IL LICENZIAMENTO DEL DISABILE PER SUPERAMENTO DEL COMPORTO: DISCRIMINAZIONE INDIRETTA E CLAUSOLE COLLETTIVE NULLE.

Errata corrige 12 OTT 2023

Articolo di Michelangelo Salvagni.

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CASSAZIONE, 31.03.2023, n. 9095, Pres. Raimondi, Est. Michelini, P.M. Fresa (rigetto) – A. S.p.a. (Avv.ti Limatola, Damoli, Dell’Omarino, Cantone L., Pisa E., Cantone O., Pisa G.) c. C.D. (Avv.ti Moshi, Palmieri, Assael). Conf. Corte appello Milano del 03.07.2018.

 

Rapporto di lavoro – Licenziamento – Assenze per malattia collegate all’handicap – Comporto c.d. breve – Superamento del periodo di comporto – Non computabilità assenze per malattia dovute alla disabilità – Discriminazione indiretta – Clausole contratto collettivo nulle - Nullità del licenziamento – Tutela applicabile – Art. 18, comma 1, St. lav. – Reintegrazione. 

 

La mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio”. (1)

 

– La sentenza in commento appare di particolare interesse in quanto rappresenta il primo arresto della Suprema Corte su una serie di rilevanti questioni in materia di licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore disabile. In precedenza, le tematiche che saranno approfondite nella presente annotazione erano state affrontate solo dalla giurisprudenza di merito che, sul punto (come si dirà meglio oltre), aveva sviluppato due principali filoni interpretativi. Per tale ragione, l’odierna decisione della cassazione assume un particolare valore chiarificatore rispetto agli orientamenti giurisprudenziali formatisi sino ad oggi. In estrema sintesi, i giudici di legittimità si sono dovuti misurare con le seguenti problematiche: da una parte, se sia legittimo computare le assenze collegate alla disabilità, o a gravi patologie (anche se non permanenti) rientranti in una nozione “allargata” di handicap, nel periodo di comporto stabilito dalla contrattazione collettiva; dall’altra, se integri o meno una discriminazione indiretta, la previsione da parte di una norma collettiva di periodi di comporto non differenziati tra soggetti disabili e prestatori non afflitti da handicap; e, di conseguenza, se siano affette da nullità, sempre per discriminazione indiretta, le clausole del contratto collettivo che non prevedano lo scomputo di tali assenze dal periodo di comporto (per un approfondimento sul tema, si veda Voza, 771, nonché De Mozzi, 2).

Fatta tale premessa di ordine sistematico, si può entrare nel merito della vicenda decisa dalla sentenza di cassazione del 31 marzo 2023, n. 9095. Il caso riguardava un dipendente, addetto a mansioni di spazzino stradale, licenziato per superamento del periodo di comporto. Il lavoratore aveva rivendicato la nullità del recesso, e la conseguente reintegrazione, in quanto le assenze non avrebbero dovuto essere conteggiate nel periodo di comporto, essendo riconducibili alla disabilità del medesimo. Si trattava, infatti, di un soggetto portatore di handicap, ai sensi dell’art. 3, comma 1, legge 104/92, con una capacità lavorativa ridotta del 75%. Nei precedenti gradi di giudizio (nella specie Tribunale e Corte appello di Milano), il licenziamento era stato dichiarato nullo per discriminazione indiretta in quanto la società aveva applicato l’art. 42 CCNL Federambiente, relativo al periodo di comporto c.d. breve, trascurando, tuttavia, di distinguere tra assenze per malattia ed assenze per patologie correlate alla disabilità. Sul punto, i giudici di legittimità hanno confermato la discriminazione operata dalla società nei confronti del prestatore in quanto “la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio”. La Suprema Corte, a supporto di tale assunto, ha osservato che nel momento in cui “la previsione del comporto breve viene applicata ai lavoratori disabili e non, senza prendere in considerazione la maggiore vulnerabilità relativa dei lavoratori disabili ai fini del superamento del periodo di tempo rilevante, la loro posizione di svantaggio rimane tutelata in maniera recessiva”.

 

– La materia in esame, come anticipato, è stata oggetto di una vera e propria querelle giurisprudenziale (per una completa disamina dei diversi orientamenti della giurisprudenza di merito formatisi sino ad oggi, sia consentito rimandare a Salvagni, 215), ove i dipendenti, licenziati per superamento del periodo di comporto, stante il loro stato di handicap, invocavano una discriminazione indiretta e l’applicazione degli accomodamenti ragionevoli al fine di vedersi garantire la piena eguaglianza con gli altri dipendenti non affetti da disabilità; chiedevano, pertanto, l’esclusione dal computo del periodo di comporto dei giorni di assenza riconducibili alle loro patologie e la reintegrazione nel posto di lavoro.

Il nodo centrale della questione si incentra sulla seguente problematica: se una condizione, in un certo senso neutra, determini una violazione dei corollari del principio di parità di trattamento di derivazione eurounitaria in base al quale, per evitare discriminazioni indirette, situazioni diverse meritano un trattamento differenziato. Al momento, appare consolidarsi, come confermato infatti anche dalla sentenza di cassazione in commento, l’indirizzo secondo cui si configura una discriminazione indiretta allorché le norme collettive non prevedano periodi di comporto differenziati per le assenze dei lavoratori disabili o che, di converso, non stabiliscano lo scomputo di tali assenze. Tra le prime sentenze di merito che si sono occupate della fattispecie, a quanto consta, occorre segnalare i provvedimenti del Tribunale di Pisa, ordinanza del 16 aprile 2015, del Tribunale di Milano e, in particolare, quelli del 28 ottobre 2016, n. 2875, del 6 aprile 2018 e del 12 giugno 2019, nonché le decisioni successive del Tribunale di Verona del 22 marzo 2021 e del Tribunale di Mantova del 22 settembre 2021. A parere di questo indirizzo, che fonda le proprie ragioni su un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2110 c.c. e sulla scorta di quanto precisato dalla giurisprudenza eurounitaria, la previsione di un periodo di comporto, la cui quantificazione prescinda tout court dalla “disabilità” del lavoratore, configura un’ipotesi di “discriminazione indiretta” a norma del d.lgs. 216/2003 (e della direttiva 2000/78/CE). Orientamento questo recentemente confermato (si tratta infatti di pochi mesi prima dalla sentenza di cassazione in annotazione) dalla Corte di appello di Milano del 16 febbraio 2023, dalla Corte di appello di Napoli del 17 gennaio 2023, dal Tribunale di Parma del 9 gennaio 2023, dalla Corte di appello di Milano del 9 dicembre 2022 e dal Tribunale di Lecco del 23 gennaio 2023, secondo cui la previsione di un comporto uguale per tutti, superato il quale si configura la licenziabilità del dipendente, determinerebbe l’adozione di un criterio apparentemente neutro che, tuttavia, comporta effetti più sfavorevoli per i lavoratori disabili.

Con riferimento, invece, alle decisioni di indirizzo opposto, si segnalano il Tribunale di Venezia del 7 dicembre 2021, n. 6273, la Corte di appello di Palermo del 14 febbraio 2022, n. 111, il Tribunale di Vicenza del 27 aprile 2022, n. 181, il Tribunale di Bologna del 19 maggio 2022, n. 230 e, da ultimo, il Tribunale di Lodi, sentenza del 12 settembre 2022. I giudici hanno rigettato le domande dei lavoratori con argomentazioni sostanzialmente speculari facendo leva, in particolare, sul principio per cui la legislazione eurounitaria lasci un ampio margine di discrezionalità in ordine ai ragionevoli accomodamenti da adottare per tutelare il lavoratore affetto da handicap o disabilità. In merito, ad esempio, il Tribunale di Lodi, con sentenza del 12 settembre 2022, ha osservato che la mancata previsione da parte del contratto collettivo di periodi di comporto diversificati non determinerebbe alcuna discriminazione indiretta in quanto, in linea generale ed astratta, non vi sono ragioni nell’ordinamento italiano per trattare i lavoratori disabili diversamente dagli altri, con particolare riguardo alle conseguenze sulla stabilità del rapporto legate alla durata della malattia. Sulla stessa falsariga il Tribunale di Venezia, con ordinanza n. 6273 del 2021, ha affermato che “ritenere che dalle assenze per malattia debbano essere espunte quelle determinate dallo stato di handicap ... determinerebbe, nella sostanza, una disapplicazione della norma per la maggior parte delle ipotesi”.

 

– A questo punto, non ci si può sottrarre dall’approfondire un ulteriore questione, che integra e completa la fattispecie del recesso del lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto: ossia quali tipi di patologie debbano essere ricomprese nella nozione di “disabilità”, dovendosi tener conto di una concezione di “handicap” che è stata ampliata dall’elaborazione della giurisprudenza eurounitaria e nazionale. Preliminarmente, va premesso che nel nostro ordinamento non è rinvenibile una definizione unitaria di “disabilità”; ciò ha ingenerato notevoli difficoltà interpretative per ricondurre le tutele previste dalla normativa antidiscriminatoria sovranazionale e nazionale quando si è in presenza di patologie croniche, anche se non definitive, che non sempre consentono di accedere alla protezione delle leggi n. 68/99 e n. 104/92 (sul punto, si vedano Giubboni 621, nonché Izzi, 748). Tuttavia, un soggetto, anche se non possieda “formalmente” il riconoscimento di tale status secondo il diritto nazionale, potrà sempre invocare e ricevere tutela in ragione delle proprie gravi affezioni. Al riguardo, si evidenzia che la prima sentenza intervenuta sul punto, pur escludendo che la malattia possa ritenersi automaticamente sovrapponibile alla disabilità, ha stabilito che possono ricadere in questa ipotesi anche le menomazioni non irreversibili, purché “di lunga durata” (in tal senso, Corte giust. Chacon Navas, 11 luglio 2006, causa C-13/05, punto 45). Ciò che rileva maggiormente è l’aspetto sociale e relazionale delle “minorazioni fisiche, mentali o psichiche” che devono essere tali da ostacolare “la partecipazione della persona considerata alla vita professionale” (Corte giust. Chacon Navas, 11 luglio 2006, causa C-13/05, punto 45). La giurisprudenza eurounitaria ha inoltre affermato che la nozione di handicap, di cui alla Direttiva 2000/78, deve essere interpretata nel senso che essa include “una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori e tale limitazione sia di lunga durata” (cfr. Corte giust., 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/2011 e C-337/2011, punto 47, nonché Corte giust. 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16). L’orientamento eurounitario è stato recepito anche dalla giurisprudenza nazionale secondo cui il riconoscimento della condizione di lavoratore disabile, secondo la normativa antidiscriminatoria, prescinde dal previo accertamento della condizione di persona portatrice di handicap per come stabilita ai sensi della l. n. 104/1992 o di lavoratore invalido ai sensi della l. n. 68/99. Appare infatti ormai consolidato il principio della “assoluta autonomia del concetto di handicap, quale fattore di discriminazione, rispetto all'accertamento della condizione di handicap grave di cui alla legge 104 del 1992”  (cfr. Cass. 27.9.2018, in De Jure). L’esegesi giurisprudenziale, peraltro, ha allargato i confini degli “accomodamenti ragionevoli” per la tutela dei disabili, come previsti dall’art. 3, co. 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, anche alle patologie non “coperte” dal sigillo delle certificazioni di invalidità e di disabilità stabilite dalle leggi n. 68/1999 e n. 104/1992 (in tal senso: Cass. 19.3.2018, n. 6798 e Cass. 22.10.2018, n. 26675, in RGL con nota di Salvagni).

Alla luce di quanto sin qui esposto, si delinea un “modello sociale e dinamico di disabilità” (in merito, si veda Bono, 289), derivato dall’interpretazione della giurisprudenza della Corte di Giustizia, che individua la disabilità o l’handicap allorchè si è in presenza di patologie a carattere duraturo, non necessariamente definitive, tali da ostacolare la piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale per un lungo periodo temporale.

 

– Per completezza d’indagine, occorre dare conto anche delle soluzioni adottate dalla giurisprudenza in tema di ripartizione dell’onere della prova. Trattandosi di discriminazione, risulta ormai consolidato quell’indirizzo che prevede per il lavoratore un regime probatorio “alleggerito”, il quale può anche avvalersi dello speciale regime di prova presuntiva di cui all’art. 28, del d.lgs. n. 150/2011. Il datore di lavoro, invece, sarà onerato di dimostrare che il periodo di assenza computato ai fini del comporto fosse assolutamente indipendente dall’handicap del proprio dipendente. Sul punto, un precedente di legittimità (cfr. Cass. 9.3.2021 n. 6497, in De Jure), ha affermato che, in caso di licenziamento del disabile per superamento del comporto, agli oneri che normalmente gravano sul datore di lavoro si aggiunge quello, distinto ed ulteriore, relativo all’adempimento dell’obbligo di “accomodamenti ragionevoli” ex art. 3, co. 3 bis, d.lgs. n. 216/2003. Al fine di comprendere quale sia, invece, il tipo di condotta richiesta al datore per non incorrere nella sanzione della nullità del recesso, senza che si possa sconfinare in forme di responsabilità oggettiva, la Suprema Corte, sempre con la sentenza 9 marzo 2021 n. 6497, ha sostenuto che occorre indagare sul compimento in positivo di “atti concreti o operazioni strumentali rispetto all’avveramento dell’accomodamento ragionevole, che assumano il rango di fatti secondari di tipo indiziario o presuntivo, i quali possano indurre nel giudicante il convincimento che il datore abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata che scongiurasse il licenziamento”. Per concludere sul punto, va segnalato che la sentenza in commento ha ritenuto non decisivo l’assunto della società di non essere stata messa a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, visto che i certificati non indicavano la specifica malattia che aveva causato l’assenza, in quanto a parere della Suprema Corte la discriminazione opera in modo oggettivo in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al soggetto disabile.

 

– Alla luce di quanto si qui analizzato, le statuizioni della sentenza della Suprema Corte n. 9095 del 31 marzo 2023, confermano il consolidarsi di quel filone giurisprudenziale, invero maggioritario, che ritiene configurarsi una discriminazione indiretta allorché le assenze dovute alla disabilità o, all’handicap (nell’accezione sin qui evidenziata), vengano calcolate nel periodo di comporto. Tale impostazione esegetica, la cui cogenza trae maggiore forza in ragione sia delle fonti internazionali e eurounitarie in materia di discriminazione, sia delle sentenze della Corte di giustizia, determina una tutela, in un certo senso “rafforzata”, in favore del soggetto disabile per la salvaguardia del posto di lavoro. Obiettivo che deve essere perseguito anche mediante il ricorso agli “accomodamenti ragionevoli” di cui all’art. 3, co. 3 bis, del D. Lgs. n. 216 del 2003, che condizionano “a monte il potere di recesso del datore” (cfr. Giubboni 7 e 12).

Michelangelo Salvagni

                                                                                                                                     Avvocato in Roma

Riferimenti bibliografici

 

Bono R., Limiti al licenziamento del lavoratore disabile a garanzia della parità di trattamento, in RGL, 2019, n. 2, II, 289; De Mozzi B., Sopravvenuta inidoneità alle mansioni, disabilità, licenziamento, in LavoroDirittiEuropa, 2020, n. 2, 2 ss.; Giubboni S., Disabilità, inidoneità sopravvenuta, licenziamento, in RGL, 2016, n. 3, I, 621; Giubboni S., Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione dopo la legge Fornero e il Jobs Act, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona.IT, 2015, 261, 7 e 12; Izzi D., Il licenziamento discriminatorio secondo la più virtuosa giurisprudenza, in LG, 2019, n. 8-9, 748 ss.; Salvagni M., Licenziamento per sopravvenuta inidoneità psicofisica: reintegrazione per mancata adozione di accomodamenti ragionevoli e per violazione del repêchage, in RGL, 2019, n. 2, II, 244 e ss. Salvagni M., Il “prisma” delle soluzioni giurisprudenziali in tema di licenziamento del disabile per superamento del comporto: discriminazione indiretta, clausole contrattuali nulle, onere della prova e accomodamenti ragionevoli, in LPO, 3-4, 2023, 215 ss. Voza R., Sopravvenuta inidoneità psicofisica del lavoratore nel puzzle normativo delle ultime riforme, in ADL, 2015, n. 4-5, 771 ss.