Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e l'obbligo di repêchage anche in mansioni inferiori nell'interpretazione dottrinale e giurisprudenziale prima e dopo il Jobs Act

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Lavoro e Previdenza Oggi, n. 5/6 2017

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Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: brevi cenni. – 2. La nozione di licenziamento per giustificato motivo nell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale: i concetti di costo contabile e costo-opportunità – 3. Il controllo giudiziale sull’effettività del licenziamento per motivo oggettivo. – 3.1. Segue. Problematiche sui limiti del controllo giudiziale sull’effettività della ragione del recesso: la querelle sul licenziamento per mere esigenze di profitto. – 4. Il licenziamento per g.m.o. quale extrema ratio funzionalmente connessa all’obbligo di repêchage nell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale.– 5. La recente giurisprudenza della Corte di Cassazione sull’obbligo di repêchage quale elemento costitutivo della fattispecie del licenziamento per g.m.o.: l’onere della prova esclusivamente a carico del datore di lavoro e conseguenze sanzionatorie – 6. L’obbligo di repêchage anche in mansioni inferiori ai fini della conservazione del posto di lavoro alla luce del Jobs Act (le modifiche del D.Lgs. n. 81 del 2015). – 6.1. Evoluzione normativa e giurisprudenziale del repêchage in mansioni inferiori prima del D.Lgs. n. 81 del 2015 e la ripartizione dell’onere della prova. – 6.2. L’art. 2103 c.c. a seguito delle modifiche del D.Lgs. n. 81 del 2015: il superamento della regola dell’equivalenza, l’ammissibilità della dequalificazione professionale e dei patti di declassamento. – 6.3. L’art. 2103 c.c. riformato e il repêchage anche in mansioni inferiori nell’interpretazione della dottrina: obbligo o facoltà per il datore di lavoro? – 6.4. L’esegesi giurisprudenziale dopo il Jobs Act: sussistenza di un obbligo di repêchage del lavoratore anche in mansioni inferiori.

 

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: brevi cenni.

L’analisi dell’istituto del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, così come l’individuazione della sua nozione, non può prescindere da un inquadramento normativo della fattispecie che collochi la stessa all’interno delle norme generali dettate in tema di licenziamento dal Codice Civile e di quelle specifiche relative alla materia del licenziamento per giusta causa e giustificato motivo definite, principalmente, dalla Legge 15 luglio 1966, n. 604.

In primo luogo è opportuno effettuare un breve excursus delle norme codicistiche, partendo dall’art. 2118 c.c. che – all’interno del Libro V del Codice – disegna il confine del recesso dal contratto di lavoro a tempo indeterminato stabilendo che “ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando preavviso nel termine e nei modi stabiliti, dagli usi o secondo equità”. Precisa, inoltre, tale articolo che “in mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione[1] che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro”.

La disposizione in parola disciplina il c.d. “recesso ad nutum” e rappresenta lo strumento che consente, anche dopo le modifiche introdotte dalla Legge n. 108 del 1990 e le disposizioni dello Statuto dei Lavoratori, la libera recedibilità dal rapporto con il solo obbligo di dare il preavviso. Le regole previste dall’art. 2118 c.c. sono applicabili solo marginalmente e solo nelle ipotesi previste dall’art. 4 della L. n. 108/1990.[2]

L’art. 1 della Legge 15 luglio 1966, n. 604 rappresenta una disposizione di completamento della definizione di giusta causa e introduce nell’ordinamento giuridico l’istituto del giustificato motivo. La norma, infatti, stabilisce che “nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, intercedente con datori di lavoro privati o con enti pubblici, ove la stabilità non sia assicurata da norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo o individuale, il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’articolo 2119 del Codice Civile o per giustificato motivo”.

L’istituto del licenziamento per giustificato motivo, sia oggettivo[3] che soggettivo[4], trova, poi, la propria specificazione nell’art. 3; il datore di lavoro può esercitare il diritto potestativo di recesso per giustificato motivo con preavviso qualora si verifichi un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro – nel caso del giustificato motivo soggettivo – ovvero di ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa – nel caso del giustificato motivo oggettivo.

La prima ipotesi di giustificato motivo di licenziamento – quello soggettivo – prevista dall’art. 3 della L. n. 604 del 1966 individua in un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro” il proprio elemento caratterizzante[5]. La norma circoscrive nei comportamenti inerenti il rapporto contrattuale la causa del licenziamento, quindi, escludendo espressamente fatti estranei al rapporto di lavoro, come invece si è visto poter ricorrere nell’ipotesi di giusta causa.

Rispetto alla giusta causa, il giustificato motivo soggettivo si caratterizza per una minore gravità quantitativa (e non qualitativa) dell’inadempimento posto in essere dal lavoratore ma pur sempre “notevole” e tale da giustificare il ricorso al massimo strumento sanzionatorio da parte datoriale, quale quello del licenziamento[6].

La contrattazione collettiva ricorre molto spesso ad una tipizzazione dei casi di giustificato motivo soggettivo, come per quelli di giusta causa, anche se le indicazioni in essa contenute non risultano essere vincolanti per il giudice[7].

È bene precisare, al riguardo, che il 3° comma dell’art. 30, L. 4 novembre 2010, n. 183, c.d. “Collegato Lavoro”, impone al giudice di tenere conto delle tipizzazioni di giustificato motivo previste nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l'assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione.

Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, previsto dalla seconda parte dall’art. 3 della L. n. 604 del 1966, sussiste allorquando siano presenti fatti relativi “all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”[8].

La definizione che la legge dà di giustificato motivo oggettivo è risultata essere piuttosto lacunosa. Giurisprudenza e dottrina hanno cercato, nel tempo, di definire ambiti più circoscritti nei quali collocare tale istituto al fine di una corretta qualificazione dello stesso.

Nel presente lavoro si cercheranno di individuare gli elementi esegetici nonché limiti e condizioni di applicazione del giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

 

La nozione di licenziamento per giustificato motivo nell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale: i concetti di costo contabile e costo-opportunità.

Le ragioni che possono determinare il datore di lavoro ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo sono individuate da unanime dottrina sia nella libera scelta del datore, costituzionalmente tutelata dall’art. 41 della Cost., finalizzata ad un nuovo e diverso assetto dell’organizzazione aziendale o del processo produttivo, sia in fatti attinenti la sfera del lavoratore che si ripercuotono nel contesto aziendale.

La breve analisi sin qui svolta non consente, tuttavia, di definire una nozione satisfattoria di giustificato motivo oggettivo di licenziamento; a tal proposito, dottrina e giurisprudenza del lavoro continuano a confrontarsi alla ricerca di parametri certi per la definizione e la delimitazione ontologica del “giustificato motivo oggettivo”, così come descritto dall’art. 3 della citata L. n. 604 del 1966. Ciò anche al fine di colmare quella che molti individuano come lacuna originaria ed eccessiva genericità delle norme di legge e, soprattutto, con l’obiettivo di addivenire ad una costruzione teorico – interpretativa che risulti solida in fase di applicazione giurisprudenziale.

In primo luogo, il problema ha riguardato la qualificazione e quantificazione dell’evento di carattere produttivo-organizzativo in base al quale il datore di lavoro può disporre il licenziamento; in altre parole, se il licenziamento per giustificato motivo oggettivo possa ritenersi legittimo in presenza di qualsiasi ragione di convenienza economica e organizzativa unilateralmente individuata dall’imprenditore-datore di lavoro[9].

In linea generale, sarebbe legittimamente configurabile la fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ogniqualvolta sia riscontrabile un nesso di causalità tra le esigenze tecnico-produttive dell’azienda e l’impossibilità di utilizzare, in altri ambiti produttivi, quel lavoratore.

Nella valutazione di tale nesso di causalità, tuttavia, potrebbe risultare utile procedere con un approccio esegetico interdisciplinare; per tale motivo c’è stato lo sforzo di parte della dottrina nel fornire al giudice strumenti estranei alle logiche prettamente giuridiche facendo entrare, inevitabilmente, in gioco elementi e nozioni mutuati dalla dottrina economica e volti ad individuare concetti quali quello di “costo contabile” e “costo-opportunità”[10].

Il costo contabile indica semplicemente l’esborso monetario rispetto alla scelta effettuata mentre il costo-opportunità rappresenta la rinuncia all’utilità associata ad un’alternativa praticabile rispetto alla scelta compiuta[11].

Il costo-opportunità rappresenterebbe, pertanto, il criterio in base al quale l’imprenditore, nell’esercizio della libertà di iniziativa economica garantitagli dall’art. 41 della Carta Costituzionale, assume la decisione di licenziare un lavoratore; il risultato negativo della comparazione di costi e benefici produrrebbe pertanto il convincimento del datore sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Il compito del giudice consisterebbe nel verificare, ex post, la sussistenza della reale motivazione di economicità della scelta datoriale.

Secondo una parte della dottrina il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non risulta legittimo ogni volta in cui si riscontri un indice di convenienza economica per l’imprenditore, ma solo nel caso in cui tale “convenienza” superi una certa soglia auspicabilmente individuabile dal legislatore[12].

Volendo sintetizzare tale prospettiva è necessario premettere che tale costruzione interpretativa prende le mosse dal presupposto per cui in ciascun contratto di lavoro è implicita una clausola “assicurativa” che impone al datore di lavoro di proseguire con il rapporto contrattuale fintanto che non venga superato il c.d. “massimale assicurato” e cioè quando risulti in perdita il bilancio preventivo della prosecuzione del rapporto stesso; si potrà, pertanto, porre in essere un licenziamento per giustificato motivo oggettivo quando sia ragionevolmente prevedibile una perdita superiore al “massimale assicurato”[13].

Un approccio esegetico interdisciplinare ha trovato una prima applicazione in giurisprudenza con la sentenza del Tribunale di Palermo del 10 dicembre 2003 ove, tuttavia, il giudice ha autolimitato il proprio ruolo di giudizio all’accertamento della sussistenza di una perdita attesa permanente, senza spingersi a valutarne l’entità dal momento che il solo fatto della prevedibilità della prosecuzione del rapporto in perdita giustificherebbe il licenziamento[14].

D’altra parte, tale impostazione giurisprudenziale tiene debitamente conto il consolidato orientamento della Cassazione secondo cui il giudice non può interferire nelle determinazioni imprenditoriali sia nel rispetto della libertà di iniziativa economica sancita dall’art. 41 Cost. sia in ragione del fatto che eventuali giudizi di “opportunità” sulle scelte economiche operate dal datore richiederebbero al magistrato l’applicazione di conoscenze teorico-pratiche di carattere economico e aziendalistico che non gli competono.

Oltretutto, anche dalla lettura della sentenza di Palermo del dicembre 2003 emerge un’estrema difficoltà per l’organo giudicante di addivenire ad una valutazione del costo-opportunità che avrebbe indirizzato l’imprenditore alla scelta del licenziamento; invero, nel caso sottoposto al vaglio del giudice palermitano, persino il consulente tecnico cui era stato affidato l’incarico di stimare il costo-opportunità derivante dal licenziamento si era limitato ad effettuare un controllo sul costo-contabile sostenendo che, in assenza dei licenziamenti effettuati dall’imprenditore, il bilancio d’esercizio sarebbe stato gravato da ulteriori perdite, costituite dagli stipendi dei lavoratori licenziati; tale affermazione risulta palesemente priva di ogni valutazione del reale costo-opportunità che tenga conto non solo dell’esborso economico del pagamento degli stipendi ai lavoratori ma anche degli eventuali apporti di utilità dei lavoratori stessi nelle complesse dinamiche aziendali[15]. Sicuramente una valutazione di prognosi difficilmente giustificabile da un punto di vista oggettivo e che rappresenta anche il limite di tale impostazione ermeneutica.

Appare, pertanto, preferibile evitare di scomodare il concetto, seppur nobile, di costo-opportunità quando sembra sufficiente verificare un mero dato contabile previsionale in perdita per giustificare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, così come sembra estremamente imprudente addentrarsi in concetti economico-politici quali quello di “costo sociale”[16], che richiamano orientamenti dottrinari degli anni ‘70, che, a giudizio di chi scrive, renderebbero ancora più nebuloso il confine da tracciare per la definizione della nozione di giustificato motivo oggettivo.

A sostegno di tale impostazione limitativa del ruolo interpretativo del giudice possono essere annoverate ulteriori considerazioni di carattere pratico-teorico.

Innanzitutto risulta irrilevante, secondo giurisprudenza consolidata[17], che l’attuazione di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo sia dovuta o meno a ragioni inerenti l’attività produttiva; in altre parole, non rileva se la scelta datoriale sia dettata da un’esigenza di limitazione delle perdite o da una necessità di incremento dei profitti. Gli unici due requisiti richiesti sono la sussistenza delle esigenze addotte a giustificazione del licenziamento e la non pretestuosità delle stesse[18].

 

Il controllo giudiziale sull’effettività del licenziamento per motivo oggettivo.

A questo punto, occorre comprendere quali siano l’ambito e i limiti del controllo giudiziale al fine di accertare l’effettività della ragione posta alla base del provvedimento espulsivo per motivo oggettivo. In altri termini, “il giudice ha il potere dovere di verificare se le circostanze di fatto allegate come determinative della decisione di porre termine al rapporto di lavoro siano state provate e non siano pretestuose e strumentali. In mancanza di tale prova il licenziamento deve ritenersi illegittimo”[19].

Vi sono allora vere e proprie condizioni di legittimità del recesso per le quali il datore di lavoro ha l’onere della prova, come l’obiettività delle ragioni datoriali addotte a giustificazione del recesso e, quindi, la reale soppressione del posto conseguente alla scelta aziendale. Rientrano, pertanto, nella nozione di giustificato motivo oggettivo tutte le ipotesi di riassetto organizzativo dell’azienda attuato in vista di una gestione più economica dell’impresa e deciso dall’imprenditore non solo e semplicemente per un incremento del profitto ma per far fronte a situazioni sfavorevoli[20].

La questione sul controllo giudiziale della effettività della ragione del recesso non è problematica di poco conto in considerazione del rilevante principio per cui la libertà di iniziativa economica sancita dall’art. 41 Cost. risulta essere il confine entro cui il giudice deve muoversi nel verificare la legittimità del licenziamento; un confine invalicabile che ne traccia anche la strada interpretativa.[21]

Risulta estremamente semplicistico, tuttavia, definire legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo tutte le volte in cui lo stesso sia fondato su ragioni economiche.

Se così fosse, risulterebbe conveniente per il datore di lavoro ricorrere alla fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in luogo di quello disciplinare, risultando così sempre legittime le scelte del datore di lavoro di tipo economico organizzativo comunque assunte e tracciando la strada per l’affermazione di un presunto – quanto mai pericoloso – principio di insindacabilità tout court di tali determinazioni.

Dove, allora, tracciare il solco? Dove porre il limite alle scelte imprenditoriali?

Verosimilmente, il reale strumento offerto al giudice del lavoro – e che ci aiuta anche nella definizione della nozione di giustificato motivo – è la possibilità di verificare il nesso di causalità tra la scelta imprenditoriale e la reale esigenza economico-organizzativa. Senza tralasciare, tuttavia, il controllo della impossibilità di reimpiego del prestatore (c.d. obbligo di “repêchage”), cosicché il licenziamento deve costituire l’extrema ratio.

Il giudice effettuerà controlli di coerenza e adeguatezza (attraverso la sussistenza del c.d. nesso di causalità), necessità (con la verifica dell’avvenuto tentativo di repêchage) e proporzionalità del sacrificio imposto dall’atto per la realizzazione del fine tutelato[22]. Il tutto sempre tenendo conto della ponderazione, per via giudiziale, degli interessi in gioco in funzione esplicativa del principio di solidarietà sociale[23].

Questa, in sintesi, appare la “cartina di tornasole” dell’interpretazione rimessa al giudice su cui far vertere l’intera attività di controllo e che consente al magistrato di valutare, ex post, la genuinità della scelta imprenditoriale.

In concreto, secondo l’interpretazione maggioritaria della giurisprudenza, la “verifica giudiziale sulle ragioni organizzative giustificatrici del licenziamento investe soltanto il profilo dell’effettività dei motivi addotti dal datore di lavoro, sul qual grava anche l’onere di provare l’inesistenza di posizioni lavorative analoghe a quella soppressa”[24].

La giurisprudenza, infatti, esige che il datore di lavoro dimostri in giudizio, in modo rigoroso, il nesso causale tra la contingenza imprenditoriale che ha determinato l’estromissione e la posizione del lavoratore licenziato[25].

L’insieme di queste regole, a parere della giurisprudenza, non confligge con il principio di insindacabilità delle scelte organizzative: il sindacato giudiziale si limita, infatti, al solo controllo all’effettività della ragione imprenditoriale e, quindi, alla verifica dell’esistenza di un nesso di consequenzialità tra tale scelta e il licenziamento ma non può interferire sull’an e il quomodo della motivazione posta alla base del recesso[26].

Da quanto fin qui esposto è possibile delineare una nozione “integrata” di giustificato motivo oggettivo utile anche per gli approfondimenti ulteriori della fattispecie e che individua nello stesso istituto uno strumento con funzione limitativa del recesso del datore di lavoro.[27]

Problematiche sui limiti del controllo giudiziale sull’effettività della ragione del recesso: la querelle sul licenziamento per mere esigenze di profitto.

La nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo va intesa come extrema ratio nel conflitto d’interessi tra datore di lavoro e lavoratore: le ragioni di ordine produttivo ed organizzativo devono essere tali nella loro oggettività e senza alcun margine di arbitrarietà datoriale, da determinare conseguentemente l’inutilizzabilità della prestazione lavorativa[28].

In base al prevalente indirizzo della Cassazione tale tipologia di licenziamento deve essere motivata non da un generale ridimensionamento dell’attività imprenditoriale ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore. In particolare, a parere della Suprema Corte, l’esigenza di riduzione dei costi deve essere “imposta non da un generico ed astratto timore di conseguenze sfavorevoli, ma da una concreta e seria ragione (non occasionale, perché la stabilità del rapporto come fatto tendenzialmente permanente non può essere vinta da difficoltà contingenti) relativa all’utile gestione dell’azienda - nell’ambito dell’economia di mercato - e non di per sé all’accrescimento dei profitti”[29].

Sulla nozione di giustificato motivo nell’interpretazione giurisprudenziale deve necessariamente segnalarsi la recente sentenza della Corte di Cassazione del 7 dicembre 2016, n. 25201, oggetto di vari dibattiti dottrinali che, nel prendere in considerazione la tematica della legittimità o meno del licenziamento determinato da un risparmio del costo del lavoro, effettua un’articolata e completa ricostruzione sistematica dei vari indirizzi esistenti in giurisprudenza della fattispecie del giustificato motivo, giungendo a sostenere, da una parte, l’insindacabilità della scelta datoriale, dall’altra, il necessario controllo giudiziale dell’effettività della ragione posta alla base del recesso[30].

 Risulta utile riportare, ai fini di una migliore comprensione del ragionamento decisorio dei giudici di legittimità, il principio stabilito da tale decisione del 7 dicembre 2016: “ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 della L. n. 604 del 1966, l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa”.

Tale ultimo arresto di legittimità tenta di fare chiarezza anche sul contrasto esistente in giurisprudenza sulla questione della legittimità o meno del licenziamento quando le ragioni poste a fondamento dello stesso sono riconducibili, principalmente, ad un ridimensionamento dell’attività imprenditoriale meramente strumentale ad un incremento di profitto.

La Suprema Corte infatti, nel 2015, con due decisioni ravvicinate nel tempo, ha dichiarato illegittimi due licenziamenti che in sostanza erano stati motivati da un mero vantaggio economico perseguito con una riduzione del costo del lavoro, confermando il proprio orientamento sulla rilevanza del controllo giudiziale sull’effettività della ragione posta alla base del recesso.

La prima sentenza, n. 5173 del 16 marzo 2015, ha accertato l’illegittimità del recesso sia per l’inesistenza di commesse sia per la mancanza di nesso di causalità tra la soppressione del posto di lavoro e il contratto di appalto stipulato molto prima del recesso, così confermando il principio di diritto più volte ribadito in giurisprudenza secondo cui “il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, della L. 15 luglio 1996, n. 604, ex art. 3, è determinato non da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento del profitto ma deve essere diretta a fronteggiare situazione sfavorevoli non contingenti”[31].

La seconda decisione, n. 12242 del 12 giugno 2015, ha invece dichiarato l’illegittimità del provvedimento espulsivo non ritenendo valido quale motivo del recesso un riassetto organizzativo posto in essere con l’attribuzione a nuovi soci delle mansioni precedentemente svolte dalla lavoratrice licenziata affermando in merito che “non costituisce giustificato motivo oggettivo, idoneo, in quanto tale, a giustificare il licenziamento del lavoratore per soppressione del posto di lavoro conseguente alla riorganizzazione aziendale, il subingresso nella società datoriale di nuovi soci lavoratori adibiti allo svolgimento delle mansioni prima assegnate al lavoratore licenziato. La circostanza che i predetti soggetti, a prescindere dalla configurabilità o meno in capo ad essi della qualifica di soci-lavoratori, siano impiegati nello svolgimento delle mansioni in precedenza svolte dal prestatore licenziato, invero, esclude chiaramente che il riassetto organizzativo, posto dal datore di lavoro alla base dell'intimato licenziamento, sia diretto a fronteggiare situazioni sfavorevoli e non contingenti, idonee ad influire sulla normale attività produttiva, imponendo una effettiva riduzione dei costi”[32].

Il denominatore comune di entrambe le sentenze riguarda l’opzione interpretativa, ricavata dalla lettura combinata dell’art. 3 della Legge n. 604 del 1966 e dell’art. 41, 2° comma, Cost., secondo cui la risoluzione aziendale che determina il recesso non può mai essere motivata da mere esigenze di profitto[33].

Il recesso non è totalmente libero, altrimenti si lascerebbe il lavoratore esposto all’arbitrio datoriale. Premesso, infatti, che la riduzione dei costi è un obiettivo legittimo per ogni imprenditore, tuttavia è illegittimo il licenziamento volto solo al conseguimento di un maggior profitto imprenditoriale, perché sicuramente l’estromissione di un lavoratore riduce i costi salariali.

In merito, si segnalano i principi della giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione, secondo cui sono illegittimi i licenziamenti intimati per giustificato motivo oggettivo che mirino solo ad una maggior redditività attraverso la sostituzione di lavoratori più costosi con lavoratori meno costosi, precari, interinali, in stage[34].

Per completezza del ragionamento sin qui svolto, appare opportuno riportare un passo significativo della sentenza delle Sezioni Unite del 11 aprile 1994, n. 3353 che fissa i limiti del recesso per motivo oggettivo affermando che “il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’articolo 3 della Legge numero 604 del 1966, non può essere determinato da finalità di mero risparmio, come quelle che si raggiungerebbero mediante il licenziamento di un lavoratore più anziano e più costoso e la sua sostituzione con altro più giovane e meno costoso oppure mediante il licenziamento di un lavoratore particolarmente qualificato e la sua sostituzione con altro meno qualificato ma ugualmente idoneo presupponendo, invece, una ristrutturazione aziendale, che comporti la soppressione di determinati posti di lavoro, e la dimostrazione, da parte del datore di lavoro, che il lavoratore licenziato non può essere utilizzato nello stesso o in altri settori dell’attività produttiva”.

In sostanza, secondo la citata decisione delle Sezioni Unite, rientra nella previsione dell’art. 3, L. 15 luglio 1966, n. 604, l’ipotesi di un riassetto organizzativo dell’azienda, attuato al fine di una più economica gestione di essa, ove la decisione imprenditoriale non risulti determinata semplicemente per un incremento del profitto, bensì per far fronte a sfavorevoli situazioni - non meramente contingenti – ininfluenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva[35].

 

Il licenziamento per g.m.o. quale extrema ratio funzionalmente connessa all’obbligo di repêchage nell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale.

Nel corso delle pagine seguenti si tenterà di ripercorrere l’evoluzione giurisprudenziale in tema di repêchage[36], con particolare riferimento alla tematica della ripartizione degli oneri probatori rispetto alla ricerca di posizioni alternative o equivalenti o addirittura inferiori all’interno dell’azienda.

La recente riforma legislativa in tema di mansioni, ossia la disciplina dell’art. 2103 c.c., dettata dal D.Lgs. n. 81 del 2015, consente agli interpreti, siano essi la dottrina o la giurisprudenza, di “allargare” le maglie di tale disposizione codicistica con l’obiettivo di trovare soluzioni tese alla conservazione del lavoro.

Il legislatore, infatti, almeno per le prestazioni successive all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 81 del 2015, sembra aver ormai espunto dall’ordinamento la regola dell’equivalenza delle mansioni. In passato tale principio aveva sollevato non pochi dubbi interpretativi sulla questione se esistesse per il datore un vero e proprio obbligo di ricercare una ricollocazione per il prestatore in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In particolare, il cosiddetto obbligo di repêchage sembrava riferirsi solo alle mansioni equivalenti, pur diverse, ma non anche a quelle inferiori.

L’evoluzione giurisprudenziale in tema di dovere datoriale di repêchage è passata da un risalente orientamento più rigido, che prevedeva tale obbligo solo per mansioni equivalenti[37], ad uno invece più flessibile secondo cui era possibile derogare al divieto di adibizione a mansioni inferiori sul presupposto che fosse prevalente l’interesse del dipendente al mantenimento del posto di lavoro[38].

Occorre allora comprendere fino a che punto debba spingersi la condotta datoriale al fine della salvaguardia del posto di lavoro e, quindi, “se” e “come” possa eventualmente essere limitata la libertà d’iniziativa economica ex art. 41 Cost. tanto da poter considerare il licenziamento come ipotesi estrema.

L’obbligo di repêchage, la cui teorizzazione va ricollegata al concetto del licenziamento quale extrema ratio, risale a elaborazioni dottrinali[39] sviluppate degli anni ‘70, ma ha trovato terreno fertile nella successiva interpretazione giurisprudenziale che, nel tempo, ha tentato di delineare quale fosse il campo di delimitazione delle scelte imprenditoriali tenendo conto del necessario bilanciamento dei contrapposti interessi costituzionalmente garantiti per la tutela del lavoro e per quella dell’impresa (artt. 4 e 41 della Cost.).

In dottrina si è sostenuto che la “regola del repêchage” oltre a rappresentare “l’espressione più significativa del diritto vivente”, costituisce un requisito indispensabile del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, essendo “il risultato imprescindibile del bilanciamento tra i valori costituzionali coinvolti”[40].

Come si è già avuto modo di evidenziare nelle pagine precedenti, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo fonda il proprio presupposto sulla sussistenza di un nesso causale tra la scelta datoriale di recesso dal rapporto di lavoro, derivante dall’esercizio della libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 Cost., e ciascun licenziamento, che dovrà considerarsi legittimo solo se realmente e concretamente determinato dall’esercizio di tale libertà costituzionalmente garantita.

L’indagine del giudice del lavoro deve pertanto limitarsi a vagliare la reale sussistenza dei motivi addotti – e cioè le ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa – e il nesso di causalità tra motivi e licenziamento[41], nonché il rispetto del c.d. dovere di repêchage. Tale obbligo rappresenta lo strumento di ulteriore verifica della correttezza delle scelte imprenditoriali; viene così posto a carico del datore di lavoro che irroga il licenziamento per giustificato motivo oggettivo il dovere di collocare il lavoratore, altrimenti licenziato, in una diversa e proficua posizione all’interno dell’azienda[42].

L’osservanza del c.d. obbligo di repêchage non imporrebbe modifiche organizzative, posto che il datore di lavoro può allegare la non disponibilità di posti caratterizzati da mansioni equivalenti nell’organizzazione aziendale esistenti al momento del licenziamento[43].

Tuttavia, una pronuncia della Suprema Corte ha affermato il principio per cui, in materia di obbligo di repêchage, risulta illegittimo il licenziamento del lavoratore, qualora il datore di lavoro non riesca a dimostrare di non poter ricollocare il lavoratore in altri rami dell’azienda valutando addirittura le sedi all’estero dell’azienda[44].

È stato anche affermato che non risulta ontologicamente incompatibile con l’esistenza di un ridimensionamento aziendale la scelta dell’imprenditore di procedere a nuove assunzioni nel senso che di per sé tale decisione non rappresenta la fonte di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; il giudice in tal caso dovrà effettuare la propria valutazione con riferimento al ruolo e alle mansioni di pertinenza del singolo lavoratore all’interno dell’azienda.[45]

Ricollegandosi poi al principio del licenziamento quale extrema ratio, è stato sostenuto in giurisprudenza che il datore di lavoro, prima di adottare il provvedimento espulsivo, deve dar prova del fatto che il lavoratore licenziando non è altrimenti utilizzabile nel contesto aziendale in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell’attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito[46].

Il previgente art. 2103 c.c., infatti, stabiliva il principio per cui il lavoratore doveva essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che avesse successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione.

Si è discusso in dottrina e giurisprudenza sull’ammissibilità dello spostamento del lavoratore a mansioni inferiori – in deroga al citato art. 2103 c.c. – qualora ciò risultasse necessario per evitare il licenziamento e vi fosse il consenso delle parti[47]. I giudici di legittimità hanno ritenuto che l’applicazione di tale principio (ossia l’adibizione a mansioni inferiori) sia consentita solo incidentalmente e marginalmente, per ragioni di efficienza ed economia del lavoro, o addirittura di sicurezza[48]. È sempre richiesta la condizione dell’extrema ratio, nel senso che la dequalificazione deve risultare quale misura alternativa al più grave strumento del licenziamento, e che il lavoratore presti il proprio il consenso, che potrà essere espresso anche per facta concludentia[49].

Il dovere di ripescaggio si fonda sulla considerazione che l’attività lavorativa è vincolata al servizio dell’azienda intesa nel suo complesso e non solo con riferimento alla mansione assegnata al prestatore o al reparto in cui il medesimo espleta concretamente la propria prestazione lavorativa. Ne consegue che sull’imprenditore-datore di lavoro grava l’onere probatorio della impossibilità di avvalersi della collaborazione del dipendente in altre attività aziendali[50].

In assenza di tale prova, infatti, il licenziamento è illegittimo per violazione dell’obbligo di repêchage[51].

Infine, l’obbligo di repêchage non sussiste qualora il licenziamento sia sorretto da un giustificato motivo oggettivo dovuto ad impossibilità sopravvenuta della prestazione per dolo o colpa del lavoratore. Secondo la giurisprudenza prevalente, in questo caso il datore di lavoro non deve fornire la prova di non aver potuto adibire il lavoratore ad altro posto nell’azienda, anche con mutamento di mansioni o di ruoli aziendali, essendo tale prova necessaria solo quando l’impedimento non sia addebitabile al lavoratore[52].

La recente giurisprudenza della Corte di Cassazione sull’obbligo di repêchage quale elemento costitutivo della fattispecie del licenziamento per g.m.o.: l’onere della prova a carico esclusivo del datore di lavoro e conseguenze sanzionatorie.

Ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’onere di provare la sussistenza delle ragioni economiche o organizzative di cui all’art. 3, L. n. 604/1966 grava sul datore di lavoro, il quale è altresì chiamato a provare l’impossibilità di un diverso utilizzo del lavoratore nell’ambito aziendale, c.d. obbligo di repêchage, da considerarsi come elemento costitutivo della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Ciò in quanto il giustificato motivo oggettivo, come declinato dall’art. 3, L. n. 604 del 1966, è rimasto invariato e non è stato inciso minimamente dalla riforma del 2012 (c.d. legge Fornero).

Sicché, poiché il giustificato motivo oggettivo si compone di tre elementi, ovvero: (1) la ragione posta alla base del recesso, (2) il nesso causale tra questa e le insindacabili valutazioni organizzative dell’imprenditore e (3) l’inutilizzabilità aliunde del prestatore per la ingiustificatezza «qualificata» del recesso, può ritenersi come sufficiente anche la carenza di uno solo degli elementi della fattispecie, ivi compreso il repêchage, per determinare l’illegittimità del licenziamento.

Nel tempo, la dottrina si è divisa sulla rilevanza del repêchage quale presupposto della legittimità del recesso. La tematica sulla quale si sono incentrate le discussioni degli autori è se la violazione di tale onere comporti o meno la legittimità del recesso[53].

Tale problematica ha avuto ulteriori motivi di riflessione a seguito della L. 28 giugno 2012, n. 92 che, modificando il regime sanzionatorio applicabile in caso di licenziamento illegittimo, ha creato non pochi dubbi interpretativi sulla definizione di «manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento» che dà accesso alla tutela reale.

In particolar modo, la dottrina e la giurisprudenza si sono domandate se la violazione dell’obbligo di repêchage rientri o meno nella <> e comporti, in caso di sua inosservanza, la tutela reintegratoria.

Secondo parte della dottrina, l’obbligo di repêchage non rientra tra gli elementi costitutivi della fattispecie del giustificato motivo oggettivo comportando, in caso di violazione dello stesso, non la reintegrazione del lavoratore, ma solo la sanzione indennitaria di cui al comma 5 dell’art. 18, L. n. 300 del 1970 (come modificata dalla L. n. 92/20012)[54].

Altri autori, invece, hanno sostenuto che il repêchage sia un elemento costitutivo del giustificato motivo oggettivo e rientri pienamente nel “fatto”, la cui violazione determina quindi l’insussistenza del fatto e la conseguente reintegrazione del lavoratore[55].

La giurisprudenza sul punto, con indirizzo maggioritario, ha ritenuto che la violazione dell’obbligo di repêchage non rientri nel fatto posto alla base del recesso ma che esso rappresenti solo una conseguenza dello stesso. Dal punto di vista della sanzione applicabile quindi non troverebbe ingresso la tutela reintegratoria ma solo quella risarcitoria ex art. 18, co. 5, St. lav..[56]

In materia, tuttavia, si è recentemente espressa la Suprema Corte che con due arresti del 2016, le sentenze n. 5592 del 22 marzo e la n. 12101 del 13 giugno 2016, ha chiarito come debba interpretarsi l’obbligo di repêchage in caso di licenziamento per motivo oggettivo, analizzando con particolare rigore la tematica della ripartizione dell’onere della prova tra le parti[57].

L’orientamento giurisprudenziale prevalente sino alle sentenze di Cassazione del 2016 riteneva, da una parte, che il datore di lavoro, stante la previsione dell’art. 5, L. n. 604 del 1966, avesse l’onere di provare l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte e, dall’altra, che quest’ultimo dovesse collaborare nell’accertamento di un possibile repêchage, allegando l’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato; solo a seguito di tale puntuale “allegazione” conseguiva l’obbligo del datore di provare la non utilizzabilità del licenziato nelle posizioni lavorative indicate dal prestatore[58].

L’onere di allegazione del lavoratore doveva essere assolto mediante deduzioni puntuali e circostanziate, essendo necessario che venissero date indicazioni specifiche circa mansioni o ruoli liberi nel complesso aziendale[59].

Le sentenze della Suprema Corte del 2016 suscitano, invece, particolare interesse in quanto in totale controtendenza rispetto al precedente indirizzo giurisprudenziale[60], affermano il principio per cui l’onere della prova sull’impossibilità di repêchage incombe totalmente sul datore di lavoro, non essendo invece il lavoratore onerato di alcuna allegazione in tal senso.

Appare quindi opportuno analizzare concretamente i principi espressi da tali pronunce per comprendere quale sia stato il ragionamento decisorio che ha portato i giudici di legittimità a discostarsi dal precedente indirizzo giurisprudenziale.

 La prima sentenza è la n. 5592 del 22.03.2016 di cui, per una miglior comprensione della fattispecie, sembra utile riportarne per intero un passaggio significativo della motivazione ove si stabilisce: “la L. n. 604 del 1966, art. 5 è assolutamente chiara nel porre a carico del datore di lavoro “l’onere della prova della sussistenza […] del giustificato motivo di licenziamento”: ed in tale senso esso è interpretato in ordine al controllo giudiziale dell’effettiva sussistenza del motivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, addotto dal datore di lavoro, essendo invece insindacabile la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost. (Cass. 14 maggio 2012, n. 7474; Cass. 11 luglio 2011, n. 15157). Ed in esso rientra il requisito dell’impossibilità di repêchage, quale criterio di integrazione delle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, nella modulazione della loro diretta incidenza sulla posizione del singolo lavoratore licenziato, derogabile soltanto quando il motivo consista nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile (dovendo in tal caso il datore di lavoro pur sempre improntare l'individuazione del soggetto da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell'art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e quindi anche il recesso di una di esse: Cass. 28 marzo 2011, n. 7046) ….Ed allora, la domanda del lavoratore è correttamente individuata, a norma dell'art. 414 c.p.c., nn. 3 e 4, da un petitum di impugnazione del licenziamento per illegittimità e da una causa petendi di inesistenza del giustificato motivo così come intimato dal datore di lavoro, cui incombe pertanto la prova, secondo la previsione della L. n. 604 del 1966, art. 5, della sua ricorrenza in tutti gli elementi costitutivi, in essi compresa l'impossibilità di repêchage: senza alcun onere sostitutivo del lavoratore alla sua controparte datrice sul piano dell'allegazione, per farne conseguire un onere probatorio (offrendogli, per così dire, l’affermazione del fatto da provare)”.

I giudici di legittimità, pertanto, aderiscono a una interpretazione estensiva del dovere di repêchage, laddove annoverano l’impossibilità della ricollocazione del dipendente tra i requisiti del giustificato motivo inquadrandolo, più precisamente, “quale criterio di integrazione delle ragioni inerenti all'attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, nella modulazione della loro diretta incidenza sulla posizione del singolo lavoratore licenziato”.

Tale profilo è approfondito nella seconda delle suddette decisioni, la n. 12101 del 13 giugno 2016, in cui si esclude espressamente che l’impossibilità del repêchage debba formare oggetto di apposita contestazione da parte del lavoratore. Secondo tale decisione l’obbligo di ripescaggio non può considerarsi un fatto estintivo autonomo rispetto all’esistenza delle ragioni produttive e organizzative addotte dal datore di lavoro alla base del recesso, trattandosi di due aspetti del medesimo fatto estintivo (il giustificato motivo oggettivo, appunto), fra loro inscindibili in quanto la mancanza di uno di tali elementi rende illegittimo il licenziamento.

Afferma, infatti, la Suprema Corte, con l’ultima citata pronuncia, “né può dirsi che l’impossibilità del repéchage costituisca autonomo fatto estintivo rispetto all’esistenza di ragioni tecniche, organizzative e produttive tali da determinare la soppressione d'un dato posto di lavoro e, come tale, richieda un’apposita autonoma contestazione da parte del lavoratore: si tratta - invece - di due aspetti del medesimo fatto estintivo (il giustificato motivo oggettivo, appunto), fra loro inscindibili perché l’uno senza l’altro “è” (ndr) inidoneo a rendere valido il licenziamento (alla stregua della costante giurisprudenza sopra richiamata)”.

Alla luce di tali principi espressi dalla Cassazione, si può sostenere che il repêchage integra appieno uno degli elementi costitutivi del giustificato motivo oggettivo e completa così tale fattispecie.

Il datore di lavoro dovrà quindi dimostrare l’incidenza delle ragioni poste alla base del recesso sulla posizione del singolo lavoratore licenziato, peritandosi di provare anche l’inutilizzabilità aliunde del prestatore[61]. Ed infatti, come sostenuto dalla dottrina, se si aderisce alla tesi della Cassazione secondo cui il ripescaggio attiene agli elementi costitutivi del recesso per giustificato motivo oggettivo e l’onere della prova della sua sussistenza si pone in capo al datore di lavoro ai sensi dell’art. 5, L. n. 604 del 1966, “sarebbe contraddittorio scinderne l’onere di allegazione per farlo gravare parzialmente sulla controparte”[62].

Seguendo la nuova prospettazione offerta dalla Cassazione, con le citate sentenze del 2016, la violazione della regola del repêchage sembra comportare quale conseguenza sanzionatoria la tutela reintegratoria invece che quella risarcitoria, ovviamente nel caso di aziende che superano il requisito dimensionale previsto dalla legge per l’applicazione di tale sanzione e in relazione ai licenziamenti non rientranti nell’ambito di operatività del D.Lgs. n. 23 del 2015.

 

L’obbligo di repêchage anche in mansioni inferiori ai fini della conservazione del posto di lavoro alla luce del Jobs Act (le modifiche del Lgs. n. 81 del 2015)

Si è ampiamente evidenziato come il licenziamento per giustificato motivo oggettivo debba rappresentare l’extrema ratio, ossia il datore può ricorrervi solo se non sussiste alcuna possibilità di ricollocare il lavoratore all’interno dell’azienda in altre mansioni, equivalenti o inferiori.

Al fine del presente elaborato, alla luce degli orientamenti giurisprudenziali sin qui segnalati in materia di repêchage e di ripartizione dell’onere della prova, nonché in virtù delle recenti modifiche legislative (D.Lgs. n. 81/2015) che hanno determinato il superamento del principio dell’inderogabilità delle disposizioni di cui all’art. 2103 c.c. in tema di mansioni equivalenti, sorgono per gli interpreti alcune rilevanti tematiche da risolvere.

Occorre, infatti, dare soluzione alle seguenti questioni: da una parte, se sia o meno legittima la dequalificazione professionale del lavoratore quale rimedio alternativo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo; dall’altra, se tale opzione, finalizzata alla salvaguardia del posto di lavoro, sia riconducibile ad una semplice facoltà o ad un preciso obbligo per il datore di lavoro.

L’approccio interpretativo deve necessariamente considerare che in gioco vi sono rilevanti interessi di natura costituzionale, per i quali occorre trovare un bilanciamento: da una parte, la tutela del posto di lavoro diritto costituzionalmente riconosciuto e garantito; dall’altra, l’insindacabile libertà dell’iniziativa imprenditoriale.

 

Evoluzione normativa e giurisprudenziale del repêchage in mansioni inferiori prima del Lgs. n. 81 del 2015 e la ripartizione dell’onere della prova

L’ammissibilità dell’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori al fine della conservazione del posto di lavoro si è sempre dovuta confrontare con il limite legale posto dall’art. 2103 c.c. che stabiliva espressamente la nullità dei patti in deroga alle disposizioni ivi contenute.

Il legislatore, nel tempo, ha previsto alcune specifiche eccezioni a tale inderogabilità, anche sulla base di un’interpretazione giurisprudenziale che aveva ammesso tale possibilità esclusivamente sulla base del superiore interesse, tutelato costituzionalmente, della conservazione del posto di lavoro. Era possibile, infatti, adibire il lavoratore a mansioni inferiori, ai sensi dell’art. 2103 c.c. ante D.Lgs. n. 81/2015, solo in alcune ipotesi tipiche previste dalla legge come, ad esempio, nel caso della lavoratrice madre nell’interesse della medesima e del bambino (art. 3, L. n. 1204/71, come modificato dall’art. 7, D.Lgs. n. 151/2001), o per la tutela della salute del lavoratore quando sia dichiarato non idoneo alla mansione specifica (art. 42, D.Lgs. n. 81/2008) o nel caso di licenziamenti collettivi (art. 4, comma 11, L. n. 223/1991).

Al di là degli interventi legislativi, la giurisprudenza ha sempre dimostrato una particolare “sensibilità” rispetto alla problematica dell’inderogabilità dell’art. 2103 c.c. mediante aperture innovative con riferimento alla dequalificazione professionale del lavoratore consentendo tale soluzione solo quando essa fosse l’unico rimedio possibile ai fini della conservazione del posto di lavoro.

In tale ottica la magistratura ha sempre permesso i cosiddetti “patti di demansionamento” affermando che la salvaguardia del posto di lavoro prevale finanche sulla tutela della professionalità del dipendente, garantita ex art. 2103 c.c..

Va sul punto segnalata una nota decisione dalla Suprema Corte a Sezioni Unite, la sentenza n. 7755 del 7 agosto 1998, che rappresenta un importante paradigma di riferimento, quasi una stella polare, nell’elaborazione giurisprudenziale sull’ammissibilità del declassamento del lavoratore ai fini della tutela del posto di lavoro per evitare il recesso[63].

I principi espressi da tale provvedimento giudiziale risultano non solo rilevanti ma di estrema attualità, anche in considerazione delle recenti riforme legislative in materia di mansioni, tanto da essere stati recentemente richiamati dalla Cassazione nella sentenza del 9 novembre 2016, n. 22798 (di cui si dirà meglio oltre).

Il caso posto all’esame dei giudici di legittimità del 1998, riguardava il licenziamento di un lavoratore per sopravvenuta infermità in cui la Suprema Corte aveva osservato che la ragione di recesso datoriale poteva ritenersi legittima solo in caso di impossibilità di impiego di quel prestatore a mansioni equivalenti o, in subordine, a mansioni inferiori con il limite che le stesse trovassero riscontro nell’ambito dell’attività imprenditoriali.

La giurisprudenza successiva si è attestata sul principio della prospettazione al dipendente di mansioni inferiori al fine di evitare il recesso per giustificato motivo oggettivo, ciò per trovare un bilanciamento tra le indiscutibili esigenze aziendali (tutelate dall’art. 41 Cost.) e la tutela del bene lavoro (tutelato ex artt. 3 e 4 Cost.)[64].

Tuttavia, secondo l’indirizzo prevalente della Cassazione, l’indagine sull’esistenza di posizioni alternative al fine di evitare il recesso comprendeva, quasi esclusivamente, la ricerca da parte datoriale di diverse soluzioni nell’ambito delle sole mansioni equivalenti rispetto a quelle espletate dal lavoratore in precedenza, ciò in ragione del rispetto del principio della capacità professionale acquisita, essendo invece residuale l’indirizzo che riteneva essenziale tale vaglio anche con riferimento a compiti inferiori[65].

Infatti, gli indirizzi giurisprudenziali in tema di obbligo di repêchage anche in mansioni inferiori sono sempre stati minoritari. Sul punto, ad esempio, si è espressa la Suprema Corte affermando che rientri nell’obbligo di repêchage la cosiddetta “dequalificazione contrattata”, avendo il datore di lavoro l’onere di provare di aver offerto al dipendente mansioni inferiori al fine di ricevere il consenso del medesimo[66].

Con riferimento al tema del ripescaggio e della dequalificazione professionale i giudici di legittimità hanno affermato che “nel caso in cui il demansionamento rappresenti l'unica alternativa praticabile al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro ha l'onere di rappresentare al lavoratore la possibilità di assegnazione a mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale; non è necessario un patto di demansionamento o una richiesta in tal senso del lavoratore coeva al licenziamento”[67].

Tuttavia, tale orientamento giurisprudenziale si è dovuto misurare con un diverso indirizzo della Suprema Corte, prevalente e consolidatosi nel tempo, che ha sempre ritenuto come il datore di lavoro abbia l’onere di provare l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, ma con il limite della natura equivalente di tali compiti che peraltro devono risultare liberi[68].

In base a tale elaborazione giurisprudenziale il datore di lavoro deve tener conto solo della professionalità acquisita dal prestatore durante il rapporto di lavoro e non di quella astrattamente riferibile al medesimo, pretendendosi inoltre da quest’ultimo anche un onere di collaborazione nell’individuazione delle mansioni utili al ripescaggio, sopratutto nelle aziende di medie e grandi dimensioni[69]. Risulta maggioritario in giurisprudenza il principio per cui il lavoratore deve contribuire all’accertamento di un possibile repêchage, mediante un onere di deduzione e allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato[70].

 Conseguentemente, ove il lavoratore non prospettava nel ricorso tale possibilità, neppure insorgeva l'onere per il datore di lavoro convenuto di offrire la prova della concreta insussistenza di tale diverso e conveniente utilizzo del dipendente licenziato[71].

Sino ad oggi, pertanto, l’orientamento giurisprudenziale in tema di repêchage in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo è stato condizionato dal principio dell’equivalenza ex art. 2103 c.c. e, in un certo senso, “imbrigliato” dall’inderogabilità delle disposizioni ivi contenute e, quindi, dal limite legale posto dal rispetto del bagaglio professionale del prestatore.

Sulla base di tali “confini” codicistici, confermati da una più che decennale elaborazione giurisprudenziale, quest’ultima aveva ritenuto, in tema di ripartizione dell'onere di repêchage (come già evidenziato nei precedenti paragrafi), che il datore di lavoro avesse sì l’onere di dimostrare l’impossibilità di ricollocazione del lavoratore, ma che tale obbligo fosse, in un certo senso, “attenuato” dall’ulteriore onere di allegazione posto a carico del dipendente[72].

Alla luce però delle recenti modifiche legislative in tema di mansioni, ove appare superato il limite del rispetto del bagaglio professionale del lavoratore, il compito degli interpreti è quello di comprendere quali siano le effettive ricadute sul rapporto di lavoro e sulla conservazione dello stesso a causa della caduta del “muro” dell’equivalenza ex art. 2103 c.c..

 

L’art. 2103 c.c. a seguito delle modifiche del D.Lgs. 81 del 2015: il superamento della regola dell’equivalenza, l’ammissibilità della dequalificazione professionale e dei patti di declassamento

Il nuovo decreto legislativo n. 81 del 2015, entrato in vigore il 25.06.2015, sostituisce integralmente l’art. 2103 del c.c, introducendo, al primo comma, la seguente formulazione “il lavoratore deve essere adibito a mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a quelle mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.

Il legislatore ha pertanto eliminato dall’ordinamento il riferimento alle mansioni equivalenti che, appunto, costituiva un vero e proprio limite allo ius variandi del datore di lavoro, consentendo così al medesimo un potere più ampio con riferimento alla possibilità di una più flessibile collocazione del prestatore nell’ambito della propria organizzazione del lavoro sia in senso orizzontale sia, soprattutto, in senso verticale verso il basso.

Nel previgente testo dell’art. 2103 c.c., in virtù della prevalente elaborazione giurisprudenziale, la norma imponeva un limite legale invalicabile (se non con le eccezioni espressamente previste dalla legge): il rispetto del bagaglio professionale del prestatore.

Il giudice era infatti chiamato a valutare, al fine di comprendere se vi fosse stata o meno la violazione del previgente art. 2103 c.c., l’osservanza del principio dell’equivalenza e della salvaguardia della capacità professionale del lavoratore, stante dall’inderogabilità delle norme di riferimento.

In concreto, sino al D.Lgs. n. 81/2015, proprio in virtù della regola dell’equivalenza, non era consentito adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle svolte in precedenza, a meno che le stesse non fossero equivalenti a quelle precedentemente svolte, ciò perché le nuove mansioni dovevano avere, come necessario riferimento, l’esperienza posseduta dal lavoratore, in base alla tutela della cosiddetta capacità professionale acquisita.

 In tema di ius variandi in giurisprudenza era quindi principio consolidato quello secondo cui le mansioni che il dipendente doveva svolgere all’interno della società che lo aveva assunto dovessero necessariamente risultare uguali od equivalenti a quelle previste nel livello di inquadramento professionale indicato nel contratto di assunzione[73].

Si richiama sul punto l’interpretazione giurisprudenziale delineata dalla Corte di Cassazione secondo cui “la equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti – che legittima lo jus variandi del datore di lavoro – deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività, ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o anche l’arricchimento del patrimonio professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto, precisandosi, inoltre, che il divieto di variazioni in pejus (demansionamento) opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicché nell’indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente in modo tale da salvaguardare il livello professionale acquisito e da garantire lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti possibilità di miglioramento professionale, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze. A tal fine, quindi – ha affermato la Corte – l’indagine del giudice di merito deve essere volta a verificare i contenuti concreti dei compiti precedenti e di quelli nuovi onde formulare il giudizio di equivalenza, da fondare sul complesso della contrattazione collettiva e delle determinazioni aziendali”[74].

In virtù del principio di equivalenza il datore di lavoro aveva quindi l’obbligo di garantire sia il mantenimento sia l’accrescimento della capacità professionale acquisita.

Invece, a seguito della recente modifica legislativa dell’art. 2103 c.c., visto il tenore della nuova norma, il datore di lavoro potrà assegnare unilateralmente il dipendente a qualsiasi mansione, purché riconducibile allo stesso livello e categoria di inquadramento di quelle ultime effettivamente svolte, avendo quale unico riferimento quello delle declaratorie e i profili professionali descritti del contratto collettivo, oppure, a mansioni inferiori in base a situazioni specificatamente disciplinate.

Il nuovo art. 2103 c.c. prevede, infatti, la possibilità per il datore di lavoro di adibire il prestatore a mansioni inferiori stabilendone il presupposto giuridico al comma 2, ossia “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”.

Si evidenzia, altresì, che con la nuova riforma dell’art. 2103 c.c. è consentito anche un ulteriore caso di dequalificazione professionale attraverso un “patto di declassamento” il cui obiettivo è la tutela del posto di lavoro. Le disposizioni di cui al comma 6 dell’art. 2103 c.c. stabiliscono infatti: “nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita […]”.

Tale norma detta le tipizzazioni legali che consentono il cosiddetto “patto in deroga” alle mansioni del livello posseduto; tra tali ipotesi viene espressamente prevista quella della “conservazione del posto di lavoro”.

In dottrina si è sostenuto che con tale disposizione “il legislatore sceglie alcuni particolari interessi del lavoratore (...) e li tipizza in via tassativa: essi giustificano e rendono valida la stipulazione dei patti in deroga”[75]. Altro autore definisce tale novità normativa come il riconoscimento della “legiferazione del cosiddetto patto di declassamento”[76] di elaborazione giurisprudenziale.

La fattispecie del “patto di dequalificazione” trova così una nuova fonte normativa che si aggiunge a quelle precedenti anche sulla base del presupposto causale della conservazione dell’occupazione.

 

L’art. 2103 c.c. riformato e il repêchage anche in mansioni inferiori nell’interpretazione della dottrina: obbligo o facoltà per il datore di lavoro?

In base alle recenti modifiche legislative in tema di mansioni emerge come il datore di lavoro, in caso di licenziamento per motivo oggettivo, non sia più “ancorato” ai fini del repêchage al rispetto della regola dell’equivalenza dettata dalla precedente formulazione dell’art. 2103 c.c., come anche dimostrato dal fatto che oggi è possibile stipulare con il prestatore patti di dequalificazione.

Il tema, pertanto, è se sussista per il datore (in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo) un obbligo o una mera facoltà di ricercare mansioni inferiori per la tutela dell’occupazione. È necessario infatti comprendere se il datore di lavoro, ai fini della salvaguardia del posto di lavoro, prima di procedere al licenziamento abbia il dovere di trovare per il lavoratore posizioni alternative non solo con riferimento a mansioni riconducibili alla categoria di appartenenza o, comunque, al livello posseduto dal prestatore al momento del recesso, ma anche a quelle di tipo inferiore.

A tale quesito, proprio alla luce della nuova formulazione dell’art. 2103 c.c., sembra potersi dare risposta positiva. Le nuove disposizioni, infatti, sembrano imporre al datore di lavoro, prima di poter disporre il recesso per giustificato motivo oggettivo, una ricerca non solo di tipo orizzontale di mansioni equivalenti o riferibili alla medesima categoria o, comunque, al livello posseduto dal prestatore, ma anche un’indagine di tipo verticale verso il basso, per verificare la possibilità di ricollocare il lavoratore.

Le prime interpretazioni della dottrina su tale aspetto hanno tuttavia mostrato opinioni discordanti.

A parere di alcuni autori, proprio in ragione delle nuove disposizioni dell’art. 2103 c.c., sorge per il datore di lavoro un obbligo di repêchage anche in mansioni inferiori[77].

La dottrina prevalente, per contro, ha sostenuto che non sia rinvenibile in virtù del nuovo art. 2103 c.c. un obbligo per il datore di lavoro di esercitare lo ius variandi in pejus ex commi 2 e 4 per evitare il recesso del lavoratore, “essendo inammissibile che il “può” di cui al comma 2 diventi un deve in quanto l’esercizio di quel potere rientra nella libera scelta dell’imprenditore”[78]. Secondo tale tesi, una diversa impostazione potrebbe incorrere in una pronuncia di incostituzionalità in quanto il comma 5 della norma imporrebbe al datore, in caso di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori, di mantenere la stessa retribuzione. In tal modo, il datore di lavoro verrebbe onerato di costi aggiuntivi concedendo “al dipendente una sorta di qualifica convenzionale o un superminimo per salvargli il posto”[79]. In merito, si è anche sostenuto che “sarebbe irrazionale per non dire paradossale addossare al datore di lavoro un obbligo di repêchage su mansioni inferiori con conservazione del maggior costo retributivo delle superiori mansioni in precedenza svolte” [80]; conseguentemente, il repêchage sulle mansioni inferiori potrebbe essere consentito solo attraverso un patto di dequalificazione in sede protetta[81], come previsto e disciplinato espressamente dal c. 6 dell’art. 2103 c.c..

Tali argomentazioni sono condivise anche da altro autore che, facendo leva sul comma 5 dell’art. 2103 c.c. riformato, afferma che, in caso di adibizione a mansioni inferiori, il lavoratore conserva però il medesimo trattamento retributivo, con ciò dimostrando l’onerosità di una tale scelta per il datore di lavoro. Pertanto, dalla disposizione in parola “non può farsi discendere un generale obbligo per il datore di lavoro di assegnare al dipendente il cui posto di lavoro sia stato soppresso a mansioni inferiori (se disponibili) ai sensi e con gli effetti del secondo comma del nuovo art. 2103 c.c.”[82]. Secondo questa ultima tesi l’imprenditore, in caso in cui decida di sopprimere il posto di lavoro, avrebbe solo un onere prima di intimare il recesso, ossia quello di “proporre al lavoratore interessato la stipula di un accordo ai sensi del sesto comma dell’art. 2103 c.c.”

Solo in caso di rifiuto da parte del dipendente a stipulare tale patto di declassamento, il datore può procedere legittimamente al licenziamento “senza che sia ipotizzabile, a suo carico, un onere di assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori ai sensi del secondo comma dello stesso articolo”[83].

In dottrina è stato anche sostenuto che seppur non esista un obbligo datoriale di formazione in caso di mutamento di mansioni tramite una transazione, tuttavia è ben possibile che in sede conciliativa le parti possano pattuire “la necessità di un’adeguata formazione, che anzi potrebbe costituire un elemento essenziale dell’accordo se motivato dall’interesse del dipendente ad acquisire una diversa professionalità”[84].

Per completezza, si segnala anche un’altra impostazione dottrinale che, con riferimento al comma 2 dell’art. 2103 c.c., ritiene non si possa rinvenire nella “modifica degli assetti organizzativi aziendali” che incida sulla posizione del lavoratore la tipizzazione di un caso di giustificato motivo oggettivo, trattandosi di ipotesi non riconducibile a tale fattispecie risolutoria, per integrare la quale occorrerebbe invece anche il nesso causale.[85] Secondo tale teoria se il legislatore “avesse voluto riferirsi al demansionamento semplicemente quale rimedio ad un possibile recesso per g.m.o., lo avrebbe più chiaramente sancito”[86]. Conseguentemente, a parere di tale interprete, non sarebbe configurabile neppure un obbligo di repêchage, in quanto le nuove disposizioni normative in tema di mansioni inferiori disciplinano tale possibilità solo a condizione di determinati presupposti (espressamente previsti dalle norme) mediante l’esercizio di un potere da parte del datore o di un accordo tra le parti[87].

Tuttavia, a parere di chi scrive, le tesi sulla non configurabilità di un obbligo repêchage anche in mansioni inferiori alla luce del riformato art. 2103 c.c. non appaiono condivisibili.

I presupposti di tali assunti si scontrano con due principi funzionalmente collegati tra loro: da una parte, l’obbligo di repêchage ex art. 5, L. n. 604 del 1966 (da configurarsi quale elemento costitutivo della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo[88]), dall’altra, quello di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c.[89], entrambi connessi eziologicamente e che, proprio in virtù di tale collegamento funzionale, impongono al datore di vagliare ogni soluzione possibile tesa alla conservazione del posto di lavoro, compresa quella di assegnare il dipendente anche a mansioni inferiori.

Senza dimenticare che vi è un orientamento giurisprudenziale, seppur minoritario, secondo cui sebbene il giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive sia rimesso alla valutazione del datore di lavoro, come espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., esso tuttavia incorre nel limite della “utilità sociale” di cui al comma 2 dell’art. 41 della Cost.; pertanto, secondo tale impostazione della Suprema Corte, il recesso deve essere pur sempre contemperato con il rispetto della dignità umana, trattandosi di diritto fondamentale della persona richiamato dalla stessa norma costituzionale nonché dalla legislazione del lavoro anche in relazione al diritto alla conservazione del posto di lavoro sul quale si fondano sia l’art. 18 St. Lav. che l’art. 30 del Trattato di Lisbona del 31 dicembre 2007, entrato in vigore dal 1° gennaio 2009[90].

Tale indirizzo riprende il principio costituzionale per cui l’iniziativa imprenditoriale non è libera in termini assoluti, traendosi in tal senso un apposito limite dall’utilità sociale prevista appunto dal secondo comma dell’art. 41 Cost..

Peraltro, non va sottaciuto che la salvaguardia del posto di lavoro trova un fondamento costituzionale nell’art. 4 che infatti persegue tale obiettivo, quantomeno quale finalità del nostro ordinamento. Al riguardo, si è però sostenuto in dottrina come “non esista nel nostro ordinamento un diritto alla stabilità o un diritto al lavoro inteso come criterio in grado di integrare i precetti di legge ordinaria”[91]. È pur vero che la stabilità del lavoro non è un obbligo, ma la sua conservazione trova presupposti costituzionali ed è eziologicamente connessa alla tesi del licenziamento quale extrema ratio[92].

Conseguentemente, anche in considerazione dell’orientamento giurisprudenziale e dottrinale che fa leva appunto su un bilanciamento di valori costituzionali tra il potere d’iniziativa imprenditoriale e l’utilità sociale, il datore di lavoro ha l’obbligo di tutelare il posto di lavoro non solo in ragione di un adempimento contrattuale (derivante appunto dal contratto di lavoro), ma anche in virtù dei nuovi doveri civilistici ex art. 2103 c.c. che gli consentono la possibilità, in passato giuridicamente preclusa se non con alcune eccezioni tipizzate dalla legge, della salvaguardia dell’occupazione adibendo il lavoratore a mansioni inferiori.

Il licenziamento deve risultare quindi l’extrema ratio, avendo l’imprenditore l’onere di dimostrare di aver tentato ogni possibile soluzione alternativa al recesso, adibendo il lavoratore a mansioni inferiori o proponendo al medesimo patti di dequalificazione, incorrendo altrimenti in una violazione dei doveri di correttezza e buona fede[93] ex artt. 1175 e 1375 c.c. e dei principi costituzionali tesi alla conservazione del posto di lavoro, come sopra individuati.

Se non si tengono in debita considerazione tali principi fondamentali del nostro diritto positivo, come peraltro elaborati nel tempo dalla dottrina e dalla giurisprudenza, si rischia di ricadere nella fattispecie del licenziamento per mero profitto[94], giustificato da una riduzione del costo di lavoro ipotesi questa che, seppur ritenuta in astratto legittima dalla sentenza della Cassazione del 7 dicembre 2016, deve avere come fondamento una ragione reale. In ogni caso, è sempre onere del datore di lavoro dimostrare il nesso di causalità tra la scelta imprenditoriale e la posizione soppressa e, quindi, l’esistenza di un effettivo mutamento dell’organizzazione tecnico-produttiva[95].

Infatti, il licenziamento del lavoratore ha quale conseguenza la riduzione del costo del lavoro, ragione questa che per essere legittima deve avere come presupposto causale l’inevitabilità della scelta imprenditoriale; tale scelta, dunque, se non tiene conto della possibilità di una ricollocazione del dipendente anche in mansioni inferiori, rischia di risolversi in una ingiustificata riduzione del costo di lavoro.

Pertanto, all’obbligo datoriale di repêchage in mansioni equivalenti, di elaborazione giurisprudenziale, deve essere aggiunto anche quello, oggi di tipo legale, dell’impossibilità di ricollocazione del prestatore in mansioni inferiori che trova uno specifico supporto normativo nella nuova disciplina dell’art. 2103 c.c..

Risulta, infine, non condivisibile la tesi sostenuta in dottrina secondo cui sarebbe “irrazionale” addossare al datore di lavoro l’obbligo di repêchage su mansioni inferiori sul presupposto che il nuovo art. 2103 c.c. non preveda un obbligo formativo, in base a quanto previsto dal 3° comma.

In tal senso, alcuni autori (come citati nelle pagine precedenti), sostengono che il nuovo art. 2103 c.c. non può essere interpretato nel senso di imporre al datore l’onere di adattare la professionalità posseduta dal lavoratore a mansioni inferiori.

Anche tale tesi non è condivisibile in quanto se è proprio il legislatore a consentire la possibilità di dequalificare il prestatore o nei casi di riorganizzazione aziendale (comma 2) o in quello di appositi patti per la conservazione del posto di lavoro (comma 6), senza imporre all’imprenditore alcun obbligo formativo su tale dequalificazione, non si comprende perché al lavoratore non possa essere proposta l’adibizione a mansioni inferiori al fine della salvaguardia del posto di lavoro.

È proprio la mancanza di un obbligo formativo che non impone al datore di supportare costi economici ulteriori, essendo il medesimo ora legittimato, per legge, a ricollocare il dipendente a mansioni inferiori.

Gli obblighi a carico del datore di lavoro in materia di repêchage, dunque, sono sempre gli stessi e non risultano “attenuati” in ragione delle nuove disposizioni dell’art. 2103 c.c. ma, semmai, “aggravati” (nel senso di una maggiore cogenza).

Infatti, essendo venuta meno la regola dell’equivalenza, in ragione di quanto sin qui argomentato, oggi è consentito al datore di lavoro un repêchage per così dire “allargato” anche alle mansioni inferiori.

 

L’esegesi giurisprudenziale dopo il Jobs Act (D.Lgs. n. 81 del 2015): sussistenza di un obbligo di repêchage del lavoratore anche in mansioni inferiori

Come sin qui esposto, la modifica della norma sullo ius variandi (articolo 2103 c.c., come novellato dal D.Lgs. n. 81/2015) ha inevitabili ricadute anche sull’obbligo di repêchage che, proprio in virtù delle nuove disposizioni, risulta sicuramente dilatato sia in senso orizzontale che verticale verso il basso, dovendo tale dovere avere, come parametro di riferimento, non solo tutte le mansioni riferibili al livello di inquadramento del dipendente ma anche quelle di livello inferiore.

Appare quindi di rilevante interesse verificare quale sia attualmente l’interpretazione della giurisprudenza in tema di repêchage in mansioni inferiori dopo la modifica dell’art. 2103 c.c.; ciò sempre al fine di rispondere al quesito se da tale nuova disposizione discenda o meno per il datore di lavoro, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, un obbligo di ricollocazione del prestatore in mansioni inferiori al fine della conservazione del posto di lavoro.

Il recente orientamento della Suprema Corte sembra riconoscere l’impostazione dottrinale sull’obbligo di repêchage anche in mansioni inferiori, seguitando a fornire un’interpretazione di continuità rispetto al precedente indirizzo giurisprudenziale con riferimento a tale dovere.

 Le sentenze emesse dopo il Jobs Act, seppur riguardanti il vecchio testo dell’art. 2103 c.c., richiamano tuttavia nei propri passaggi motivazionali le nuove disposizioni del D.Lgs. n. 81 del 2015 in tema di mansioni, sostenendo come la nuova disciplina risulti confermativa della sussistenza dell’obbligo di repêchage da estendersi quindi anche alle mansioni inferiori[96].

L’orientamento della Cassazione del 2016[97], che come evidenziato nei paragrafi precedenti detta nuovi principi in tema di ripartizione dell’onere della prova in materia di repêchage (obbligo ormai ritenuto a carico esclusivo del datore di lavoro senza alcuna necessità di allegazione da parte del lavoratore), cambia infatti le “regole del gioco” in quanto tale indirizzo deve essere necessariamente ricondotto alle nuove disposizioni dell’art. 2103 c.c..

La recente interpretazione giurisprudenziale del 2016 ha ormai consolidato la regola per cui l’onere di repêchage è completamente a carico della parte datoriale senza alcun dovere di cooperazione del lavoratore proprio in ragione del “principio di riferibilità o vicinanza della prova conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore a reagire all’inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore, in quanto nella miglior disponibilità degli elementi per dimostrare le ragioni del proprio comportamento”.[98]

Sempre secondo tale arresto della Cassazione è il datore di lavoro che, in ragione della “maggiore vicinanza di allegazione e prova dell’impossibilità di repêchage”, si deve onerare di ricercare posizioni alternative, “non disponendo il lavoratore al contrario del primo, della completezza di informazione delle condizioni dell’impresa, tanto più in una condizione di crisi in cui esse mutano continuamente”[99].

In tal senso, si segnala la sentenza n. 4509 del 2016, che ha posto in capo al datore di lavoro l’onere di provare non solo “che non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, ma anche di aver prospettato al licenziato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un suo impiego in mansioni inferiori”, anche se permangono alcune decisioni di segno opposto[100].

Invero, che la richiamata tesi risulti essere la più aderente alla nuova disciplina in tema di mansioni lo dimostra anche la recente interpretazione della sentenza della Cassazione del 9 novembre 2016, n. 22798[101], che torna a pronunciarsi sul tema dell’obbligo di repêchage in compiti inferiori, tracciando forse un solco su quella che potrebbe essere la futura opzione interpretativa della Suprema Corte a seguito della nuova disciplina delle mansioni ex D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81. Ed invero, la decisione del 9 novembre 2016 effettua infatti una ricostruzione analitica del cosiddetto obbligo di repêchage partendo dal presupposto che la problematica più controversa appare essere proprio quella della possibilità di adibizione a mansioni inferiori[102]. La Corte, pur consapevole della natura complessa della questione dell’ampliamento della ricollocazione del lavoratore, ritiene tuttavia che sia principio errato quello di ritenere che l’obbligo di repêchage gravante sul datore di lavoro “non si estenda anche alle mansioni inferiori a quelle del lavoratore licenziato”.

In tale ricostruzione ermeneutica risulta fondamentale tenere in considerazione l’arresto delle Sezioni Unite (sent. n. 7755 del 1998), consolidatosi con successivo indirizzo giurisprudenziale[103], secondo cui la sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa possono giustificare il recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro subordinato, ai sensi della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3, a condizione che risulti ineseguibile l'attività svolta in concreto dal prestatore e che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni equivalenti ai sensi dell'art. 2103 c.c. ed eventualmente inferiori, in difetto di altre soluzioni.

Si legge poi nelle argomentazioni della sentenza del 9 novembre 2016 che il datore di lavoro è tenuto a ricercare possibili soluzioni alternative ancor prima di procedere al recesso e, ove sia configurabile l’assegnazione a mansioni inferiori, prospettare al prestatore tale dequalificazione professionale; solo qualora la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore allora il datore è libero di recedere dal rapporto[104].

A parere della decisione della Cassazione del novembre 2016, proprio in base ai principi espressi dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 7755 del 1998, l’ampliamento dell’obbligo di repêchage può legittimamente estendersi anche all’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo conseguente a soppressione del posto di lavoro in conseguenza di riorganizzazione aziendale affermando in merito che in questa ipotesi: è infatti ravvisabile una nuova situazione di fatto (inerente al nuovo assetto dell'impresa anziché alla sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore) legittimante il consequenziale adeguamento del contratto, così come identiche sono le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro (prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore); al contempo analoghi devono ritenersi i limiti alla rilevanza della utilizzabilità del lavoratore in mansioni inferiori, da individuarsi nel rispetto dell'assetto organizzativo dell'impresa insindacabilmente stabilito dall'imprenditore e nel consenso del lavoratore all'adibizione a tali mansioni (in termini Cass. n. 4509 del 2016; nello stesso senso Cass. n. 21579/2008).

Va però segnalato sul punto che la dottrina ha commentato negativamente tale arresto della Cassazione affermando che “appare difficile immaginare che da una norma recentemente modificata dal legislatore (art. 3, D.Lgs. n. 81/2015) con la finalità di ampliare, seppure a fronte di specifiche condizioni, il potere direttivo il cui esercizio resta sempre rimesso all’apprezzamento del datore di lavoro, si possa estrarre un precetto che, integrando la disciplina del GMO, imporrebbe in questo caso l’esercizio coattivo di tale potere (incompatibile con la stessa struttura giuridica di un potere), limitando il licenziamento per GMO (in tal senso cfr., da ultimo, Cass., 9 novembre 2016, n. 22798 e Cass., 21 dicembre 2016, n. 26467)[105].

La Corte di Cassazione, tuttavia, ha confermato tale interpretazione esegetica in tema di obbligo di repêchage anche in mansioni inferiori con due successive decisioni.

La prima è la sentenza n. 26467 del 21 dicembre 2016[106], in cui i giudici di legittimità hanno ribadito il principio, più volte espresso in tema di licenziamento per riorganizzazione aziendale[107], secondo cui, fermo restando che l'eventuale patto di demansionamento deve essere anteriore o coevo al licenziamento, il “consenso del lavoratore rispetto alla assegnazione a mansioni inferiori può essere espresso in quanto il datore di lavoro, in ottemperanza al principio di buona fede nell'esecuzione del contratto, gli abbia prospettato la possibilità di un'utilizzazione in mansioni inferiori”.

Secondo tale decisione in caso di licenziamento per la soppressione del posto di lavoro di lavoro il datore di lavoro ha l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro alla quale il dipendente avrebbe potuto essere assegnato per l'espletamento di mansioni equivalenti, ma anche di avergli prospettato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale.

La Suprema Corte sul punto ha, infatti, osservato che “nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo l'onere del datore di lavoro di provare l'adempimento all'obbligo di repêchage va assolto anche in riferimento a posizioni di lavoro inferiori, ove rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore e compatibili con l'assetto organizzativo aziendale; il datore di lavoro, in conformità al principio di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto, è tenuto a prospettare al lavoratore la possibilità di un impiego in mansioni inferiori quale alternativa al licenziamento ed a fornire la relativa prova in giudizio".

L’altra decisione di legittimità da tenere in considerazione è la n. 160 del 5 gennaio 2017, che si è attestata su principi analoghi affermando che l’onere della prova, ex art. 5, L. n. 604 del 1966, circa l’impossibilità di adibire il dipendente licenziato per ragioni oggettive in mansioni analoghe (o inferiori) a quelle svolte in precedenza, spetta al datore di lavoro “con esclusione di ogni incombenza, anche solo in via mediata, a carico del lavoratore”.

Dunque, in base all’orientamento giurisprudenziale sin qui esposto, se il licenziamento viene irrogato senza che sia stata previamente svolta una verifica di posizioni alternative per il lavoratore anche in compiti inferiori, il recesso, anche alla luce del nuovo testo dell’art. 2103 c.c., risulta illegittimo per violazione del c.d. obbligo di repêchage.

Il magistrato, oltre ad accertare che il licenziamento sia collegato causalmente alla ragione posta alla base dello stesso, sia essa organizzativa o economica, deve appurare se il datore di lavoro abbia assolto o meno il dovere di ripescaggio. Grava sul datore di lavoro infatti l’onere di dimostrare di aver comunicato al dipendente, tempestivamente, la necessità di dover procedere alla soppressione del posto e di aver offerto allo stesso una diversa collocazione all’interno dell’azienda.

Il datore, pertanto, prima di recedere dal rapporto per giustificato motivo oggettivo, è tenuto a verificare se il lavoratore che intende licenziare possa, invece, trovare una diversa collocazione nell’organizzazione aziendale, attribuendo allo stesso mansioni differenti da quelle espletate e riferibili al proprio livello d’inquadramento o, in ultima istanza, compiti anche inferiori.

In conclusione, si può affermare che la nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo va intesa come extrema ratio, nel senso che le ragioni di ordine produttivo ed organizzativo devono essere tali nella loro oggettività e senza alcun margine di arbitrarietà datoriale, da determinare conseguentemente l’inutilizzabilità della prestazione lavorativa anche in mansioni inferiori.

[1] Per l’indennità sostitutiva del preavviso sussiste, ex lege, il principio di onnicomprensività; infatti l’art. 2121 c.c. stabilisce che nel computo dell’indennità sostitutiva del preavviso bisogna ricomprendere ogni compenso corrisposto al lavoratore in maniera continuativa (con esclusione del rimborso spese); tale principio non viene applicato nel caso del licenziamento per giusta causa e sempre che il periodo di preavviso non sia stato lavorato. Sul punto, si veda Cass. 28.10.1999, n. 12126, consultabile in legge-e-giustizia.it., che, pur ribadendo la non esistenza nel nostro ordinamento di un principio generico di “onnicomprensività della retribuzione” ma lasciando comunque alle parti contrattuali la libertà di disciplinare i casi di applicazione della retribuzione onnicomprensiva, ha stabilito che le parti non possono derogare in senso peggiorativo le disposizioni di leggi in tema di indennità sostitutiva del preavviso.

[2] Casi per cui è previsto il recesso ad nutum: (i) dirigenti (tranne i casi di licenziamento discriminatorio per i quali si applica l’art. 18 dello St. Lav.); (ii) lavoratori con contratto a termine; (iii) atleti professionisti (ex art. 4 L. n. 91/81); (iv) addetti ai servizi domestici (art. 4, co. 1, L. n. 108/90); (v) lavoratori che hanno raggiunto l’età pensionabile; (vi) lavoratori assunti in prova o al termine del periodo di apprendistato; (vii) coniuge e parenti entro il II grado del datore di lavoro, nell’ambito del lavoro familiare.

[3] Il giustificato motivo oggettivo prevede che il licenziamento avvenga per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento della stessa, con la corresponsione del preavviso. La legge introduce, dunque, una deroga al principio di stabilità del rapporto di lavoro per il caso in cui sopravvengano eventi tali da impedire l’utilizzazione della prestazione di lavoro per la realizzazione degli obiettivi aziendali cui essa è destinata (Dizionario dei termini sindacali e del lavoro, Roma, 2002).

[4] Sempre secondo il citato Dizionario, il giustificato motivo soggettivo consiste nel notevole inadempimento del lavoratore ai suoi obblighi. Si distingue dalla giusta causa per la minore entità o gravità della trasgressione. Il datore di lavoro, quindi, è legittimato a comminare il licenziamento, ma è tenuto a dare un preavviso nel corso del quale il rapporto di lavoro prosegue in ragione del fatto che la trasgressione non è tale da rendere necessaria la cessazione immediata del rapporto e dei suoi effetti.

[5] Sul punto si veda E. Ghera, Diritto del lavoro, Bari, 2002, 358, a parere del quale per la determinazione di tale nozione si fa di solito riferimento alla norma generale dell’art. 1455 c.c., la quale richiede, perché il contratto possa essere risolto, che l’inadempimento non abbia scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altro contraente.

[6] In tale senso, G. Nicolini, Manuale di diritto del lavoro, Milano, 1996, 495, secondo cui la contiguità delle causali soggettive di giustificatezza tra giusta causa e giustificato motivo soggettivo ovvero l’omogeneità tra giusta causa e giustificato motivo soggettivo rende ammissibile la conversione d’ufficio di un licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo ad opera del giudice il quale, adito con impugnativa da parte del lavoratore, attribuisca al fatto addebitato a quest’ultimo dal datore la minore gravità propria del giustificato motivo soggettivo. Infatti, la modificazione del titolo del recesso è conseguenza soltanto di una diversa qualificazione, da parte del giudice, della situazione di fatto posta a fondamento del provvedimento espulsivo senza necessità d’indagine circa la specifica volontà del datore di lavoro.

[7] Cfr. Cass., 18.01.1999, n. 434, in Il Foro it., vol. 122, n. 6, 1891-1982, in cui la Suprema Corte ha ricondotto la nozione di giustificato motivo alla figura delle norme elastiche, le quali, al pari delle c.d. clausole generali (come ad es. correttezza e buona fede), presuppongono da parte del giudice un’attività di integrazione della norma, a cui viene data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico-sociale. Ne consegue la censurabilità in cassazione di tali giudizi di valore quando gli stessi si pongano in contrasto con i principi dell’ordinamento (espressi dalla giurisdizione di legittimità) e quegli standards valutativi esistenti nella realtà sociale – riassumibili nella nozione di civiltà del lavoro, riguardo alla disciplina del lavoro subordinato – che concorrono con detti principi a comporre il diritto vivente.

[8] In tal senso, R. Scognamiglio, Diritto del lavoro, Napoli, 2000, 537, che individua nel giustificato motivo oggettivo una deroga al regime di stabilità del rapporto a causa della sopravvenienza di eventi o di vicende che impediscano di utilizzare la prestazione del lavoratore per la realizzazione degli obiettivi cui è destinata. Cosicché consente al datore di lavoro di sciogliersi dal rapporto che non può continuare solo per gli oneri che ne discendono, come se debba assolvere ad un fine previdenziale e assistenziale che non appartiene, e deve restare estraneo, alla sua natura.

[9] Cfr. R. Scognamiglio, op. cit., 538, secondo cui, il giustificato motivo oggettivo, sulla base della corretta interpretazione del dato normativo, deve identificarsi nelle vicende e/o negli eventi che, per la incidenza immediata sulla realtà aziendale in cui il lavoratore è inserito, cagionano l’effettiva esigenza del datore di porre fine al rapporto di lavoro. In merito si veda anche Cass., 30.3.1994, n. 2128, per cui il riassetto organizzativo per una più economica gestione dell’azienda vale ad integrare il giustificato motivo oggettivo di licenziamento ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 604 del 1966, restando insindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la relativa scelta imprenditoriale: ai fini della verifica dell’effettività di questa, non è necessaria un’indagine in ordine ai margini di convenienza e di onerosità dei costi connessi al sistema organizzativo modificato dall’imprenditore. Inoltre, il controllo giurisdizionale sulla legittimità del licenziamento non può che essere svolto mediante l’accertamento della effettività della modifica organizzativa e del rapporto di causalità tra essa e l’intimato licenziamento, poiché le ragioni esistenti a monte della scelta imprenditoriale di procedere alla riorganizzazione aziendale non sono sindacabili e non è configurabile, a carico del debitore di lavoro, l’onere di provare i motivi che lo hanno indotto ad operare quella scelta (Nella specie la sentenza impugnata, confermata dalla Suprema Corte, ha ritenuto giustificati i licenziamenti di addetti al settore vendita di una società, presenti nelle aree in cui continuava ad operare per la stessa una rete di agenti e rappresentanti).

[10] Un approccio esegetico interdisciplinare ha trovato la prima applicazione in giurisprudenza con la sentenza del giudice Cavallaro, del Tribunale di Palermo, in data 10 dicembre 2003 in Riv. it. dir. lav., con commento di F. STOLFA, Giustificato motivo oggettivo di licenziamento: i primi frutti di un dialogo tra giurisprudenza e dottrina, 2004, III, 630 e ss..

[11] Sul punto si veda anche Cass., 10.5.2007, n. 10672, con nota di M. Novella, I concetti di costo contabile, di costo-opportunità e di costo sociale nella problematica costruzione gius-economica del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in Riv. it. dir. lav., 2007, n. 4, II, nonché con nota di P. Ichino, Il costo sociale del licenziamento e la perdita aziendale attesa per la prosecuzione del rapporto come oggetto del bilanciamento giudiziale, in Riv. it. dir. lav., 2007, 989: afferma tale ultimo autore che “ai fini della sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ferma restando la prova dell'effettività e della non pretestuosità del riassetto organizzativo operato, le ragioni inerenti all'attività produttiva possono sorgere, oltre che da esigenze di mercato, anche da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali che ne siano le finalità, quindi anche quelle dirette a un risparmio dei costi o all'incremento dei profitti, quale che ne sia l'entità”.

[12] In tal senso, P. Ichino, in Riv. it. dir. lav., 1999, III, 5 che afferma ancora sul punto: “secondo la legge oggi vigente il lavoratore può essere licenziato quando dalla prosecuzione del rapporto derivi per l’impresa, in termini di valore atteso, una perdita (derivante da costi contabili o da costi opportunità) superiore ad una soglia di sopportabilità …. la soglia di sopportabilità della perdita attesa conseguente alla prosecuzione del rapporto, che definisce il giustificato motivo oggettivo di licenziamento di cui all’art. 3 della Legge del 1966, è una grandezza di natura esclusivamente patrimoniale, sempre suscettibile di essere espressa in termini monetari”.

[13] Si veda in merito, P. Ichino, Il contratto di lavoro, in A. Cicu – F. Messineo – L. Mengoni, Trattato di diritto civile e commerciale, vol. III, 2003, 439 e ss..

[14] In tal senso, Tribunale di Palermo, 10.12.2003, est. Cavallaro, con nota di F.V. Ponte, La valutazione dei costi nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo: apertura alla teoria della “perdita attesa” e valutazione giudiziale della sua sostenibilità, in LavoroPrevidenza.com, 7 ottobre 2004. Si veda sulla medesima sentenza, F. Stolfa, op. cit., 630 e ss.. Si legge nella sentenza palermitana del 10 dicembre 2003, op. cit., che “deve escludersi che il rapporto di lavoro alle dipendenze di un’impresa abbia ancora ragion d’essere allorché il datore di lavoro non ha più motivo di attendersi dal lavoratore impiegato la stessa utilitas che l’aveva indotto ad assumerlo, vale a dire lo stesso flusso di redditi che gli permette la valorizzazione del capitale investito”, richiamando l’orientamento per cui anche una modesta entità di risparmio raggiunta attraverso il licenziamento sia di per sé sufficiente a giustificarne la legittimità.

[15] In tal senso, Tribunale di Palermo, 10.12.2003, cit.

[16] Il concetto di “costo sociale” comprende sia il costo sostenuto da un soggetto a seguito di una propria decisione, sia il costo sostenuto da un terzo e/o dalla collettività sociale strettamente correlato alla decisione del soggetto agente. La valutazione dell’incidenza del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sui costi sociali sembra piuttosto complessa sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo.

[17] Si veda, in proposito, Cass., 10.5.2007, n. 10672, consultabile in legge-e-giustizia.it, che afferma “ai fini della sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ferma restando la prova dell’effettività e della non pretestuosità del riassetto organizzativo operato, le ragioni inerenti all’attività produttiva possono sorgere, oltre che da esigenze di mercato, anche da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali che ne siano le finalità, quindi anche quelle dirette a un risparmio di costi o all’incremento dei profitti, quale che ne sia l’entità.”.

[18] Così anche M.T. Carinci, Il giustificato motivo oggettivo nel rapporto di lavoro subordinato, Padova, 2005.

[19] In tal senso, Cass., 14.04.2008, n. 9799, consultabile su www.dejure.it

[20] In questo senso, Cass., 17.11.2010, n. 23222, consultabile in legge-e-giustizia.it.; il motivo oggettivo è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione, mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore, con la conseguenza che non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato (cfr., ex plurimis, Cass., nn. 13021/2004, 2121/2004, 21282/2006).

[21] R. Scognamiglio, op. cit., 2000, 538, che ispirandosi ai principi della socialità afferma che il datore di lavoro è tenuto ad effettuare, nella gestione dell’azienda, scelte socialmente opportune; soltanto se tale suo impegno rimane infruttuoso, può procedere al licenziamento dei dipendenti, la cui opera risulti di conseguenza inutilizzabile.

[22] A. Perulli, Razionalità e proporzionalità nel diritto del lavoro, in Dir. lav. rel. ind., 2005, 105.

[23] A. Andreoni, Razionalità e proporzionalità nei licenziamenti “oggettivi”, Riv. giur. lav., 2006.

[24] Cass., 23.10.2013, n. 24037, Riv. giur. lav.,n. 1, II, 2014, 46 con nota di M. Russo, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo tra tradizione e innovazione.

[25] Sul punto, si riscontra un indirizzo consolidato nell’orientamento giurisprudenziale, tra cui, ex plurimis: Cass., 6.9.2003, n. 13058, in Mass. giur. lav., 2004, 94; Cass., 20.8.2003, n. 12270, in Il Foro it. Rep., 2003, voce Lavoro (rapporto) [3890] n. 1576; Cass., 14.12.2002, n. 17928, in Riv. crit. dir. lav., 2003, 402; Cass., 24.6.1994, n. 6067, in Notiz. giur. lav., 1995, 87.

[26] Cfr. Cass., 21.7.2016, n. 15082, in Lav. giur., 2016, 1019, secondo cui il datore di lavoro, nel dar prova dell’impossibilità del repêchage, non deve anche dimostrare l’impossibilità di rimedi alternativi alla prescelta riorganizzazione del lavoro, poiché diversamente opinando si introdurrebbe un non consentito controllo giurisdizionale sul merito delle scelte dell’imprenditore relative all’organizzazione tecnico produttiva della sua azienda.

[27] Sul punto cfr. Cass.,11.8.1998, n. 7904, consultabile su www.dejure.it, di cui si riporta la massima: “In tema di licenziamento, sulla base di una corretta interpretazione dell’art. 3 della L. n. 604 del 1966, il giustificato motivo oggettivo deve identificarsi nelle vicende e/o negli eventi che, per l’incidenza immediata sulla realtà aziendale in cui il lavoratore è inserito, cagionano l’effettiva esigenza del datore di porre fine al rapporto di lavoro. Rientrano nel suddetto ambito sia i licenziamenti intimati in relazione all’insorgenza di specifiche esigenze aziendali che impongono la soppressione del posto di lavoro, sia i licenziamenti che traggono origine da comportamenti o situazioni facenti capo al prestatore di lavoro, purché non costituiscano una forma di inadempimento. Tali ultimi licenziamenti rappresentano il contenuto della fattispecie dei licenziamenti per ragioni inerenti al regolare funzionamento dell’organizzazione del lavoro, nelle quali è da ricomprendere la sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione lavorativa, disciplinata dal combinato disposto degli artt. 1464 c.c. e 1 della L. n. 604 del 1966, secondo cui la legittimità del licenziamento presuppone la dimostrazione, da parte del datore di lavoro, sia delle ragioni tecnico-produttive che rendevano impossibile di attendere la rimozione del temporaneo impedimento alle normali funzioni del lavoratore, sia delle analoghe ragioni ostative ad un impiego del medesimo, con mansioni almeno equivalenti, in luoghi diversi. Entrambi tali tipi di ragioni devono, poi, essere valutati dal giudice di merito tenendo conto delle oggettive esigenze dell’impresa, delle dimensioni della stessa, del tipo di organizzazione tecnico-produttiva ivi attuato, del periodo di assenza (e/o impedimento), della ragionevolmente prevedibile, secondo un giudizio ‘ex ante’, protrazione della medesima (e/o del medesimo) e della natura delle mansioni espletate dal lavoratore.” In base ai suddetti principi, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto sorretto da un giustificato motivo oggettivo il licenziamento intimato da una società appaltatrice del servizio di nettezza urbana di un comune siciliano commissariato ad un proprio dipendente che, da una comunicazione del Commissario straordinario del comune stesso, risultava in una condizione di "incompatibilità ambientale" ad operare nel territorio comunale perché "affiliato" ad organizzazioni delittuose associative.

[28] In tal senso, Cass., 3.7.2003, n. 10554, consultabile su www.dejure.it.

[29] Si veda in merito Cass., 7.7.2004, n. 12514; in senso conforme, vedi Cass., 20.8.2003, n. 12270, Cass., 17.5.2003, n. 7750, Cass., 23.10.2001, n. 13021, Cass.,18.4.1991, n. 4164, tutte consultabili su www.dejure.it., nonché Cass., 5.4.1990, n. 2824, in Riv. giur. lav., 1991, 2, 306

[30] Cass., 7.12.2016, n. 25201, commentata da A. Maresca, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento: il prius, il posterius ed il nesso causale, ove l’autore afferma che “per quanto riguarda il GMO il compito di ritornare alla fedeltà al dato normativo rimettendo in equilibrio il pendolo interpretativo – come è avvenuto in altre occasioni (un altro degli esempi più significativi è quello della giurisprudenza sulla nozione di retribuzione omnicomprensiva) – è assolto dalla recente sentenza della Cassazione (7 dicembre 2016, n. 25201) che, a fronte di una meditata rivisitazione dei contrapposti orientamenti (la sentenza della Sezione Lavoro ha la struttura tipica delle decisioni delle Sezioni Unite quando sono chiamate a comporre un contrasto interpretativo), ripercorre le argomentazioni a sostegno della tesi oggettiva e di quella valutativa”, pubblicata nell’ambito del Convegno promosso dalla Commissione di certificazione dei contratti di lavoro dell’Università Roma Tre, 14. Sul punto, si veda anche G. SANTORO PASSARELLI, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: dalla ragione economica alla ragione organizzativa, in Lavoro e prev. oggi, 2017, 3-4, 152 e ss.. In merito cfr. anche N. De Marinis, L’ambito di ammissibilità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La Corte di Cassazione si schiera a favore del profitto di impresa?, in Lavoro e prev. oggi, 2017, 1-2, 36 e ss..

[31] In tale occasione, i giudici di legittimità si sono trovati a dover decidere sulle censure avanzate alla sentenza della Corte di Appello di Catanzaro che, nel confermare la pronuncia del Giudice di primo grado, aveva ribadito l’illegittimità del licenziamento di un lavoratore intimato in ragione del presunto calo delle commesse e per aver, l’azienda stessa, stipulato un contratto di appalto per lo svolgimento dell’attività cui era addetto il lavoratore licenziato. Orbene, la Suprema Corte, ha ritenuto insussistenti e irrilevanti le motivazioni poste a fondamento del ricorso: da un lato, perché il presunto calo delle commesse era risalente nel tempo e, anzi, l’impresa aveva chiuso il bilancio con un utile e, dall’altro, perché il contratto di appalto era stato stipulato ben sei mesi prima del licenziamento del lavoratore.

[32] Nel caso di specie i giudici di legittimità hanno esaminato la vicenda di una prestatrice di lavoro, assunta con contratto di apprendistato della durata di due anni, con qualifica di commessa, e licenziata prima del termine per giustificato motivo oggettivo. La lavoratrice è stata estromessa a seguito all’ingresso in società di un nuovo socio a cui sono state attribuite le mansioni da questa precedentemente svolte; la medesima, impugnato il licenziamento, ha visto riconoscersi, sia in primo grado sia in appello, l’illegittimità del recesso datoriale per giustificato motivo oggettivo. I giudici di legittimità, nel confermare le decisioni precedenti, hanno stabilito che non può ritenersi legittimo un licenziamento irrogato per giustificato motivo oggettivo allorquando il datore di lavoro non abbia né provato né indicato le ragioni che hanno determinato il riassetto societario; nella lettera di licenziamento si è fatto un generico riferimento all’“ingresso in società di una nuova socia”, senza alcuna giustificazione, neppure di ordine economico, che creasse un nesso di causalità tra l’operazione di riorganizzazione societaria e il licenziamento dell’apprendista. I giudici della Suprema Corte hanno ritenuto che l’attribuzione a un nuovo socio delle mansioni svolte dalla dipendente licenziata non costituisce una ragione inerente “all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, risultando, pertanto, tale motivazione inidonea a legittimare il recesso datoriale per giustificato motivo oggettivo ai sensi della L. n. 604/66.

[33] In tal senso, Cass., 2.10.2006, n. 21282, in Giust. civ, 2006, 10, secondo cui “nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento è riconducibile anche l’ipotesi del riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall’imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto”.

[34] Si veda Cass., Sez. Un., 11.4.1994, n. 3353, in Notiz. giur. lav., 1994, 374 che sul punto preciso ulteriormente che “è, pertanto, da escludere la configurabilità della sussistenza di un giustificato motivo oggettivo, ai sensi della disposizione citata, allorché, come nella specie, risulti che il dipendente licenziato sia stato immediatamente sostituito con altro lavoratore, anche se apprendista e godente quindi un salario inferiore a quello corrisposto al dipendente prima occupato, che venga adibito allo svolgimento delle medesime prestazioni, e ciò in quanto in una tale evenienza il recesso non si inserisce in una diversa organizzazione aziendale intesa al mantenimento o di competitività della azienda, essendo invece unico obiettivo dell’imprenditore quello di conseguire un risparmio sulle retribuzioni al personale dipendente attraverso la sostanziale elusione degli obblighi contrattuali assunti nei confronti di questo …”.

[35] Sul punto, quali precedenti specifici sulla illegittimità del licenziamento per motivo oggettivo giustificato da finalità di mero risparmio del costo di lavoro si vedano, ex multis, le seguenti decisioni citate proprio da Cass., Sez. Un., 11 aprile 1994, n. 3353: Cass. 18 aprile 1991, n. 4164, id. Rep, 1991, voce cit., n. 1541; 10 maggio 1986, n. 3127, id. Rep. 1986, voce cit., n. 2082; 2 febbraio 1983, id. Rep. 1983, voce cit., n. 2299.

[36] Repêchage, letteralmente, dal francese, col significato di ricuperare, ripescare, trarre d’impiccio, salvare; in senso figurato, ricollocare.

[37] Sul punto si vedano, ex multis,: Cass., 10.3.1992, n. 2881, e, in senso conforme, Cass., 3.6.1994, n. 5401, nonché Cass., 27.11.1996, n. 10527 e Cass., 14.12.2002, n. 17928, tutte consultabili su www.dejure.it..

[38] Per un’analisi dettagliata dell’obbligo datoriale di repêchage in mansioni inferiori, secondo l’elaborazione giurisprudenziale, si rinvia al successivo paragrafo 7.1..

[39] Il fautore della tesi dell’obbligo di repêchage è F. Mancini, in Commento all’art. 18, Commentario allo Statuto dei diritti dei lavoratori, Bologna, 1972.

[40] In tal senso P. Tullini, Riforma della disciplina dei licenziamenti e nuovo modello giudiziale di controllo, in Riv. it. dir. lav., 2013, 1, I, 168. Cfr. anche S. Brun, L'obbligo di repêchage tra elaborazione giurisprudenziale e recenti riforme, in Riv. it. dir. lav., 2013, 4, I, secondo cui il rispetto dell'obbligo di reimpiego permette di realizzare “un certo contemperamento tra l'interesse dell'impresa e quello del lavoratore ugualmente protetti dalla normativa costituzionale”. Su tale concetto si veda in giurisprudenza, Cass., 11.4.2003, n. 5777, in Mass. giur. lav., 2003, 669.

[41] Cass., 4.03.1993, n. 2595. In senso conforme, cfr. anche Cass., 30.3.1994, n. 3128; Cass., 23.10.1996, n. 9204; Cass.,1.2.2003, n. 1526, tutte consultabili su www.dejure.it..

[42] Cass., 11.3.2013, n. 5693, in Lav. giur. 2013, 519, secondo cui nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’obbligo di repêchage a carico del datore di lavoro comporta unicamente la ricerca di mansioni corrispondenti alla professionalità di cui il lavoratore è già dotato e non implica – al solo fine di garantire la salvaguardia del posto di lavoro – anche il diverso onere di procedere alla riqualificazione del medesimo dipendente.

[43] Sul punto, Cass., 23.10.2001, n. 13021, consultabile su www.dejure.it., a parere della quale, ai fini della prova della sussistenza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento, l’onere probatorio posto a carico del datore di lavoro dell’inutilizzabilità del lavoratore licenziato in altre mansioni equivalenti deve essere contenuto nell’ambito delle circostanze di fatto e di luogo reali, verificando sul piano concreto la non compatibilità della professionalità del lavoratore licenziato con il nuovo assetto organizzativo dell’azienda e tenendo conto di dati oggettivamente rilevabili che possono essere sintomatici di tale incompatibilità, quali la mancata indicazione di alternative occupazionali da parte del dipendente licenziato o la mancata assunzione di altri dipendenti.

[44] Cass.,15.7.2010, n. 16579, consultabile su www.dejure.it..

[45] Cass., 15.5.2005, n. 7832. Il ricorrere di nuove assunzioni a fronte di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo non è ontologicamente incompatibile con l’esistenza di un ridimensionamento aziendale e non è, quindi, di per sè stesso fonte di illegittimità del licenziamento. Il rapporto fra esigenze di ridimensionamento aziendale e licenziamento per giustificato motivo oggettivo ad esse ricollegabile va sempre valutato con riferimento al ruolo ed alle mansioni di pertinenza del singolo lavoratore all’interno dell’azienda.

[46] Cfr. Cass., 3.7.2003, n. 10554, consultabile su www.dejure.it., secondo cui il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della Legge n. 604 del 1966 è determinato dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore. Ai fini della legittimità dello stesso, sul datore di lavoro incombe la prova della concreta riferibilità del licenziamento a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo - organizzativo e della impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell’attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di appello che, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento di due dipendenti di un agente assicurativo intimato a seguito della parziale cessione del portafoglio dell’impresa assicuratrice ad altro agente, giudicando priva di riscontro probatorio la dedotta riduzione dell’attività dell’agente per effetto dello scorporo di detto portafoglio - ritenuto solo uno degli elementi concorrenti ad individuare la consistenza dell’impresa - che avrebbe determinato la sovrabbondanza delle posizioni lavorative dei ricorrenti rispetto al nuovo assetto dell’agenzia, nonché la parimenti dedotta riduzione del fatturato, senza che assumesse rilevanza la circostanza della mancata assunzione di altre persone).

[47] Sull’onere di repêchage in mansioni inferiori si vedano tra le tante: Cass., 23.10.2013, n. 24037, in Riv. it. dir. lav,, 2014, 2, II, 296; Cass., 13.8.2008, n. 21579, in Riv. it. dir. lav., 2009, n. 3, II, 664.

[48] Così Cass., 3.6.2009, n. 1281, nella quale viene affermato il principio per cui il datore di lavoro può sostituire i lavoratori in sciopero con altri lavoratori non aderenti all'astensione o impiegati in settori nei quali non sia stato proclamato lo sciopero, ma la sostituzione deve essere fatta nel rispetto di quanto previsto dall'art. 2103 c.c., che consente lo svolgimento di mansioni inferiori solo incidentalmente e marginalmente, per ragioni di efficienza ed economia del lavoro, o addirittura di sicurezza. Nella specie, è stata confermata la sentenza che aveva ritenuto antisindacale l'assegnazione a compiti di pilotaggio del traffico e altri servizi sostitutivi dell'attività degli addetti all'esazione del pedaggio in sciopero da parte di lavoratori inquadrati in qualifiche superiori.

[49] Cass., 25.11.2010, n. 23926, consultabile su www.dejure.it., per cui è lecito il patto di dequalificazione, se è l'unico modo per evitare il licenziamento, a condizione che il dipendente sia d'accordo. Il consenso del lavoratore non deve essere esplicito, ma può ben desumersi da fatti concludenti.

[50] Cass., 14.9.1995, n. 9715, per cui in relazione ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo dipendente dalla soppressione della posizione di lavoro a cui era addetto il lavoratore licenziato, la prova, gravante sul datore di lavoro, circa l’impossibilità di impiegare l’interessato in mansioni diverse, può essere contenuta nei limiti della ragionevolezza e delle contrapposte deduzioni delle parti. Inoltre, in linea di principio, va esclusa la rilevanza al riguardo dei fatti sopravvenuti al licenziamento. (Nella specie la S.C., nel valutare l’adeguatezza dell’indagine compiuta dal giudice di merito, ha in particolare rilevato che neanche il ricorrente aveva indicato un concreto posto di lavoro rimasto libero o comunque potenzialmente ma utilmente ricavabile nella concreta situazione aziendale.

[51] In merito si veda Cass., 26.3.2010, n. 7381, consultabile su www.dejure.it.; nel caso di specie, la Corte ha confermato l’illegittimità di un recesso per giustificato motivo oggettivo perché la società non aveva provato l’impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza nel posto soppresso, tenuto anche conto del fatto che nell’anno successivo al licenziamento erano state assunte persone con la stessa qualifica del dipendente licenziato. Sul punto cfr. anche Cass., 20.5.2009, n. 11720, consultabile su www.dejure.it.. Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata che, nell’affermare la legittimità dell’irrogato licenziamento per giustificato motivo oggettivo, aveva ritenuto non significative le successive nuove assunzioni, in considerazione del periodo di tempo - otto mesi - trascorso dal licenziamento stesso.

[52] Cass., 6.6.2005, n. 11753, consultabile su www.dejure.it., secondo cui qualora il lavoratore non possa più svolgere le mansioni cui sia addetto e l’impedimento sia a lui imputabile per dolo o colpa, è legittimo il licenziamento intimato dal datore di lavoro per giustificato motivo oggettivo consistente nella sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa in relazione alle mansioni suddette, senza che il recedente debba fornire la prova di non aver potuto adibire il lavoratore ad altro posto nell’azienda, anche con mutamento di mansioni, essendo tale prova necessaria solo quando l’impedimento non sia addebitabile al lavoratore. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, senza dare rilievo al comportamento dei lavoratori, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento di due dipendenti della Società Aeroporti di Roma - cui era stato ritirato il tesserino di accesso all’area aeroportuale in seguito a denuncia in flagranza per tentato furto di bagagli - per non aver la società fornito la prova dell’impossibilità di un loro diverso utilizzo). Si veda anche Cass., 26.3.2010, n. 7381, che ha ribadito il principio per cui il datore, che intende licenziare un dipendente perché il relativo posto è stato soppresso per motivi organizzativi, deve dimostrare l’impossibilità di ricollocarlo in altra posizione, dopo aver tenuto conto delle sue capacità professionale e delle caratteristiche dell’intera azienda. In assenza di tale prova, infatti, il licenziamento è illegittimo per violazione dell’obbligo di repéchage; nella specie, la Corte ha confermato l’illegittimità di un recesso per giustificato motivo oggettivo perché la società non aveva provato l’impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza nel posto soppresso, tenuto anche conto del fatto che nell’anno successivo al licenziamento erano state assunte persone con la stessa qualifica del dipendente licenziato.

[53] Sul punto si segnala in dottrina F. Scarpelli, La nozione e il controllo del giudice, in I licenziamenti collettivi, Quad. dir. lav. rel. ind., 1997, 19, 29 e ss.. Si veda anche U. Carabelli, I licenziamenti per riduzione di personale in Italia, in AA.VV., I licenziamenti per riduzione del personale in Europa, Bari, 2001, 217, secondo cui il repêchage rientra nella fattispecie costitutiva del recesso per giustificato motivo oggettivo la cui violazione comporta l’illegittimità del recesso. Di avviso contrario, L. Nogler, La disciplina dei licenziamenti individuali nell'epoca del bilanciamento tra i principi costituzionali, in Dir. rel. ind., 2007, 29, 648 e ss..

[54] In tal senso, G. Santoro-Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo e l’ambito della tutela risarcitoria, in Arg. dir. lav., 2013, 2, 236 e ss. Cfr. altresì M. Persiani, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage, in Giur. it, 2016, 5, 1164 ss., il quale ha affermato che l’impossibilità di repêchage rappresenta un elemento esterno al giustificato motivo e non può rientrare tra le ragioni di cui all’art. art. 3, L. n. 604/1966.

[55] In questo senso si veda A. Vallebona, Il repêchage fa parte del «fatto, in Mass. giur. lav., 2013, 11, 750. Cfr. anche A. Perulli, Fatto e valutazione giuridica del fatto nella nuova disciplina dell’art. 18 Stat. Lav. ratio ed aporie dei concetti normativi, in Arg. dir. lav., 2012, 4-5, 787 e ss., secondo cui il controllo della possibilità di utilizzazione aliunde rientri nell’ambito dell’accertamento della sussistenza del fatto. Sulla violazione dell’obbligo di repêchage che comporta l’applicazione della tutela reintegratoria si veda V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in Riv. it. dir. lav,, 2012, 3, I, 563-564. Sul punto, si veda anche F. Scarpelli, Giustificato motivo di recesso e divieto di licenziamento per rifiuto della trasformazione del rapporto a tempo pieno, in Riv. it. dir. lav., 2013, 1, II, 284 e ss..

[56] In tal senso, ord. Trib. Roma, 8.8.2013, secondo cui la violazione dell’obbligo di repêchage, non costituendo “il fatto posto a base del licenziamento” bensì una sua conseguenza, comporta l’applicazione della tutela indennitaria forte di cui al co. 5 del novellato art. 18 St. lav.. In senso conforme, si veda anche Trib. Varese (ord.), 4.9.2013, ove si afferma che in caso di licenziamento per soppressione del posto di lavoro il mancato adempimento dell’onere di repêchage non rientra nel “fatto posto a fondamento del licenziamento”, la cui manifesta insussistenza può dar luogo alla tutela reintegratoria di cui all’art. 18, co. 7, St. lav., dovendosi piuttosto ricollegare alle “altre ipotesi” in cui il giudice, pur accertando profili di illegittimità del licenziamento, dichiara il rapporto di lavoro risolto e si limita a condannare il datore a risarcire il danno ex art. 18, co. 5, St. lav. Entrambe le ordinanze sono pubblicate in Riv. it. dir. lav., 2014, 1, con nota di C. Di Carluccio, Licenziamento economico: alternative di reimpiego prospettabili al lavoratore e sanzioni per il caso di omesso repêchage, 167-168.

[57] Pubblicate entrambe in Riv. giur. lav,, 2016, II, 302, con nota di L. MONTEROSSI, Licenziamento per giustificato motivo e repêchage: nessun onere di allegazione.

[58] Così Cass., 26.4.2012, n. 6501,in Orient. giur. lav., 2012, 362.

[59] Cfr. Cass n.3234 del 2014 che individuava il contenuto del diritto di repêchage affermando che il datore di lavoro doveva dare prova di non poter ricollocare il lavoratore in esubero in altra posizione lavorativa disponibile; che il lavoratore doveva fornire elementi atti ad individuare, all’interno della compagine aziendale, posti di lavoro liberi compatibili con il suo bagaglio professionale e, solo in tal caso, scattava l’ulteriore onere a carico del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità del dipendente nelle posizioni lavorative indicate dal lavoratore come disponibili.

[60] Si vedano ex multis: Cass.,10.5.2016, n. 9467, in www.dejure.it; Cass., 8.11.2013, n. 25197 in www.dejure.it; Cass., 8.2.2011, n. 3040, in Giur. lav, 2011, n. 10, 26.

 

[61] In tal senso, Cass., 22.3.16, n. 5592.

[62] M. Ferraresi, L’obbligo di repêchage tra riforme della disciplina dei licenziamenti e recenti pronunce di legittimità, in Variazioni su Temi Diritto del Lavoro, Torino, 2016, 4, 851. In tal senso, si veda anche S. Ciucciovino, Giustificato motivo di licenziamento e repêchage dopo il Jobs Act, in Mass. giur,. lav., 2016, 46.

[63] Cass., Sez. Un., 7.8.1998, n. 7755, in Riv. it. dir. lav., 1, 1999, II, 170, con nota di G. Pera, Della licenziabilità o no del lavoratore divenuto totalmente inabile.

[64] In merito Cass., 23.10.2013, n. 24037, in Riv. it. dir. lav., 2014, 296, con nota di D. Zanetto, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e controllo da parte del giudice, secondo cui in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo il giudice deve accertare la reale sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, nonché il nesso di causalità tra il medesimo e l’individuazione del soggetto destinatario del provvedimento di licenziamento, gravando sempre sul datore di lavoro l’onere di prospettare al lavoratore la possibilità di essere adibito a mansioni inferiori. Sul punto in dottrina si veda anche M. Brollo, Le modificazioni oggettive: il mutamento di mansioni, in C. Cester (a cura di), Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, in F. Carinci, Diritto del Lavoro, Commentari, Torino, vol II, tomo II, 1517 e ss..

[65] Sull’orientamento del repêchage in mansioni inferiori si veda Cass., 13.8.2008, n. 21579, in Mass. giur. lav., 2009, 159, con nota di C. Pisani, Il licenziamento impossibile: ora anche l’obbligo di modificare il contratto.

[66] Si veda in merito Cass., 15.5.2012, n. 7515, in Riv. it. dir. lav., 2013, 67, con nota di M. Falsone, Sul c.d. obbligo di repêchage e la dequalificazione contrattata, che afferma come in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro ha l’onere di dedurre e provare in giudizio che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro utile, alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte o, in mancanza, anche di mansioni di livello professionale inferiore, provando altresì, in quest’ultima ipotesi, di avere offerto al lavoratore tale opportunità di prosecuzione del rapporto in compiti professionalmente inferiori, esistenti e comunque utili per l’impresa e che questa offerta non è stata accettata, prima del licenziamento. L’articolo prende anche considerazione Cass. 9656 del 2012 che, invece, ritiene assolto l’onere di repêchage solo ove si dimostri l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni anche differenti da quelle in precedenza espletate.

[67] Cass., 19.11.2015, n. 23698, inedita a quanto consta. Sull’adibizione a mansioni che non contrasta la tutela della professionalità se essa rappresenta l’unica alternativa al licenziamento, si veda anche Cass., 22.5.2014, n. 11395, in D&G, 2014; Cass., 13.8.2008, n. 21576, in Riv. it. dir. lav., 2009, 3, II, 664, che afferma: “in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, ma anche di aver prospettato al lavoratore licenziato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un suo impiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale”. Nella giurisprudenza di merito si veda il Tribunale di Firenze, 15.1.2015, n. 8, inedita a quanto consta, secondo cui “l'onere della prova relativa alla sussistenza del giustificato motivo oggettivo, invocato dalla società a fondamento dell'intervenuta interruzione del rapporto di lavoro, ricade sul datore di lavoro, il quale deve altresì dimostrare l'impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni, pur di livello inferiore, ossia la mancanza di alternative valide alla decisione definitiva di licenziamento (c.d. obbligo di "repêchage")”.

[68] Cfr. Cass., 1.8.2013, n. 18416, in Mass. giur. lav., 2014, 1/2, 35. In giurisprudenza, infatti, si è anche sostenuto, sempre con riferimento all’obbligo di repêchage, che il lavoratore ha l’onere di indicare altri posti di lavoro, esistenti nell’ambito dell’azienda, compatibili con la propria qualifica e con le mansioni espletate sino al recesso, sempre che non siano già occupati da altri lavoratori. In tal senso cfr. Trib. Bologna, 7.7.2010, in Lav. giur. 2010, 1053.

[69] In merito si veda Cass., 22.3.2016, n. 5592, con nota critica di M. Persiani, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo ed obbligo di repêchage, in Giur. it., 2016, 1166-1167.

[70] Cfr. Cass., 8.11.2013 n. 25197, in Lav. giur. 2014, 181, in cui si afferma che il giudice del merito, adito per la declaratoria di illegittimità del licenziamento irrogato al prestatore per soppressione delle mansioni cui il medesimo era addetto, è tenuto al controllo della effettiva sussistenza del giustificato motivo oggettivo posto alla base del recesso datoriale, mentre non può sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, in quanto espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione. Il datore di lavoro, in ogni caso, ha l’onere di provare l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, pur esigendosi dallo stesso lavoratore una collaborazione nell’accertamento di un suo possibile reimpiego nel contesto lavorativo, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali poteva essere utilmente collocato, conseguendo a tale allegazione l’onere della parte datoriale di provare la non utilizzabilità dei posti predetti. In senso conforme si veda anche Cass., 12.2.2014, n. 3224, in Notiz. giur. lav., 2014, 522 e ss..

[71] Trib. Roma, 2.9.2010, in Lav. giur. 2010, 1144.

[72] In tal senso, Cass., 23.6.2005, n. 13468, in Orient. giur. lav., 2005, 647, secondo cui ai fini della prova della sussistenza del giustificato motivo obiettivo del licenziamento, il datore di lavoro deve provare l’impossibilità di adibire il dipendente allo svolgimento di altre mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza ma con il limite che tale onere deve essere contenuto nell’ambito di circostanze di fatto e di luogo reali. In tale contesto, pur gravando interamente l’onere della prova sul datore di lavoro, il prestatore deve tuttavia fornire elementi utili a individuare l’esistenza di reali attività che consentano una sua possibile diversa collocazione, così configurandosi, comunque, su di esso un onere di deduzione e di allegazione circa la possibilità di reimpiego. Si segnala, sempre sull’onere di allegazione e deduzione del prestatore, anche altra sentenza coeva: Cass., 6.6.2005, n. 11753, in Lav. giur, 2006, 94.

 

[73] In senso si veda Cass., 11.11.2009, n. 23877, consultabile in legge-e-giustizia.it., ove la Suprema Corte in tema di mansioni equivalenti ha sostenuto infatti che “il divieto, recato dall’art. 2103 cod. civ. di variazione in pejus delle mansioni del lavoratore opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza (a termini del contratto collettivo) delle precedenti e delle nuove mansioni siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicché nell’indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali”.

[74] Cfr. Cass., 08.6.2009, n. 13173, consultabile in legge-e-giustizia.it.

[75] R. Voza, L’adibizione a mansioni inferiori mediante patti in deroga nel riformato art. 2103 c.c., Riv. it. giur. lav., 2017, 1, I, 10.

[76] G. Leone, La nuova disciplina delle mansioni: il sacrificio della professionalità «a misura d’uomo», in Lav. giur., 2015, 1101.

[77] In tal senso, M. Brollo, Disciplina delle mansioni (art. 3), in F. Carinci, (a cura di), Commento al D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81: le tipologie contrattuali e lo ius variandi, Modena, 2015, 42, nonché cfr. F. Amendola, La disciplina delle mansioni nel D.Lgs. del 15 giugno 2015, n. 81, in Dir. lav. merc., 2015, 511. In merito si veda anche A. Pileggi, La nuova disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, in I. Piccinini, A. Pileggi, P. Sordi (a cura di), Roma, 2016, 71 e segg. che, in particolare, si concentra anche sulla questione dell’assegnazione consensuale a mansioni inferiori quale alternativa al licenziamento, richiamando il tema del patto di demansionamento quale alternativa al recesso ove il prioritario interesse del prestatore è quello della conservazione del posto di lavoro.   

[78] C. Pisani, La nuova disciplina delle mansioni, Torino, 2015, 151.

[79] C. Pisani, op. cit., 152.

[80] Sul punto, S. Ciucciovino, Giustificato motivo di licenziamento e repechage dopo il Jobs Act, op. cit., 43.

[81] Cfr. S. Ciucciovino, op. ult. cit., 43.

[82] Si veda P. Sordi, La nuova disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, in I. Piccinini, A. Pileggi, P. Sordi (a cura di), Roma, 2016, 132, il quale sul punto sostiene che si tratta di situazioni differenti a cui corrispondono anche diverse discipline che non consentono “una qualche forma di influenza l’una sull’altra”: da una parte, quella della scelta datoriale di attribuzione di mansioni inferiori a seguito di una modifica di assetti organizzativi aziendali e, dall’altra, quella del licenziamento per ragioni inerenti l’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

[83] P. Sordi, op. ult. cit., 133.

[84] G. Franza, Prime considerazioni e alcuni dubbi di costituzionalità sulla nuova disciplina delle mansioni, in Mass. giu.lav., 2015, 10, 663.

[85] M. Ferraresi, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Dalla Legge 604 del 1966 al contratto a tutele crescenti, Torino, 2016, 223-224.

[86] M. Ferraresi, op. ult. cit., 225. In senso contrario, si veda Cass., 19.11.2015, n. 23698, citata dallo stesso autore.

[87] M. Ferraresi, op. ult. cit., 227. In senso conforme sul punto si veda anche G. Franza, op. cit., 663, che critica l’orientamento di Cassazione sull’ampliamento dell’obbligo di “repêchage” alle posizioni disponibili di livello inferiori per lo svolgimento di qualsiasi mansione, affermando che “se il demansionamento costituisce l’esercizio di un potere non è possibile ricavarne un obbligo, tantomeno a fronte del mantenimento del trattamento retributivo già goduto, nonché dell’accessorio ma eventualmente necessario impegno formativo”.

[88] Secondo l’elaborazione giurisprudenziale delle sentenze: n. 5592 del 22.3.16 e n. 12101 del 13 giugno 2016.

[89] Sul rispetto dei principi di correttezza e buona fede si veda Cass., 15.5.2012, n. 7509, in Riv. it. dir. lav., 2013, 323, con nota di R. Galardi, Note in tema di licenziamento connesso a trasferimento di ramo d’azienda, ove si sostiene che in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo se il motivo consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile – in relazione al quale non sono utilizzabili né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere, né il criterio della impossibilità di “repêchage” – il datore di lavoro deve pur sempre improntare l’individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell’art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche del recesso di una di esse.

[90] In tal senso si veda Cass., 27.10.2010, n. 21967, in Riv. it. dir. lav., 2012, 86, con nota di M. Pallini, L’utilità sociale quale limite interno al potere di licenziamento?. Sull’utilità sociale quale limite oggettivo agli atti del potere organizzativo datoriale si veda in dottrina: A. Perulli, Il potere direttivo dell’imprenditore, Milano, 1992, 172.

[91] R. Romei, Natura e struttura dell’obbligo di repechage, articolo pubblicato nell’ambito del Convegno promosso dalla Commissione di certificazione dei contratti di lavoro dell’Università Roma Tre, 29, che sul punto afferma che “il diritto di cui parla l’art. 4 Cost. non va coniugato come diritto alla stabilità, ma secondo le coordinate che già prima si sono evidenziate, che lo collocano non nella sfera interprivata, ma in quella pubblica dell’azione delle Stato”.

[92] In merito si rimanda a quanto argomentato al paragrafo 5. In dottrina sulla teoria del licenziamento per giustificato motivo oggettivo quale extrema ratio in ragione di una valorizzazione della tutela del lavoro e dei limiti costituzionali alla libertà economica si veda V. Speziale, Giusta causa e giustificato motivo dopo la riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in W.P. CSDLE “Massimo D’Antona”.it, n.165/2012, 45, nonché P. Tullini, op. cit., 2013,167.

[93] Sul punto cfr. Cass. 28.3.2001, n. 7046, ove si stabilisce l’applicazione dei principi di correttezza e buona fede da parte del datore di lavoro nell’individuazione del lavoratore da licenziare. Afferma espressamente sul punto la Cassazione che “se il motivo consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile - in relazione al quale non sono utilizzabili né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere, né il criterio della impossibilità di repêchage - il datore deve pur sempre improntare l’individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell’art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche il recesso di una di esse”. In senso conforme, cfr. Cass., 21.12.2001, n. 16144.

[94] Cfr. Cass., 18.4.2012, n. 6026, in Lav. giur., 2012, 721, ove i giudici di legittimità affermano con riferimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo che la ragione posta alla base dello stesso può ravvisarsi nella soppressione del posto di lavoro, inteso come attività lavorativa svolta dal dipendente poi licenziato. Il datore di lavoro può riorganizzare l’attività lavorativa tra altri dipendenti, diversi da quello licenziato ma in tal caso il recesso è legittimo a condizione che lo stesso non risulti meramente strumentale a un incremento di profitto ma che sia diretto a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti; il lavoratore ha quindi il diritto che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale a iniziative collegate a effettive ragioni di carattere produttivo e organizzativo, e che dimostri, inoltre, l’impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione. Sempre sulla illegittimità del recesso motivato da un mero profitto perseguito con la sostituzione di un lavoratore con un collaboratore a progetto si veda anche Cass. 19.1.2012, n. 755, in Lav. giur., 2012, 407. In senso analogo, si vedano anche Cass., 24.1.2012, n. 2874, in Mass. giur. lav., 2012, 2, 220, che esclude la legittimità del licenziamento per un incremento di profitto, nonché Cass. 17.11.2010, in D&G, 2010.

[95] Cass., 7.12.2016, in Corr. Giur., 2017, 2, 284, secondo cui non è vietata la ricerca del profitto mediante la riduzione del costo del lavoro. Afferma la Suprema Corte infatti che è legittima ogni motivazione posta alla base del giustificato motivo oggettivo senza che si possano ritenere escluse da tale determinazione imprenditoriale le ragioni che si riferiscono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva dell’azienda anche se mirate ad una maggiore redditività e quindi anche quelle che perseguono un incremento del profitto mediante modifiche organizzative. Tuttavia, deve segnalarsi che secondo la Cassazione ciò che è vietato è il perseguimento di tali obiettivi abbattendo solo il costo del lavoratore licenziato senza che sia effettivamente sussistente un mutamento dell’organizzazione aziendale.

[96] M. Ferraresi, L’obbligo di repêchage tra riforme della disciplina dei licenziamenti e recenti pronunce di legittimità, in Variazioni su Temi Diritto del Lavoro, Torino, 2016, 4, 856.

[97] Cfr. Cass., 22.3.16, n. 5592 e Cass., 13.6.2013, n. 12101, cit..

[98] Cfr. Cass., 22.3.2016, n. 5592, che richiama in merito i precedenti di legittimità: Cass., 29.1.16, n. 1665; Cass., 14.1.13, n. 2016; Cass., 2.9.13, n 20110; Cass., 17.4.12, n. 6008; Cass., 6.6.12, n. 9099.

[99] Cfr. in tale senso sempre Cass., 22.3.2016, n. 5592.

[100] Sul punto si veda anche Cass., 10.5.2016, n. 9467, inedita a quanto consta che ha ritenuto l’inesistenza di un obbligo del datore di lavoro di offrire al lavoratore tutte le mansioni, anche quelle del tutto incompatibili con quelle svolte in precedenza dal lavoratore. I giudici di legittimità affrontano il caso di una dipendente di struttura alberghiera, addetta a mansioni di segreteria e di cassa, licenziata per soppressione della sua posizione lavorativa a causa di un calo di clientela. Secondo i giudici di legittimità l’unica posizione alternativa disponibile era quella di cameriera ai piani. Tuttavia, tale mansione non solo era inferiore a quella svolta dalla lavoratrice, ma risultava del tutto avulsa dal bagaglio professionale e dalle competenze della medesima, con la conseguenza che non era ravvisabile un obbligo della società di offrire tali diverse mansioni. L’obbligo di offrire (al fine di evitare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo) posizioni disponibili nell’ambito della organizzazione aziendale si arresta, infatti, nell’ipotesi di mansioni inferiori che non risultino compatibili con quelle svolte dal lavoratore in precedenza non essendo il datore di lavoro tenuto ad offrire alla dipendente tutte le mansioni vacanti e disponibili anche non riconducibili alla professionalità del lavoratore.

[101] Cass., 9.11.2016, n. 22798, consultabile su ilgiuslavorista.it con nota del 27.01.2017 di R. Spagnuolo, Obbligo di repêchage per mansioni inferiori?.

[102] Nella ricostruzione affrontata dalla Cassazione si evince che nel corso del tempo, con riferimento al divieto inderogabile di assegnare il lavoratore a mansioni inferiori “si sono configurate eccezioni non solo da parte della legge (ad es. art. 4, co. 11, L. n. 223 del 1991; art. 4, co. 4, L. n. 68 del 1999; art. 7, co. 5, L. n. 151 del 2001) ma anche ad opera della giurisprudenza, sull'assunto razionale che le deroghe all'espressa previsione di nullità sono giustificate nelle sole ipotesi in cui vi è una oggettiva prevalenza dell'interesse del dipendente al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall'estinzione del rapporto”.

[103] Sempre a parere di Cass., 9.11.2016, n. 22798, tale principio si è consolidato in un successivo indirizzo giurisprudenziale ove si è affermato che l’assegnazione a mansioni inferiori del lavoratore divenuto fisicamente inidoneo costituiva un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, adeguamento che deve essere sorretto, oltre che dall'interesse, anche dal consenso del prestatore. Tale decisione poi, a supporto di tale enunciazione, richiama espressamente i precedenti di Cass. n. 15500 del 2009 e Cass. n. 18535 del 2013.

[104] In tal senso, si veda anche Cass. n. 23698 del 2015 (richiamata in motivazione sempre da Cass., 9.11.206, n. 22798) ove in una ipotesi di soppressione, a seguito della riorganizzazione aziendale, del posto di lavoro si è statuito che “l'art. 2103 c.c. si interpreta alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza con la "ratio" di numerosi interventi normativi, sicché, ove il demansionamento rappresenti l'unica alternativa al recesso datoriale, non è necessario un patto di demansionamento o una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, ma è onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale”.

[105] A. Maresca, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento: il prius, il posterius ed il nesso causale, articolo pubblicato nell’ambito del Convegno promosso dalla Commissione di certificazione dei contratti di lavoro dell’Università Roma Tre, 14, su ilgiuslavorista.it.

[106] Cass., 21.12.2016, n. 26467, su ilgiuslavorista.it.

[107] In merito, si vedano le sentenze citate da tale decisione, ex multis: Cass., 08.3.2016, n. 4509; Cass., 13.8.2008, n. 21759; Cass., 19.11.2015, n. 23698.