che risulterebbe violato nel caso in cui il lavoratore fosse licenziato per episodi diversi da quelli oggetto della contestazione e sui quali non ha preso posizione. Ed infatti, appaiono violate le regole ex art. 7 dello St. lav. quando la sanzione sia irrogata per una ragione diversa da quella contenuta nella contestazione. Ciò, tuttavia, si verifica solo se vi sia stata una mutazione del fatto in questo caso “inteso con riferimento alle modalità dell’episodio e al complesso degli elementi di fatto connessi all’azione del dipendente”.[26] Secondo la Suprema Corte, si realizza una modifica dell’addebito allorché “il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa[27].

Il fatto può essere ricondotto ad una differente ipotesi disciplinare, in sostanza un giudizio diverso della fattispecie concreta, a condizione però di non far valere circostanze nuove o, comunque, evidenziate solo nel corso della causa[28], che comportino una valutazione non conforme alla condotta oggetto di addebito[29]. Tuttavia, la Cassazione ha specificato in merito che non viola l’art. 7 St. lav. la deduzione di fatti nuovi, ma marginali, rispetto alla condotta contestata[30].

 

 

Sulla tempestività e immediatezza.

In tema di tempestività della contestazione, occorre fare riferimento all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale che ha fissato alcuni principi per limitare temporalmente l’esercizio del potere disciplinare. La Suprema Corte, con indirizzo ormai consolidato che ha trovato conferma anche nell’arresto delle Sezioni Unite del 27 dicembre 2017, n. 30985[31], ha chiarito che l’immediatezza dell’addebito persegue le seguenti finalità: consentire al lavoratore una difesa effettiva sui fatti oggetto di infrazione entro un ragionevole lasso di tempo dall’accaduto, anche per metterlo in condizione di approntare la documentazione necessaria ad opporsi in modo efficace all’addebito; assicurare il rispetto degli obblighi di correttezza e buona fede a cui deve ispirarsi ogni rapporto contrattuale[32]; tutelare il legittimo affidamento del prestatore il quale confida che la mancata contestazione di fatti risalenti nel tempo equivalga ad una sorta di rinuncia implicita, per fatti concludenti, all’esercizio del potere disciplinare che, infatti, ha carattere facoltativo[33]. Sul punto, la dottrina ha qualificato in modi diversi tale “disinteresse” del datore di lavoro configurandolo, talvolta, in termini di rinuncia o acquiescenza, talaltra, come inerzia o tolleranza, concetti questi tuttavia non propriamente fungibili[34]. In ogni caso, ciò che risulta evidente, sia in giurisprudenza sia in dottrina, è che se il datore intende “soprassedere” su un comportamento del dipendente per un notevole lasso di tempo, nonostante la consapevolezza della infrazione commessa, quest’ultimo può legittimamente ritenere che l’illecito non sia poi così grave. Pertanto, nel caso in cui la contestazione risulti tardiva, si configura l’illegittimità della sanzione irrogata.

A questo punto, occorre comprendere quando la contestazione possa definirsi tempestiva. Ossia, se debba considerarsi a tal fine l’astratta conoscibilità del fatto o, invece, l’effettiva conoscenza dello stesso da parte del datore. L’orientamento giurisprudenziale maggiormente consolidato ritiene che il principio della immediatezza della contestazione dell’addebito debba essere inteso “in senso relativo[35], in quanto ciò che deve valutarsi è il caso concreto, ove assume particolare rilievo “la complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, con un intervallo di tempo necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti contestati, così come per la valutazione delle giustificazioni fornite dal dipendente[36]”. Con riferimento sempre al momento che determina la possibilità di elevare l’addebito, ciò che rileva è l’avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non l’astratta percettibilità o conoscibilità della stessa[37]. Sempre a parere della Corte di cassazione, è onere del datore di lavoro fornire la prova del momento in cui ha acquisito la piena conoscenza dei fatti da addebitare al prestatore[38]. Qualora, poi, le circostanze di rilievo disciplinare vengano a comporre un’unica condotta ed esigano una valutazione unitaria, la contestazione dell’infrazione può seguire l’ultimo di questi fatti anche a una certa distanza temporale da quelli precedenti[39]. Peraltro, la Suprema Corte ha anche specificato che non esiste in capo al datore di lavoro un vero e proprio obbligo di controllo assiduo del dipendente e che, quindi, la tempestività del provvedimento disciplinare deve essere valutata in relazione all’effettiva conoscenza del comportamento inadempiente del lavoratore[40]. Tuttavia, sempre a parere della giurisprudenza, l’applicazione in senso relativo del principio di immediatezza non può svuotare di efficacia il principio medesimo in quanto tra i due interessi contrapposti, ovvero “quello del datore di lavoro a prolungare l’indagine in assenza di una obbiettiva ragione e il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa, prevalga la posizione di quest’ultimo, tutelata ex lege, senza che abbia valore giustificativo, a tal fine, la complessità dell’organizzazione aziendale[41]. Ed infatti, se il datore di lavoro ritarda la formulazione della contestazione in maniera pretestuosa e contraria ai doveri di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c., si determina un indebolimento delle garanzie per il dipendente incolpato di poter espletare appieno una difesa effettiva nell’ambito del procedimento disciplinare[42].

 

Considerazioni conclusive.Alla luce delle argomentazioni sin qui svolte, l’art. 7 St. lav. è ancora oggi una norma cardine nel contesto delle garanzie approntate dall’ordinamento a tutela della difesa del lavoratore, ove la procedimentalizzazione dell’esercizio del potere disciplinare, mediante fasi e adempimenti rigorosamente cadenzati, assicura un controllo di legittimità della condotta datoriale. In tal senso, dottrina e giurisprudenza hanno contribuito ad arricchire di contenuti sempre più stringenti le garanzie in materia di procedimento disciplinare mediante la valorizzazione e puntualizzazione dei principi di specificità, immutabilità e tempestività della contestazione. Con il merito di averli attualizzati al progresso e all’evoluzione della società. Tuttavia, a parere di chi scrive, si è creato un vulnus nel diritto di difesa del prestatore nell’ambito dell’applicazione delle sanzioni disciplinari e, in particolar modo, con riferimento al licenziamento disciplinare e alla tutela reale. Ed infatti, il principio di proporzionalità della sanzione ex art. 2106 c.c. risulta aver perso di valenza ed effettività a seguito della Riforma Fornero e del Jobs Act proprio con riferimento alla sanzione più grave, che è quella espulsiva. La Corte di cassazione infatti, sin dalla sentenza del 6 novembre 2014, n. 23669, con indirizzo ormai consolidato, in relazione all’art. 18, come modificato dalla L. n. 92/2012, ha affermato che nella “verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento (…) non rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità[43]. Conseguentemente, il principio di proporzionalità non può essere utilizzato dal giudice per valutare, ai fini dell’applicazione della reintegrazione, la gravità del comportamento addebitato. Tale orientamento, peraltro, è stato confermato dal legislatore nella formulazione dell’art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23 del 2015, ove è previsto che, nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento. Alla luce di tale interpretazione, il requisito della proporzionalità della sanzione ex art. 2106 c.c. appare relegato in una sorta di oblio, in un certo senso “sacrificato” al fine di non alterare i nuovi “equilibri” previsti dalle modifiche legislative in tema di accertamento del fatto contestato e reintegrazione. Proporzionalità che, invece, dovrebbe presiedere al giudizio di legittimità della condotta datoriale soprattutto in ipotesi di recesso. Un sistema che non tenga conto di tale assunto è un sistema fragile, che offre il fianco alla per

[1] In generale sul potere disciplinare si veda in dottrina: M. Persiani, Preliminari al potere disciplinare, in M. Martone (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, I, Padova, 2011, 769 e ss.; S. Mainardi, Il potere disciplinare del datore di lavoro, 2012, Torino, 5 e ss.; L. Montuschi, Sub art. 7, in U. Romagnoli, L. Montuschi, G. Ghezzi, G. F. Mancini, Statuto dei diritti dei lavoratori, Bologna-Roma, 1979, 50 e ss.; L. Montuschi, Potere disciplinare e rapporto di lavoro, Milano, 1973, 11 e ss.; M. Papaleoni, Il procedimento disciplinare nei confronti del lavoratore, Napoli, 1996, 80 e ss.; M. Papaleoni, Il potere disciplinare nella giurisprudenza, in Mass. giur. lav., 1979, 496; C. Assanti, Le sanzioni disciplinari nel rapporto di lavoro, Milano, 1963, 35 e ss.

[2] C. Cost. 30 novembre 1982, n. 204, in Giust. civ., 1983, I, 15, con nota di G. Pera, Il licenziamento come sanzione disciplinare.

[3] In Il Foro it., 1989, I, 22.

[4] In tal senso, si vedano C. Cost. 2 febbraio 1990, n. 40, in Il Foro it., 1990, I, 335 e C. Cost. 4 aprile 1990, n. 158, in Il Foro it., 1991, I, 3284, che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che prevedevano sanzioni disciplinari automatiche.

[5] Sul punto si veda G. Amoroso e F. Centofanti, Sanzioni disciplinari, in G. Amoroso, V. Di Cerbo, A. Maresca (a cura di), Diritto del Lavoro, Lo statuto dei lavoratori e la disciplina dei licenziamenti, II, Milano, 191.

[6] Cfr. C. Cost. 16 luglio 2020, n. 150, in Il Foro it., 2020, I, 2982, con nota di S. Giubboni, La nuova sentenza della Corte costituzionale sul contratto di lavoro a tutele crescenti; in Dir. prat. lav., 2020, 36, 2195.

[7] Sul punto, cfr. anche C. Cost. 9 giugno 1965, n. 45, in Il Foro it., 1965, I, 1118 (punto 4. del Considerato in diritto), nonché C. Cost. 26 settembre, 2018, n. 194, in Il Foro it., 2019, I, 70, con nota di S. Giubboni, Il licenziamento nel contratto di lavoro a tutele crescenti dopo la sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale; in Riv. it. dir. lav., 2018, II, 1031, con nota di P. Ichino, Il rapporto tra il danno prodotto dal licenziamento e l’indennizzo nella sentenza della Corte costituzionale, nonché F. Carinci, La Corte costituzionale ridisegna le tutele del licenziamento ingiustificato nel Jobs act: una pronuncia destinata ad avere un impatto di sistema; in Lav. giur., 2019, 153, con nota di C. Cester, Il Jobs act sotto la scure della Corte costituzionale: tutto da rifare?; in Arg. dir. lav., 2018, 1518, con nota di M. Martone, Calcolabilità del diritto e discrezionalità del giudice: a proposito della illegittimità costituzionale del Jobs act; id., 2019, 2, 15, con nota di D. Dalfino, L’incostituzionalità del contratto a tutele crescenti: gli effetti sui giudizi pendenti; in Dir. lav. merc., 2018, 633, con commento di R. De Luca Tamajo, La sentenza costituzionale 194 del 2018 sulla quantificazione dell’indennizzo per licenziamento illegittimo; in Giur. it., 2018, 2710, con nota di R. Romeo, La Consulta e la rivoluzione sulla misura dell’indennità̀ per licenziamento illegittimo; in Riv. giur. lav., 2019, II, 23, con nota S. Speziale, La sentenza della Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti.

[8] L. Spagnuolo Vigorita, G. Ferraro, Sub. art. 7, Commentario dello Statuto dei lavoratori, Milano, 1975, 173.

[9] Cfr. Cass. 23 ottobre 2006, n. 22708, in Riv. it. dir. lav., 2007, 464 e ss. con note di R. Muggia, Quando il licenziamento disciplinare può e quando non deve essere usato ai fini di dissuasione nei confronti di altri dipendenti, e di G. Cannati, La funzione dissuasiva intrinsecamente propria del provvedimento disciplinare e la sua rilevanza nella valutazione della congruità tra sanzione e mancanza.

[10] Sull’obbligo di diligenza si veda C. Cester, Diligenza e obbedienza del prestatore di lavoro, art. 2104, in P. Schlesinger (a cura di), Codice Civile, Commentario, Milano, 2007, 9 e ss., nonché F. Carinci, R. De Luca Tamajo, T. Treu, Diritto del lavoro, 2, Torino, 2016, 120 per cui la diligenza caratterizza il dovere del prestatore di lavoro.

[11] A. Viscomi, Diligenza e prestazione di lavoro, Torino, 1997, 110. In tal senso si veda anche: A. Falcone, La diligenza come regola dell’adempimento contrattuale del lavoratore, in Lav. giur., 1997, 8, 674; G. Girardi, L’obbligo di diligenza del prestatore di lavoro, in Lavoro e prev. oggi, 1997, 1782.

[12] Cass. 2 febbraio 2016, n. 1978, in Giur. it., 2016, 654, con nota di G. Castellani, Diligenza e fedeltà del lavoratore.

[13] Sul punto cfr. G. F. Mancini, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Milano, 1957, 126 e ss.; G. Suppiej, Il rapporto di lavoro (costituzione e svolgimento), Padova, 1982, 134 e ss..

[14] Cass. 4 aprile 2017, n. 8711, in DeJure, che sul punto afferma che la condotta del lavoratore non deve creare “situazioni di conflitto con le finalità gli interessi della medesima o che siano, comunque, idonee a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto”. In merito, si veda anche Cass. 6 novembre 2014, n. 25161, in Giust. civ. mass., 2014.

[15] S. Mainardi, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, in P. Schlesinger (a cura di), Commentario al codice civile, Milano, 2002, 308.

[16] In tal senso, tra le tante, si veda: Cass. 20 ottobre 2010, n. 22170, Cass. 29 marzo 2010, n. 7518; Cass. 22 giugno 2009, n. 14586. Cass. 25 maggio 2012 n. 8293; Cass. 7 aprile 2011 n. 7948, tutte inedite a quanto consta.

[17] S. Mainardi, op. cit., 27 e ss..

[18] In tal senso, Cass. 2 novembre 2005, n. 21213, in Arg. dir. lav., 2006, II, 906 e ss., con nota di M. Garattoni, La proporzionalità del licenziamento disciplinare e la nozione di giusta causa tra norme elastiche e clausole generali.

[19] Sul principio che il datore di lavoro deve comportarsi secondo le regole di correttezza e buona fede ex artt. 1176 e 1375 c.c. si rimanda a Cass. 13 marzo 2013, n. 6337, in Giust. civ. mass., 2013. In dottrina, sulla valenza marginale degli obblighi di correttezza e buona fede come clausole generali nel diritto del lavoro in quanto la materia è già tutelata da norme inderogabili, si veda M. Persiani, Considerazioni sul controllo della buona fede dei poteri del datore di lavoro, in Dir. lav., 1995, I, 138.

[20] In giurisprudenza, sul principio di cristallizzazione da interpretarsi in maniera rigorosa con riferimento alla necessaria completezza della contestazione in ordine al tipo di condotta posta in essere dal lavoratore, ai tempi e alle regole ritenute violate si vedano ex multis: Cass. 8 ottobre 2012, n. 17086, in Guida al dir., 2013, 1, 66; Cass. 22 febbraio 2008, n. 4674, in D&L, 2008; Cass. 28 marzo 1996, n. 2791, in Riv. it. dir. lav., 1997, II, 58; Cass. 27 febbraio 1995, n. 2238, in Riv. it. dir. lav., 1996, II, 119. Nel senso, invece, di un indirizzo più “elastico” sulla specificità della contestazione secondo cui è sufficiente che l’addebito contenga quantomeno i presupposti essenziali per individuare il fatto si veda Cass. 15 maggio 2014, n. 10662, in Giust. civ. mass., 2014.

[21] C. Cost., 30 novembre 1982, n. 204, cit.

[22] In tal senso, si veda Cass. 20 marzo 2018, n. 6889, in Nuova giur. civ., 2018, 1252 e ss., con nota di S. Rizzato, Molestie alle colleghe di lavoro: quando la contestazione disciplinare è specifica?; Cass. 12 gennaio 2017, n. 619, inedita; Cass. 08 aprile 2016, n. 6898, inedita; nonché Cass. 15 ottobre 2007, n. 21546, in Notiz. giur. lav., 2008, 197; Cass. 22 aprile 2000, n. 5308, in Il Foro it., Rep. 2000, voce Lavoro (rapporto), n. 1757.

[23] Cass. 9 ottobre 2015, n. 20319, in Lav. giur., 2016, 467 e ss., con nota di A. Piovesana, nonché in Notiz. giur. lav., 2016, 43 e ss.; nonché Cass. 15 maggio 2015, n. 10662, in Riv. it. dir. lav., 2015, II, 17 e ss., con nota di G. Centamore, La specificità ex art. 7 St. lav. della contestazione disciplinare effettuata per relationem agli atti del processo penale.

[24] Sul punto si veda P. Sordi, Il nuovo rito per le controversie in materia di licenziamenti, in L. Di Paola (a cura di), La riforma del lavoro. Primi orientamenti giurisprudenziali dopo la Legge Fornero, Milano, 2013, 328.

[25] In merito, cfr. Cass. 24 luglio 2018, n. 19632, in Il Foro it., Rep. 2018, voce Lavoro (rapporto), n. 1137. In senso conforme, Cass. 28 agosto 2018, n. 21265, inedita; Cass. 25 marzo 2019, n. 8293, in Il Foro it., Rep. 2019, voce Lavoro (rapporto), n. 1575; Cass. 14 dicembre 2016, n. 25745, inedita; Cass. 21 marzo 2014, n. 6715, in Giur. it., 2015, 432; Cass. 27 febbraio 2014, n. 4724, in Il Foro it., Rep. 2014, voce Lavoro (rapporto), n. 1207; Cass. 13 febbraio 2013, n. 3532, id., Rep. 2013, voce cit., n. 129.

[26] Cass. 10 febbraio 2020, n. 3079, con nota di M. Salvagni, Immodificabilità della contestazione disciplinare e vizio di ultra petizione, in Lavoro e prev. oggi, 2020, 9-10, 642; si veda anche Cass. 7 ottobre 2015, n. 20121, in Il Foro it., Rep. 2016, voce cit., n. 110; Cass. 10 settembre 2013, n. 20719, id., Rep. 2013, voce cit., n. 1281.

[27] Si veda Cass. 27 febbraio 2015, n. 2935, inedita. Sul punto cfr., anche, Cass. 17 settembre 2008, n. 23739, in Lav. giur., 2009, 161, con nota di G. Golisano; Cass. 15 ottobre 2007, n. 21546, cit.

[28] Sulla immodificabilità della contestazione con riferimento alla impossibilità di prendere in considerazione integrazioni emerse solo in sede giudiziale si vedano: Cass. 5 luglio 2018, n. 17676, in Il Foro it., Rep. 2018, voce cit., 1142, nonché Cass. 28 agosto 2018, n. 21265 e Cass. 25 marzo 2019, n. 8293, entrambe inedite.

[29] Cfr. Cass. 22 marzo 2011, n. 6499, in Riv. it. dir. lav., 2011, II, 1117 e ss..

[30] Cass. 13 ottobre 2020, n. 22076, in wikilabour.it, 2020.

[31] In Corr. giur., 2018, 5, 598, con nota di L. Lama, Vizio di intempestività della contestazione disciplinare: sanzionabile il successivo recesso con la sola tutela indennitaria. In dottrina, si veda C. Pisani, Licenziamento disciplinare - tardività del licenziamento disciplinare: le Sezioni unite escludono la reintegrazione, in Giur. it., 2018, 2, 409, nonché P. Ghinoy, Le conseguenze sanzionatorie della violazione del principio di tempestività della contestazione disciplinare, alla luce dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, in Lav. dir. Europa, 2018. 2.

[32] In merito, Cass. 4 febbraio 2015, n. 2021, in Giur. it., 2015, 5, 1991, con nota di E. Rocchini, Procedimento disciplinare e immodificabilità addebito – Immodificabilità e immediatezza dell’addebito e diritto di difesa del lavoratore, secondo cui “la regola dell’immediatezza rappresenta un corollario del principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto ed un criterio di verifica dell’uso non distorto del potere disciplinare rispetto alle finalità per le quali esso è stato attribuito al datore di lavoro”.

[33] In tal senso, Cass. 27 giugno 2013, n. 16227, in Lav. giur. 2013, 954.

[34] Con riferimento al legittimo affidamento del lavoratore che il datore possa aver rinunciato o dato acquiescenza all’infrazione, si veda C. Pisani, Tardività-ingiustificatezza e tardività-vizio procedimentale del licenziamento disciplinare, in Mass. giur. lav., 2014, 289 ss.. Cfr. anche G. Garullo, Il valore presuntivo del principio di immediatezza della contestazione disciplinare, in Riv. it. dir. lav., 2000, II, 496 e ss.. Sul concetto di tolleranza della condotta del dipendente che non deve interpretarsi quale acquiescenza e non preclude la possibilità di comminare sanzioni per illeciti successivi si veda S. Mainardi, op. cit., 317. Su una diversità dei concetti di tolleranza, inerzia e acquiescenza si veda S. Patti, Il rilievo della tolleranza nel rapporto di lavoro, in Dir. lav., 1977, 405 e ss.. Invece, sulla tolleranza del datore verso condotte sanzionabili che comporta acquiescenza in virtù dei principi di tempestività, di correttezza e buona fede, precludendo l’irrogazione della sanzione, cfr. M. Paulli, in D&L, 2002, 988, La tolleranza di condotte sanzionabili determina acquiescenza.

[35] Sul principio di immediatezza della contestazione, secondo un ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale, appare pacifico che lo stesso debba intendersi in “senso relativo”. Sul punto, si veda, oltre alla già citata Cass. 23 gennaio 2015, n. 1247, inedita, anche Cass. 21 marzo 2014, n. 6715, in Il Foro it., Rep. 2014, voce cit., nn. 877 e 878; Cass. 27 febbraio 2014, n. 4724, cit.; Cass. 13 febbraio 2013, n. 3532, cit.; Cass. 8 febbraio 2013, n. 3058, in Riv. giur. lav., 2014, 1, II, 78, con nota di S. Magnifico, Immediatezza della contestazione e diritto di difesa.

[36] Sul punto, cfr. Cass. 14 maggio 2015, n. 9903, inedita; in senso conforme, si vedano, anche, Cass. 15 giugno 2016, n. 12337, in Guida al lav., 2016, 29; Cass. 7 ottobre 2015, n. 20121, in Il Foro it., Rep. 2015, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 110; Cass. 21 marzo 2014, n. 6715, in Giur. it., 2015, 2, 433; Cass. 11 settembre 2013, n. 20823, inedita; Cass. 10 settembre 2013, n. 20719, in Il Foro it., Rep. 2015, voce Lavoro (rapporto), n. 1281.

[37] Sulla tempestività in relazione alla conoscenza effettiva del fatto, cfr. Cass. 19 maggio 2016, n. 10356, in D&G, 2016, 24, 2. In senso conforme, tra le tante, v. Cass. 7 novembre 2013, n. 25070; Cass. 11 settembre 2013, n. 20823, entrambe cit.; Cass. 17 settembre 2008, n. 23739, cit.; Cass. 5 ottobre 2007, n. 21546, cit. In dottrina, si veda, C. Pisani, Sul principio di tempestività del licenziamento disciplinare, in Mass. giur. lav., 2008, 148 e ss..

[38] A riguardo, cfr.: Cass. 23 gennaio 2015 n. 1247, inedita; Cass. 7 novembre 2013, n. 25070, in Guida al lav., 2013, 50, 33; Cass. 15 ottobre 2007, n. 21546, inedita.

[39] Cfr. Cass. 13 dicembre 2010, n. 25136, in Riv. it. dir. lav. 2012, II, con nota di L. Lazzeroni, Il parametro dell’immediatezza della contestazione di addebito, 79.

[40] In tal senso, Cass. 17 maggio 2015, n. 10069, in Giur. it., 2016, 12, 2694, con nota di A. Delogu, Licenziamento disciplinare e potere di controllo-Fiducia nel lavoratore e potere di controllo: la tempestività della reazione disciplinare.

[41] In tal senso, cfr. Trib. Milano, 22 agosto 2019, n. 1931, est. Ravazzoni, in wikilabour.it, 2020.

[42] Cfr. Cass. 27 dicembre 2017, n. 30985, inedita.

[43] Pubblicata rispettivamente in Mass. giur. lav., 2014, 874, nonché in Il Foro it., 2014, I, 3418, con nota di M. De Luca, Il fatto nella riforma della tutela reale contro i licenziamenti illegittimi: note minime sulla prima sentenza in materia della Corte di Cassazione. Tale indirizzo, con riferimento alla irrilevanza del giudizio di proporzionalità, è stato successivamente confermato anche da Cass. 18 settembre 2016, n. 18418, in Riv. giur. lav., 2017, 1, II, 51, con nota di M. Salvagni, L’irrilevanza giuridica del fatto equivale alla insussistenza della condotta. In senso conforme, si vedano anche: Cass. 13 ottobre 2015, n. 20540 e Cass. 13 ottobre 2015, n. 20545, in Riv. giur. lav., 2016, 1, II, 31, con nota di A. Federici, In tema di insussistenza del fatto nel licenziamento disciplinare.