Diritto di critica, utilizzo di espressioni sconvenienti e licenziamento del sindacalista

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Rivista Giuridica del Lavoro n.3/2016

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TRIBUNALE FERRARA – decreto ex art. 28 L. 300/70, 30 gennaio 2016 – Est. D’Ancona -  L.F. (avv.ti Piccinini, Mangione, Mozzanti) c.  B. P. I. S.r.l. (avv.ti Pavone, Marasco, Lopez).  

Lavoro subordinato – Condotta antisindacale ex art. 28 L. 300/70 - Lavoratore sindacalista – Uso di espressioni aspre e inopportune durante una trattativa sindacale - Rivendicazione del ruolo sindacale – Licenziamento disciplinare – Pertinenza delle espressioni utilizzate ai temi oggetto di critica - Sproporzione della sanzione e carattere strumentale del licenziamento – Nullità – Natura antisindacale e ritorsiva del recesso – Reintegra.

Qualora il lavoratore sindacalista alzi la voce e utilizzi espressioni inopportune e sconvenienti (tra cui bestemmie) all’interno di una trattativa sindacale con i responsabili aziendali e le stesse siano rivolte a questi ultimi nell’ambito però di tematiche che riguardino politiche occupazionali e oggetto di discussione, senza tuttavia che il medesimo pronunci ingiurie, tale condotta può ritenersi oggetto di disapprovazione alla stregua di parametri sociali e, eventualmente, portare ad una nota di biasimo da parte dell’organizzazione sindacale a cui appartiene il sindacalista, ma la reazione aziendale deve essere contestualizzata nell’ambito della tensione che si sviluppa in seno ad una trattativa sindacale, ove è naturale che si riscontri un accentuato antagonismo tra le parti che si trovano però in una posizione paritaria. La contestazione di tali comportamenti, che sono posti a giustificazione del licenziamento del lavoratore sindacalista, rileva quindi l’uso abusivo e strumentale del potere disciplinare, avente natura e finalità ritorsiva e antisindacale in quanto preordinato a fare cessare l’attività sindacale (1)

Critiche ed espressioni sconvenienti del lavoratore sindacalista in sede di trattativa: sproporzione del recesso, uso strumentale del potere disciplinare e condotta antisindacale.

SOMMARIO: 1. – Il fatto: la condotta del lavoratore sindacalista nell’ambito di una trattativa  2. – La contestualizzazione delle imprecazioni del sindacalista proferite in sede di conflittualità aziendale: l’uso strumentale della contestazione disciplinare avente finalità antisindacale. – 3. – Trattativa sindacale, sospensione del rapporto di lavoro e non applicabilità della fattispecie collettiva del diverbio litigioso avvenuto nel “recinto dello stabilimento”. – 4. – Il diritto di critica del sindacalista in ragione del proprio ruolo “ontologicamente contrapposto” agli interessi imprenditoriali. – 5. – Insussistenza del fatto, uso sproporzionato del potere disciplinare e condotta antisindacale. – Considerazioni conclusive.

 

– Il fatto: la condotta del lavoratore sindacalista nell’ambito di una trattativa. La vicenda trae le mosse da una contestazione disciplinare addebitata ad un sindacalista della FILTCEM CGIL di Ferrara nel corso di una discussione sindacale tra membri della Rsu e dipendenti dell’Ufficio del Personale e della Direzione aziendale.

Occorre sin da subito evidenziare, al fine di comprendere l’importanza del contesto in cui sono accadute le circostanze oggetto di causa, che il fatto addebitato al lavoratore si è verificato nell’ambito di una trattativa complessa e delicata e che si stava prolungando nel tempo proprio in ragione delle vicende sottese alla stessa, ossia problematiche occupazionali della società che interessavano la tutela di posti di lavoro.

Tale trattativa sindacale, proprio per la natura dei rilevanti temi esaminati, era caratterizzata da un’accesa discussione tra i presenti, ognuno dei quali intenzionato a far valere le proprie  posizioni. Nella specie, il tema era quello del rinnovo del contratto collettivo aziendale e i rappresentanti sindacali aziendali, tra i quali il lavoratore licenziato, richiedevano che, a salvaguardia dell’occupazione, fosse inserita la medesima clausola, già contenuta nel precedente contratto integrativo aziendale scaduto, che prevedeva la rioccupazione dei prestatori in esubero.  

Le precisazioni sul contesto dell’attività sindacale svolta all’interno della suddetta riunione risultano determinanti per comprendere appieno i fatti oggetto di addebito e, al contempo,  contestualizzare i comportamenti dei singoli partecipanti della stessa, tra cui il rappresentante sindacale licenziato, anche con riferimento alla qualificazione dei termini essenziali della invocata condotta antisindacale.[1] 

In breve, questi i fatti oggetto del procedimento disciplinare: il sindacalista della FILTCEM CGIL, secondo la ricostruzione contenuta nella contestazione, ad un certo punto della discussione si sarebbe alzato e, in un primo momento, avrebbe reiteramente bestemmiato e urlato verso una responsabile della società, e, successivamente, inveito contro un altro componente della direzione aziendale per poi minacciarlo, con il gesto di dare un pugno, e spingerlo, facendogli perdere l’equilibrio.

Peraltro, veniva contestata al lavoratore anche la circostanza di aver alzato la voce per pronunciare, contro i responsabili aziendali presenti alla riunione, frasi quali “voi avete licenziato, tu hai licenziato”, con riferimento ad un precedente licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad altri dipendenti della società.

A seguito di tali addebiti, il sindacalista è stato licenziato e nella lettera di recesso l’azienda  ha richiamato, a supporto dell’ipotesi risolutoria, l’art. 52, lettera j), del CCNL Industria Chimica, senza però far espresso riferimento alle esemplificazioni del contratto collettivo  che qualificano le tipizzazioni delle condotte del prestatore al fine di giustificare la massima sanzione espulsiva.

L’organizzazione sindacale ha lamentato, mediante ricorso ex art. 28 L. 300/70, presentato innanzi al Tribunale di Ferrara, la condotta antisindacale posta in essere dalla società manifestasi con il licenziamento del proprio rappresentante.

 

– La contestualizzazione delle imprecazioni del sindacalista proferite in sede di conflittualità aziendale: l’uso strumentale della contestazione disciplinare avente finalità antisindacale. – Preliminarmente, occorre evidenziare che la società, costituendosi in giudizio, ha eccepito il difetto di interesse ad agire e il difetto di legittimazione attiva in capo al sindacato. Il giudice ha respinto tale eccezione ritenendo che il lavoratore, durante i fatti contestati, era seduto al tavolo delle trattative in qualità di rappresentante sindacale e, quindi, stava sostenendo una negoziazione con la direzione aziendale. Secondo il Tribunale di Ferrara l’iniziativa giudiziaria del sindacato tende proprio a consentire al lavoratore di riprendere l’attività sindacale in seno alla trattativa in corso e, quindi, l’azione intrapresa risulta pienamente ammissibile.

Nel merito poi, il giudice ha esperito l’istruttoria sommaria ascoltando gli informatori che, tuttavia, sui fatti contestati al lavoratore, hanno rilasciato dichiarazioni divergenti. Nel corso della causa è emersa infatti una “netta inconciliabilità della versione dei fatti rispettivamente offerta” dai sindacalisti rispetto a quella prospettata dai membri dell’Ufficio del Personale, tutti presenti alla riunione oggetto di controversia. Il Tribunale, in ragione della “rilevata divergenza di contenuto delle deposizioni degli informatori dell’uno e dell’altro antagonista processuale, rese da soggetti che hanno partecipato al tavolo delle trattative ”, ha affermato che non era possibile “ottenere un quadro univoco delle singole condotte sussistendo la rilevata discrasia su circostanze fondamentali degli accadimenti”.

Il giudice conseguentemente, per un verso, ha ritenuto non provata la tesi dei gesti minacciosi di dare un pugno e dello spingere con veemenza uno dei responsabili aziendali né degli effetti di tale comportamento, visto il diverso contenuto delle deposizioni rese dagli informatori chiamati da entrambe le parti; per altro verso, con riferimento alle asserite espressioni inopportune del lavoratore, ha affermato che alcune imprecazioni, sicuramente non consone durante una trattativa sindacale (nella specie delle bestemmie), non possono ritenersi quali comportamenti suscettibili di intimidazione, risultando quindi non idonei ad integrare un’ipotesi di licenziamento disciplinare.

Il Tribunale di Ferrara ha osservato ancora sul punto che neanche l’alzare la voce nel corso di trattative sindacali, nel quadro di tensione che si determina nelle stesse, ove è naturale  che si riscontri un accentuato antagonismo tra le parti, può essere considerata quale condotta intimidatrice. In particolare, il giudice ha sostenuto che le bestemmie, l’alzare la voce, senza però pronunciare ingiurie, è condotta che può ritenersi oggetto di disapprovazione alla stregua di parametri sociali. Tutto ciò, come stabilito nell’ordinanza de qua, può eventualmente comportare una nota di biasimo da parte dell’organizzazione sindacale a cui appartiene il sindacalista, ma la reazione deve essere contestualizzata nella tensione che si sviluppa in seno ad una trattativa sindacale.[2]

Secondo il Tribunale, alla luce anche delle contrastanti risultanze istruttorie, l’addebito mosso al sindacalista deve essere notevolmente ridimensionato rispetto alla gravità dei fatti prospettati dall’azienda. Il giudice ha, pertanto, ravvisato una sproporzione tra recesso e fatto commesso, tale da rilevare l’uso strumentale, e quindi abusivo, del potere disciplinare, con chiara finalità ritorsiva visto che la condotta del rappresentante sindacale non è risultata connotata da quegli elementi di gravità posti alla base del licenziamento. Il Tribunale, conseguentemente, ha dichiarato la natura antisindacale della condotta aziendale, ordinandone la cessazione  mediante immediata reintegrazione del lavoratore.

 

3. – Trattativa sindacale, sospensione del rapporto di lavoro e non applicabilità della fattispecie collettiva del diverbio litigioso avvenuto nel “recinto dello stabilimento”. Il Tribunale di Ferrara, infine, ha trattato un’altra interessante questione con riferimento alla disposizione collettiva che sanziona i comportamenti dei lavoratori all’interno del luogo di lavoro. Il giudice, difatti, nell’interpretazione della norma richiamata nella lettera di recesso ai fini della qualificazione della fattispecie risolutiva, ha dato particolare rilevanza al luogo in cui sono avvenuti i fatti contestati, ove era in essere lo svolgimento di un’attività sindacale, che si connota essa stessa per una parità tra i componenti della riunione.

In particolare il giudice, vista anche la accertata ritorsività del recesso, ha affermato che nella fattispecie posta al proprio vaglio non potessero essere impiegate le nozioni del contratto collettivo che presiedono al giudizio disciplinare del datore di lavoro e, segnatamente, quella regolamentata dalla lettera j) dell’articolo 52, CCNL Industria Chimica attinente al “diverbio litigioso, seguito da vie di fatto, avvenuto nel recinto dello stabilimento e che rechi grave perturbamento alla vita aziendale”.

Il Tribunale di Ferrara a tal riguardo, pur dando conto che la società ha richiamato genericamente solo l’art. 52 del CCNL di settore, senza indicare la specifica esemplificazione che secondo la contrattazione collettiva consente il recesso per giusta causa, tuttavia, ha ritenuto dovesse eventualmente individuarsi la suddetta previsione della lettera j), quale ipotesi applicabile per la risoluzione della controversia, trattandosi di previsione di CCNL in cui gli elementi valutati nella fattispecie posta al proprio vaglio possono essere eventualmente sussunti.    

Il magistrato, pertanto, in merito all’interpretazione di tale norma contrattuale, ha affermato un importante principio ritenendo che il diverbio litigioso è solo quello che avviene nel “recinto dello stabilimento”; tale fattispecie, secondo il giudice, non ricorre nel momento in cui il rappresentante della Rsu adempie il mandato sindacale durante una trattativa, ove si verifica una sospensione del rapporto di lavoro.

L’assunto espresso dal Tribunale di Ferrara sulla qualificazione giuridica del “recinto dello stabilimento”, risulta di rilevante interesse in quanto il giudice appura una circostanza che può sembrare scontata ma che, in realtà, non trova specifico riscontro, a quanto consta, in altri precedenti giurisprudenziali. In tal modo, la riunione sindacale viene ricondotta nella sua naturale connotazione, ossia quale luogo “neutro” rispetto a quello oggetto della prestazione lavorativa, con conseguente delimitazione del potere disciplinare del datore e dell’uso strumentale dello stesso. Difatti, come correttamente affermato dal provvedimento in esame, all’interno di tale contesto il ruolo delle parti è paritario e i toni, per così dire accesi, sono spesso utilizzati da entrambe le parti “antagoniste”. La decisione in commento, quindi, risulta conforme ad un precedente indirizzo giurisprudenziale secondo cui il lavoratore, che sia anche rappresentante sindacale, si “pone, in relazione all’attività di sindacalista, su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché tale attività, diretta alla tutela di interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro, non può essere subordinata alla volontà di quest’ultimo”.[3]

 

– Il diritto di critica del sindacalista in ragione del proprio ruolo “ontologicamente contrapposto” agli interessi imprenditoriali. – I profili sicuramente più interessanti del provvedimento oggetto di nota sono due. Il primo, che è rilevabile indirettamente dall’esame dal decreto, in quanto il giudice non lo tratta specificatamente, investe un tema particolarmente dibattuto nel diritto del lavoro, ossia quello dei limiti del diritto di critica del lavoratore sindacalista, con particolare riferimento alle espressioni proferite in un contesto di conflittualità aziendale.[4] Il secondo, invece, riguarda il rapporto tra il potere disciplinare e la condotta antisindacale realizzata mediante l’utilizzo strumentalmente di una sanzione sproporzionata rispetto all’addebito contestato.

Per quanto attiene al primo profilo, per ragioni di brevità espositiva, in questa sede non è possibile ripercorrere analiticamente l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale che nel tempo ha esaminato il diritto di critica del lavoratore sindacalista, enunciando il cosiddetto decalogo del buon lavoratore.[5] Tuttavia, anche al fine di meglio inquadrare la vicenda in commento, pare opportuno segnalare alcuni provvedimenti significativi che hanno caratterizzato l’esegesi giurisprudenziale. Nel tempo, infatti, la giurisprudenza, sia di merito sia di legittimità, ha affrontato la materia del diritto di critica del lavoratore sindacalista con alterne soluzioni interpretative.[6]

A parere di chi scrive, con riferimento alla tematica che qui interessa, va richiamato un caso emblematico, analizzato sia dalla giurisprudenza sia dalla dottrina, che rappresenta un vero e proprio paradigma della fattispecie in commento, una cosiddetta ipotesi di scuola.

Si tratta infatti di un episodio riguardante alcune espressioni, per così dire sconvenienti, utilizzate da un lavoratore sindacalista in un contesto di conflittualità aziendale che, in modo analogo alla controversia in analisi, hanno determinato il licenziamento del lavoratore.[7]  

Tale vicenda è stata sottoposta al vaglio della Suprema Corte che, di fatto, ha deciso lo stesso caso giuridico riguardante sempre il medesimo sindacalista con due sentenze,  succedutesi a distanza di alcuni anni l’una dall’altra, con cui i giudici di legittimità hanno offerto soluzioni interpretative differenti.

Nella prima decisione del 5 luglio 2002, n. 9743, la Corte di Cassazione ha affermato che il “giudice di merito nel valutare, al fine di accertare la legittimità di un licenziamento per giusta causa, le espressioni proferite da un lavoratore sindacalista in un contesto di conflittualità aziendale, che possono essere esorbitanti rispetto ai limiti di un corretto esercizio delle libertà sindacali… deve accertare se le stesse non costituiscano la forma di comunicazione ritenuta più efficace ed adeguata dal sindacalista in relazione alla propria posizione in un determinato contesto conflittuale..”. La Cassazione con tale arresto ha legittimato, in un certo senso, il principio per cui il sindacalista può scegliere la forma di comunicazione ritenuta più efficace al fine di far comprendere le proprie posizioni. Condotta questa che, in quanto espressione di una responsabilità politico sindacale in senso lato, avente peraltro rilevanza costituzionale, non configurerebbe un inadempimento nei confronti del datore. E’ evidente, infatti, che la critica sindacale consente un dialettica diversa rispetto a quella comune del prestatore di lavoro, il cui scopo è proprio quello di esprimere un’opinione di tipo antagonista, manifestando una “esternazione di un giudizio, una valutazione critica, fondata su un’interpretazione soggettiva”.[8] In tale ambito, le manifestazioni di disaccordo non solo sono ammesse ma, soprattutto, visto il piano paritetico con il datore di lavoro, consentono espressioni più forti, proprio in ragione del ruolo rivestito dal rappresentante sindacale avente natura “ontologicamente contrapposta” agli interessi imprenditoriali.[9]  

Nella seconda sentenza del 21 aprile 2006, n. 9395, i giudici di legittimità, come anticipato,  hanno riesaminato nuovamente il medesimo caso giuridico, traendone però conclusioni del tutto diverse. I magistrati della Corte di Cassazione hanno osservato sul punto, da una parte, che il diritto di critica del lavoratore sindacalista, che è conseguente e funzionalmente connesso alla libertà sindacale, non può essere limitato nel suo esercizio; dall’altra, che anche se il comportamento di quest’ultimo nell’espletamento delle proprie prerogative sindacali non può essere qualificato quale inadempimento contrattuale, tuttavia, si dovrà considerare, nella valutazione della condotta posta in essere dal medesimo, la tutela di altri diritti fondamentali. Quindi, in tale contesto non si potranno giustificare “espressioni diffamatorie di singole persone, che vanno valutate come inadempimento degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro”.[10]

La Suprema Corte, in questa ultima decisione del 2006, applica la ben nota “regola del bilanciamento” degli interessi di natura individuale e collettiva in conflitto, ove i giudici di legittimità non hanno in realtà limitato il diritto di critica del lavoratore sindacalista ma, semmai, il tipo di espressioni utilizzate dal medesimo nell’ambito di tale “dialettica” sindacale. Come sostenuto dalla dottrina, il criterio del bilanciamento si qualifica come “tecnica di giudizio adottata in giurisprudenza per operare una valutazione complessiva e ponderata di ogni singola vicenda” che deve vagliare, da un lato, l'interesse alla reputazione e all'onore del destinatario della critica e, dall'altro, il contrapposto diritto alla manifestazione del pensiero.[11] Secondo altro autore, nel dover considerare i due interessi costituzionalmente protetti, ossia il diritto di critica e quello della dignità personale, è naturale che tale “bilanciamento richiede un più stringente rispetto dell’altrui onore e reputazione quando l’interesse del lavoratore non sia un interesse di natura generale o anche soltanto collettiva”.[12]  Per altra dottrina, invece, l’elemento che qualifica l’abuso della libertà di critica si ha quando le espressioni del lavoratore non prendono di mira l’azienda nella sua accezione imprenditoriale ed organizzativa, ma la “persona del datore di lavoro o di singoli dirigenti, basandosi sui cosiddetti argumenta ad hominem, intesi a gettare discredito appunto sulla persona del destinatario piuttosto che a criticarne le idee”.[13]  

La letteratura giuridica, quindi, nel tempo ha tratteggiato differenti soluzioni interpretative al fine di trovare quell’equo contemperamento tra i diversi interessi coinvolti, quelli individuali della personalità da una parte (di cui sono titolari le persone offese dalle espressioni offensive) e quelli collettivi dall’altra (di cui è portatore il rappresentante sindacale nell’ambito dell’esercizio delle sue prerogative).[14]

Sul punto, si segnala un indirizzo di legittimità che, seppur risalente nel tempo, afferma un principio pienamente condivisibile per il tipo di soluzione interpretativa adottata. Osserva in merito la Suprema Corte che il diritto di critica, anche se non può spingersi sino alla violazione di altri diritti garantiti costituzionalmente, può però consentire tale compressione quando "l'azione che la pone in essere sia ragionevolmente e prudentemente ordinata al soddisfacimento di interessi di rilievo (sul piano giuridico) almeno pari a quello del bene leso”, con la conseguenza che “l'interesse concreto in funzione del quale la critica è svolta deve essere attentamente considerato dal giudice ai fini del contemperamento degli interessi coinvolti, potendo configurarsi come una "causa di giustificazione" o una discriminante (anche ai sensi dell'art. 51 c.p.) rispetto ad una condotta del lavoratore, in ipotesi, persino diffamatoria”.[15]

Per concludere con riferimento a tale tematica, al fine di stabilire quali siano i limiti di critica del sindacalista, e se effettivamente le modalità espressive utilizzate dal medesimo abbiano travalicato le proprie prerogative, sconfinando appunto i confini del sopra richiamato bilanciamento tra questi diversi e allo stesso tempo rilevanti interessi di rango costituzionale, appare opportuno richiamare quanto concretamente stabilito dalla Suprema Corte, nella sopra citata sentenza n. 9743, del 5 luglio 2002. In particolare, con riferimento al caso di specie, risultano interessanti alcuni passaggi di tale sentenza che si connotano per la rigorosità e lucidità del ragionamento decisorio adottato. I giudici di legittimità, infatti, delimitano opportunamente i requisiti essenziali dell’indagine che deve necessariamente effettuare il magistrato di merito nella valutazione della condotta del prestatore sindacalista, affermando al riguardo che si può configurare una lesione del rapporto di fiducia solo ove sia stato accertato “che l'attività del lavoratore sindacalista era solo formalmente tale, debordando del tutto dagli standards propri di una vera, per quanto aspra, attività sindacale”.

Osserva ancora sul punto la Suprema Corte del 2002 che l'attività sindacale “è ontologicamente contrappositiva agli interessi imprenditoriali e - che si svolge in un regime di pluralismo sindacale concorrenziale”. Ciò implica che ogni esponente sindacale possa prescegliere la forma e il tipo di comunicazione che “meglio ritenga adatta a far comprendere le posizioni da esso assunte in relazione a determinate vicende aziendali, non diversamente da quanto avviene nella sfera lata della politica”. Conseguentemente, solo quando la “comunicazione "non corretta" non è sorretta da questa finalizzazione vien meno la stessa esistenza di un’attività sindacale configurandosi solo l'aggressione dell'altrui sfera giuridica utilizzando, strumentalmente, i diritti sindacali”. Tali principi sono quelli che maggiormente si attagliano alla presente vicenda, conferendole la giusta connotazione giuridica rispetto alla cosiddetta tecnica del bilanciamento dei diritti.

Per concludere, si evidenzia che l’indagine sul comportamento del lavoratore sindacalista non può avere quale esclusivo riferimento, sic et simpliciter, sia il parametro dell’inadempimento ai propri obblighi di lavoratore sia quello dell’osservanza dei doveri di fedeltà ex art. 2105 c.c..[16] Ed infatti, quando la condotta di quest’ultimo è posta in essere nell’ambito di un contesto di conflittualità aziendale, come quello di una trattativa, ove si esprimono posizioni afferenti alla politica sindacale, il giudizio sulla condotta del prestatore deve tener conto, da un lato, necessariamente del ruolo politico sindacale dal medesimo ricoperto in quel momento, dall’altro, la finalità che si persegue quale obiettivo intrinseco delle azioni complessive poste in essere dal sindacalista.     

 

– Insussistenza del fatto, uso sproporzionato del potere disciplinare e condotta antisindacale. – Passando poi all’esame del secondo profilo, ossia quello del rapporto tra potere disciplinare e condotta antisindacale, così come delineato dal Tribunale di Ferrara, si evidenzia che, per esigenze di spazio espositivo, in questa sede non si affronterà la tematica inerente il dibattito giurisprudenziale e dottrinale sviluppatosi intorno al concetto di fatto materiale e giuridico. Per completezza d’informazione, si sottolinea come la Corte di Cassazione, con la prima sentenza intervenuta in materia, abbia affermato che la “reintegrazione trova ingres­so in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto”.[17]

Appare sicuramente più interessante approfondire la questione della proporzionalità del recesso, così come affrontata dalla decisione del Tribunale di Ferrara, in quanto la mancanza di tale presupposto può essere ritenuto, come è avvenuto nel caso di specie, un indizio essenziale, anche alla luce delle presunzioni ex art. 2729 c.c., per determinare la ritorsività del licenziamento e la conseguente condotta antisindacale.    

La giurisprudenza più recente, infatti, ha espresso un indirizzo per così dire più “attento” e “sensibile” in merito alla interpretazione della tematica della proporzionalità tra il fatto contestato e il recesso, affermando che, in presenza di fatti contestati di lieve entità e, pertanto, in ipotesi di inadempimento “non notevole”, si possa ancora disporre la reintegrazione nel posto di lavoro. E’ il caso affrontato dalla Suprema Corte, con sentenza del 13 ottobre 2015, n. 20540, in cui è stato ritenuto insussistente un fatto materiale, pur verificatosi, relativo ad un comportamento di una dipendente che nei confronti dell’amministratore delegato aveva utilizzato parole risentite e irriguardose.[18] La Corte di Cassazione ha ritenuto i fatti insussistenti perché unicamente contrari alle “regole della compostezza e degli usi mondani” e, pertanto, “giuridicamente non rilevanti”. Sul punto, i giudici di legittimità stabiliscono il rilevante principio secondo cui “quanto alla tutela reintegratoria, non è plausibile che il Legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione”, come potrebbe essere il caso in annotazione, ove le censure riguardano espressioni sconvenienti ma non talmente gravi da giustificare il recesso.

Nella vicenda in analisi, infatti, la sanzione espulsiva è stata irrogata a fronte di un episodio isolato relativamente ad una condotta che, come correttamente interpretata dal Tribunale di Ferrara, non aveva alcuna ricaduta con l’esecuzione della prestazione lavorativa e con l’adempimento degli obblighi contrattuali. I fatti contestati sono riferiti ad un episodio tenutosi nel corso di una trattativa sindacale e, in quanto tali, protetti da una sorta di esimente per i contegni in essa tenuti dal sindacalista; ciò in ragione della naturale conflittualità insita nella riunione, ove i rapporti tra le parti sono paritari. Peraltro, occorre evidenziare che al lavoratore, in passato, non erano mai stati contestati altri provvedimenti  disciplinari. Il recesso, conseguentemente, appariva sproporzionato non solo rispetto ai fatti addebitati, ma anche in relazione sia alla comprovata mancanza di sanzioni disciplinari precedentemente irrogate nei confronti del prestatore sia in considerazione della circostanza che la sanzione irrogata era più grave di quella prevista dalla contrattazione collettiva. In riferimento a questo ultimo passaggio, si segnala una recente decisione della Suprema Corte del 30 marzo 2016, che tratta una vicenda di licenziamento disciplinare in cui la contestazione richiama la fattispecie tipizzata dal contratto collettivo del “diverbio litigioso seguito da vie di fatto”.[19]

E’ il caso di un lavoratore il quale, nel richiedere le proprie spettanze economiche al datore di lavoro, aveva utilizzato nei confronti di quest’ultimo espressioni volgari e intimidatorie; in merito, la Corte di appello di Reggio Calabria aveva confermato la legittimità del recesso in ragione della violazione delle norme del vivere civile e degli obblighi correlati alla posizione di subordinazione del prestatore anche se, tuttavia, tra le parti non erano seguite “le vie di fatto”. In tale ambito, la Cassazione ha sancito un rilevante principio che si richiama proprio per le analogie con il caso in commento. Secondo i giudici di legittimità, il fatto deve ritenersi insussistente quando al lavoratore viene irrogata una sanzione più grave rispetto a quella prevista dalle stesse tipizzazioni disciplinate dal contratto collettivo. Osserva al riguardo la Suprema Corte che in tema di licenziamento le “tipizzazioni degli illeciti disciplinari contenute nei contratti collettivi, rappresentando le valutazioni che le parti sociali hanno fatto in ordine alla gravità di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità, non consentono al datore di lavoro di irrogare la sanzione risolutiva quando questa costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione”.    

Tornando al caso in commento, anche alla luce di tale ultimo indirizzo giurisprudenziale, il punto nodale della controversia si rinviene proprio nella rilevante circostanza che il dipendente è stato licenziato mentre esercitava le sue prerogative di rappresentante sindacale. Al riguardo, il giudice della fase sommaria, in maniera condivisibile, ha riconosciuto a favore del lavoratore sindacalista l’esercizio di una funzione che prevede, istituzionalmente, una contrapposizione con il datore di lavoro e che, proprio in ragione di tale conflittualità costituzionalmente garantita, non può essere mortificata o compressa con licenziamenti pretestuosi.

Il Tribunale di Ferrara, quindi, ha correttamente accertato la condotta antisindacale della società proprio in ragione della circostanza che il comportamento sanzionato non era funzionalmente connesso ad un inadempimento contrattuale legato allo svolgimento dell’attività lavorativa. Il fatto doveva ritenersi insussistente anche perché assolutamente sproporzionato rispetto alla condotta accertata. Sul punto, si segnala infine una sentenza della Corte di Cassazione che ha qualificato quale condotta antisindacale il comportamento della società che, in maniera pretestuosa, ha utilizzato le mancanze del rappresentante sindacale al fine di comminare al medesimo la più grave delle sanzioni, ossia il licenziamento. Al riguardo, i giudici di legittimità hanno tenuto conto della rilevante circostanza che l’istruttoria, come avvenuto nel caso di specie, aveva dimostrato che la condotta antisindacale era connotata dalla “volontà dell’impresa di approfittare dell’episodio disciplinarmente rilevante per liberarsi di un sindacalista particolarmente attivo, come tale idonea a colpire il sindacato nella sua attività istituzionale all’interno dell’azienda”.[20]

 

– Considerazioni conclusive. – Per concludere rispetto alla vicenda oggetto di annotazione, si può affermare che il giudice, in ossequio ai principi costituzionali e dello Statuto dei Lavoratori che garantiscono l’attività sindacale, deve valutare con particolare attenzione e rigore quanto accade all’interno delle riunioni ove si esercita la stessa. Ciò al fine di evitare che il datore di lavoro, in maniera strumentale, possa sanzionare condotte che in realtà non risultano essere così gravi ma che, invece, sono intrinsecamente funzionali alla politica sindacale. Come infatti è accaduto nel caso di specie, ove il fatto contestato non assumeva una rilevanza disciplinare tale da giustificare la massima sanzione, visto che lo stesso non era finalizzato all’offesa diretta della dignità dei rappresentanti aziendali. Comportamento che, al massimo, poteva ritenersi contrario alle “regole della compostezza e degli usi mondani”,[21] ma restando giuridicamente irrilevante ai fini di un licenziamento.

Un diverso approccio interpretativo, presterebbe il fianco a pretestuose “espulsioni” di lavoratori sindacalisti ritenuti “scomodi”, condotta questa che assume la veste dell’antisindacalità e deve essere legittimamente sanzionata.  

Conseguentemente, il comportamento del rappresentante sindacale nell’ambito di una riunione sindacale deve essere contestualizzato rispetto alle condizioni oggettive e soggettive in cui si verifica. L’indagine del giudice pertanto, nell’ambito della verifica di tale condotta, deve essere particolarmente scrupolosa laddove vi sono “in gioco” interessi collettivi dei lavoratori costituzionalmente garantiti. In tal modo, si potrà evitare che possano realizzarsi condotte pretestuose e strumentali a danno del rappresentante sindacale nell’espletamento delle proprie prerogative istituzionali che, invece, devono essere tutelate in quanto espressione di una libertà garantita dall’art. 39 della Costituzione.

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Riferimenti bibliografici:

- Aimo M. (1999), Appunti sul diritto di critica del lavoratore, RGL, 3, pp. 463-475

- Barbieri M. (2013), La nuova disciplina sostanziale del licenziamento individuale: prime risposte giurisprudenziali, RGL, 3,  334 ss; Bettini M.N. (2008), Il diritto di critica del lavoratore nella giurisprudenza, AA. VV.. Diritto e libertà. Studi in onore di Matteo Dell’Olio, Torino, 141.

- Carinci F. (2012), Il legislatore e il giudice: l’imprevidente innovatore ed il prudente conservatore (in occasione di Trib. Bologna, Ord. 15.10.2012), ADL, 4-5, 773;

- De Luca A. (2008), Diritto di critica del lavoratore, LG, 10, 987.

- De Luca M. (2014), Il fatto nella riforma della tutela reale contro i licenziamenti illegittimi: note minime sulla prima sentenza in materia della Corte di Cassazione, FI, I, 3418.

- De Luca Tamajo R. (2012), Il licenziamento disciplinare nel nuovo art. 18: una chiave di lettura, RIDL, 2, II, 1049; Dessi O. (2013) , Il diritto di critica del lavoratore, RIDL, I, p. 407. Emiliani S.P. (2007), La libertà del lavoratore di manifestare il proprio pensiero e il dovere di rispettare l’altrui onore e reputazione, ADL, I, 

- Fabbri F. (2012), Alcune considerazioni sulla insussistenza del fatto addebitato e sulle incongruenze del nuovo art. 18 stat. lav., RGL, 2, 761; -           Failla L. (1998), Diritto di critica e rapporto di lavoro: una importante presa di posizione della Corte di Cassazione, MGL, pp 663;

- Federici A. (2016), In tema di insussistenza del fatto disciplinare, RGL, 1, 31; Franza G. (2007), Sul diritto di critica del lavoratore, MGL, 2007, 785; Ghirardi N. (2003), Licenziamento per rappresaglia e diritto di critica del rappresentante sindacale, RGL, n.4, 819; Giovagnoli R. (2001), Diritto di critica del rappresentante sindacale e giusta causa di licenziamento, MGL, 2001, 796;

- Grivet-Fetà S. (2013), Presupposti e limiti del diritto di critica del lavoratore, RIDL,  n. 1, II, pp. 86-95; Inglese I. (2014), Il diritto di critica nei luoghi di lavoro, Giapichelli, Torino, 40. Levi A. (2003), La critica della persona nel diritto del lavoro, RGL, n.3, 529; Matto V. (2002), Diritto di critica, esercizio di una responsabilità politico-sindacale e licenziamento, OGL, I, 452.

- Mazzotta O. (1986), Diritto di critica e diritto del lavoro, FI, 1986, I, 1878;

- Miscione M. (2016), Antisindacale licenziare per antagonismo, LG, 2, pp. 179-182.

- Muggia R. (1986), I confini tra diritto di critica e potere di licenziamento,  RCDL, 245; Muggia R., Muggia S. (2004), Diritto di critica e rapporto di lavoro, LG, 105; Niccolai A. (2001), L’obbligo di fedeltà fra lealtà, fiducia e connivenza, MGL, 593 Nuzzo V. (2004), Diritto di critica del dipendente e presunta violazione del vincolo di fiducia, MGL, 817;

- Papa D. (2007), Limiti del diritto di critica del lavoratore sindacalista, DRI, n. 3, pp. 810-821;

- Papa V. (2010), Il diritto di critica del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza: una lettura costituzionalmente orientata,  RIDL, n. 4, II, pp. 806-813;

- Perulli A. (2002), La buona fede nel diritto del lavoro, RGL, n. 1, p.3;

- Piccinini A. (2016), Licenziamento disciplinare: il fatto materiale tra legge Fornero e Jobs Act, LG, 4, 339-346;

- Quaranta M. (2005), Trattamenti migliorativi ad personam e condotta antisindacale, DRI, n. 3, pp. 778-780;

- Terenzio E. M. (2010), Il diritto di critica del prestatore di lavoro subordinato: un difficile equilibrio tra garanzie costituzionali e obblighi contrattuali, RGL, n.1, pp. 198;

- Tullini P. (1999), Il diritto di critica civile del sindacalista, RIDL, 1999, n.2, II, pp.349-355;

- Verrecchia G. (2009), Licenziamento per mancata rimozione della c.d. bandiera della pace: condotta antisindacale e violazione del principio di proporzionalità nell’esercizio del potere disciplinare, RIDL, n. 4,  II, pp. 1022-1027.

[1] Per completezza di informazione, si evidenzia che la decisione in commento è stata pubblicata anche in LG, 2016, 2, pp. 179-182, con nota di Miscione, il quale, dopo aver evidenziato che l’intero procedimento di condotta antisindacale, a parte il caso notorio del licenziamento dei tre sindacalisti dello Stabilimento di Melfi, sembrava essere ormai una fattispecie rara e quasi scomparsa dalla casistica giurisprudenziale, sottolinea “una specie di ritorno alle origini” in quanto, leggendo la pronunzia del Tribunale di Ferrara, sembra “di tornare indietro, quando per colpire i sindacati si colpivano i sindacalisti e quando il processo era o poteva essere lo strumento principale di tutela dei diritti”.       

[2] In merito, quale precedente specifico sul licenziamento “per rappresaglia” del sindacalista, si veda Trib. Roma 10 gennaio 2003, RGL, 3, 2003, con nota di Ghirardi, p. 819, secondo cui è illegittimo il licenziamento del lavoratore rappresentante sindacale a causa delle critiche espresse nei confronti del datore di lavoro, purché le espressioni e i toni usati non siano tali da trasformare la critica in un attacco meramente offensivo e volgare dal datore di lavoro. In particolare, afferma sul punto il Tribunale di Roma che “una certa tolleranza è connaturata all’attività sindacale come a quella politica e una forma di comunicazione esorbitante dal politically correct può risultare assolutamente efficace al fine di far comprendere il tipo di valutazione che viene fatta di vicende che interessano i lavoratori”.       

[3] Cass. 14 maggio 2012, n. 7471, in RIDL, 2013, 1, II, 81, con nota di Grivet-Fetà.

[4] Sul diritto di critica del lavoratore sindacalista, si segnalano i seguenti contributi della dottrina risalenti nel tempo: Giovagnoli 2001,  796; Matto 2002, 452; Muggia R., Muggia S. 2004, 105.  

[5] In giurisprudenza, in generale, si veda Cass. 25 febbraio 1986, n. 1173, pubblicata rispettivamente in FI, 1986, I, 1878, con nota di Mazzotta, 1879, e in RCDL, 1986, con nota di Muggia R., 245, che, per prima, ha tratteggiato i limiti dell’esercizio del diritto di critica nel rapporto di lavoro, delineando il cosiddetto decalogo del buon lavoratore, mutando tali principi da uno specifico precedente, Cass. 18 ottobre 1984, n. 5259, in FI, 1984, I, 2711, ove i giudici di legittimità, con riferimento ai limiti del diritto di cronaca giornalistica, hanno dettato i criteri che rendono legittimo tale esercizio d’informazione tutelato dall’art. 21 della Cost.. Sull’esercizio del diritto di critica del lavoratore sindacalista manifestato attraverso articoli e interviste sui quotidiani si veda anche Cass. 6 maggio 1998, n. 5952, con nota di Aimo M., pp. 463-475. In dottrina, quali contributi più recenti sull’evoluzione del diritto di critica del lavoratore sindacalista e sui limiti delle azioni che il medesimo può esercitare nell’ambito del proprio ruolo, si segnala: Grivet-Fetà 2013, pp. 86-95, nonché Papa V. 2010, pp. 806-813.

[6] Sul ruolo della dialettica sindacale che deve essere contestualizzata secondo le dinamiche espressive del linguaggio utilizzato dai propri rappresentanti si veda Cass. 27 giugno 2000, NGL, 2001, p. 147, nonché Cass. 24 maggio 2001, n. 7091, MGL, 2001

[7] In tal senso, si vedano i due differenti orientamenti espressi, dapprima, da Cass. 5 luglio 2002, n. 9743 e, successivamente, da Cass. 21 aprile 2006, n. 9395, pubblicate in DRI, 2007, 3, 810, con nota di Papa D., 810-821, entrambe sul medesimo caso riguardante un rappresentante sindacale licenziato per giusta causa per aver redatto ed affisso in azienda un comunicato sindacale contenente espressioni offensive nei confronti di responsabili aziendali.

[8] In merito, cfr. De Luca, LG, 2008, 10, 987.

[9] Sul ruolo paritetico tra le parti antagoniste e sulla natura dell’attività sindacale che deve risultare “ontologicamente contrappositiva agli interessi imprenditoriali”, si veda Cass. 8 novembre 1995, n. 11436, in LPO, 1996, 1, 144. Sull’idoneità delle espressioni critiche del lavoratore sindacalista, formalmente non opportune e sconvenienti, in ragione del proprio status che giustifica tali comportamenti quasi si tratti di una scriminante, si veda anche Trib. Ascoli Piceno, 3 luglio 2009, n. 696, in RGL, 2010, 1, 198, con nota di Terenzio, pp. 198; nonché Trib. Roma, 26 ottobre 2009, in RIDL, 2010, 4, II, p.799, con nota di Papa V., secondo cui le “forme di critica sindacale, anche se svolte con uso di linguaggio pungente e incisivo, devono essere riconosciute legittime in quanto socialmente utili”. Sempre sul punto, si veda, infine, a T. Frosinone, 8 ottobre 1986, in FI, 1987, I, 948.  

[10] Sul punto, quali precedenti specifici, si vedano anche Cass. 17 dicembre 2003, n. 19350, in MGL, 2004, 311, che riteneva legittima la sanzione disciplinare nei confronti del lavoratore sindacalista che aveva proferito frasi denigratorie e disonorevoli ai dirigenti aziendali, nonché, in tempo più risalente, Cass. 16 maggio 1998, n. 4952, pubblicata rispettivamente in MGL, 1998, p. 663, con nota di Failla, e in RIDL, 1999, 2, II, p. 346, con nota di Tullini, secondo cui è legittimo  il licenziamento in tronco del lavoratore che, in violazione dell’obbligo di fedeltà e dei doveri di correttezza e buona fede, “abbia esercitato il diritto di critica oltre il limite del rispetto della verità oggettiva”.   

[11] In tal senso, Tullini, 1999, 346.

[12] Sul punto, cfr. Emiliani 2007,  429.

[13] Inglese 2014, 40. Con riferimento poi alla liceità del diritto di critica del prestatore che deve essere verificata con riferimento al contesto complessivo della vicenda si veda Bettini 2008, 141. Sul ruolo della giurisprudenza nella valutazione del diritto di critica si veda anche Franza 2007, 785.

[14] In generale, sul diritto di critica del lavoratore in relazione con il licenziamento disciplinare, si vedano i seguenti contributi  dottrinali: Levi 2003, 529; Nuzzo 2004, 817;  Dessi 2013, pp. 407.  

[15] Cfr. Cass. 25 febbraio 1986, n. 1173, RIDL, 1987, 2, 127, richiamata espressamente anche da P. Tullini, 348. Quale indirizzo più recente, si segnala Cass. 27 febbraio 2012, n. 7633 in GDir., 2012, 27, p. 32, con riferimento all’esercizio del diritto di critica da parte di un sindacalista accusato di reato per aver utilizzato toni aspri, ove i giudici di legittimità hanno ritenuto la condotta incensurabile “nell’ambito ed in ragione del mandato sindacale dell’imputato in quanto rappresentante di un’organizzazione di categoria e dunque in funzione delle finalità istituzionali sottese a quell’incarico”. In senso conforme, sempre sulla critica sindacale realizzata con toni e modi di disapprovazione si vedano, ex multis, Cass. 12 giugno 2009 n. 32180, RFI, 2010, 3580, n. 82, Cass. 5 giugno 2007 n. 34432 e Cass. 17.11.2004 n. 6465, a quanto consta inedite.

[16] Sui limiti del diritto di critica del lavoratore in generale e la violazione dell’obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c. che impone al lavoratore un obbligo di osservanza dei principi generali della correttezza e buona fede si veda Cass. 16 gennaio 2001, n. 519, MGL, 2001, p. 593, con nota di Niccolai. Sempre in giurisprudenza si veda anche Cass. 5 dicembre 1990, n. 11657, RIDL, 1991. In dottrina cfr.  Perulli 2002, p.3.   

[17] In tal senso, Cass. 6 novembre 2014, n. 23699, pubblicata rispettivamente in MGL, 2014, 874, nonché in FI, 2014, I, 3418, con nota di De Luca. In dottrina, sulle differenze tra fatto materiale e fatto giuridico si segnalano, tra i tanti commentatori: De Luca Tamajo, 1049; cfr. anche Fabbri, 761; Carinci, 773; Barbieri, 334; si veda, da ultimo, anche Piccinini, 339.

[18] In RGL, 1, 2016, 31, con nota di Federici.

[19] Cfr. Cass. 30 marzo 2016, n. 6165, sul sito online Diritto e Giustizia, nonché in RFI, 2016, Lavoro (rapporto), 3890, n. 27.

 [20] In merito, Cass. 12 dicembre 2008, n. 29257, RIDL, n. 4, 2009, II, pp. 1022-1027, con nota di Verrecchia. Sempre sulla condotta antisindacale quando il licenziamento colpisce il dirigente sindacale provocando un oggettivo indebolimento del sindacato, si veda anche Trib. Bergamo, 11 dicembre 2004, DRI, 2005, n. 3, pp. 778-780, con nota di Quaranta.    

[21] In tal senso Cass. 13 ottobre 2015, n. 20540, RGL, 2016, 1, 31.