Articolo di Michelangelo Salvagni
Pubblicato in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, n. 2/2017
CASSAZIONE, 12.12.2016, n. 25379 - Pres. Nobile, Est. Bronzini, P.M. Sanlorenzo (rigetto) – L.S. (avv.ti Arrotta, Colucci) c. Capgemini Italia S.p.a. (avv.ti Zucchinali, Favalli)
Diff. Corte Appello Roma, 19.02.14
Disabilità – Richiesta di benefici ex art. 33, comma 5, l. n. 104 del 1992 per assistenza a disabile – Non gravità dell’handicap - Trasferimento nelle more dell’accertamento della situazione di handicap grave per il disabile – Rifiuto al trasferimento - Licenziamento disciplinare – Diritto a non essere trasferiti anche quando non vi sia disabilità grave - Illegittimità del trasferimento.
La disposizione della l. n. 104/1992, art. 33, c. 5, laddove vieta di trasferire, senza consenso, il lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati. Ne consegue che il trasferimento del lavoratore è vietato anche quando la disabilità del familiare, che egli assiste, non si configuri come grave, a meno che il datore di lavoro, a fronte della natura e del grado di infermità psicofisica del familiare, provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive ed urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte. (1)
L’interpretazione costituzionalmente orientata in materia di trasferimento del lavoratore che assiste il soggetto affetto da disabilità non grave.
- L’argomento oggetto della presente annotazione riguarda la tematica del trasferimento del lavoratore che presta assistenza al disabile. In particolare, viene posta all’attenzione della Cassazione la tutela prevista dall’art. 33, comma 5, della L. 104/1992 che stabilisce appunto, per il prestatore che assiste il familiare affetto da handicap grave, il diritto a non essere trasferito ad altra sede se non presta il consenso. La finalità della legge 104 del 1992, come è stato chiarito anche dalla Corte Costituzionale del 16 giugno 2005, n. 233, è quella di predisporre tutte le azioni necessarie al fine di garantire il “pieno rispetto della dignità umana e dei diritti di libertà e autonomia della persona handicappata”; tale obiettivo deve essere necessariamente perseguito anche mediante il riconoscimento di appositi diritti ai lavoratori che assistono parenti affetti da disabilità e ciò “all’evidente fine di assicurare continuità nelle cure e nell’assistenza ed evitare vuoti pregiudizievoli alla salute psico-fisica del soggetto diversamente abile” (in tal senso, si veda Corte Cost. 16 giugno 2005, n. 233, in q. Riv., 2005, 4, II, p. 787, con nota di Borla, il quale richiama la precedente giurisprudenza costituzionale incentrata sul principio di tutela del portatore di handicap anche attraverso il ruolo insostituibile della famiglia. Sul punto, si segnala anche Corte Cost. 18 luglio 2013, n. 2013). In dottrina è stato sostenuto che la giurisprudenza costituzionale chiarisce come l’obiettivo della legge consista non solo nella tutela della salute delle persone portatrici di handicap, ma anche delle loro condizioni di vita affinché possano condurre un’esistenza normale (Bonardi, 785). Altro autore ha affermato che lo scopo perseguito dalla normativa speciale sia proprio quello di agevolare lo sviluppo della condizione umana dei soggetti che si trovano in situazione di difficoltà a causa di disabilità (Mesiti, 5). In giurisprudenza, si segnala sul punto una recente decisione della Cassazione, la n. 22421 del 3 novembre 2015 (in q. Riv. 2016, 3, II, con nota di Cimaglia, 366) che ha rafforzato le disposizioni in materia di protezione del soggetto disabile ancorandole a principi costituzionali e a norme sovranazionali al fine di individuare, secondo la definizione fornita dalla Suprema Corte, “un sistema unitario di protezione” (Cimaglia, 366).
- Fatta tale premessa di ordine sistematico e normativo, si può esaminare il caso di specie. La sentenza in commento affronta la fattispecie di una lavoratrice che, nelle more della richiesta del riconoscimento dei benefici della legge n. 104 del 1992, articolo 33, comma 5, per assistere la madre affetta da handicap grave, veniva dapprima trasferita e poi licenziata per non aver ottemperato a tale provvedimento. I giudici di merito, sia il Tribunale che la Corte di Appello, ritenevano che il trasferimento e il successivo licenziamento fossero legittimi in quanto non potevano ritenersi applicabili per la prestatrice le garanzie previste dalla suddetta legge. Ed infatti, al momento del provvedimento di trasferimento, a parere dei giudici di merito, non esisteva una valida documentazione che attestasse la situazione di handicap grave. Tale disabilità, infatti, non era stata ancora accertata dalle USL attraverso le commissioni mediche previste dalla L. n. 104 del 1992, articolo 4, o da un medico specialista in servizio presso l’USL. Conseguentemente, il trasferimento a monte appariva legittimo ed unilateralmente la lavoratrice non vi aveva ottemperato decidendo, senza consenso della parte datoriale, di usufruire di permessi ex L. n. 104 del 1992, in realtà non dovuti.
La dipendente, quindi, ricorreva in Cassazione deducendo che la Corte territoriale aveva errato nel non avere considerato illegittimo il trasferimento in pendenza di provvedimento amministrativo di riconoscimento dei benefici della L. n. 104 del 1992, seppur temporaneo, in quanto risultava documentalmente dimostrato che la madre della dipendente sin dal 2008 godeva dei permessi rilasciati dall’INPS in pendenza del procedimento di accertamento definitivo del diritto.
In punto di diritto la ricorrente basava le proprie doglianze sul fatto che il trasferimento doveva considerarsi illegittimo in quanto il datore di lavoro conosceva tale situazione di disabilità della madre e, pertanto, doveva astenersi dal provvedimento di trasferimento.
- La decisione in esame afferma che la tematica sottoposta al proprio vaglio pone la seguente questione di diritto: se il diritto a non essere trasferiti sussista, ai sensi delle L. n. 104 del 1992, solo in presenza di una necessità di assistenza a soggetti portatori di handicap grave, così come accertato nella sede di merito o se, invece, esista anche quando la disabilità del familiare non sia così grave a meno che non vi siano ragioni aziendali effettive tanto urgenti da imporsi sulle contrapposte esigenze assistenziali. La Cassazione, rispetto alla corretta interpretazione della L. n. 104 del 1992, articolo 33, comma 5, aderisce ad un precedente indirizzo di legittimità, ossia la sentenza n. 9201 del 2012, richiamando le statuizioni ivi contenute ai fini della risoluzione della vicenda de qua. In particolare, i giudici di legittimità dichiarano di aderire ai principi espressi dalla Suprema Corte del 2012 per cui “la disposizione della L. n. 104 del 1992, articolo 33, comma 5, laddove vieta di trasferire, senza consenso, il lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati – alla luce dell’articolo 3 Cost., comma 2, dell’articolo 26 della Carta di Nizza e della Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 sui diritti dei disabili, ratificata con L. n. 18 del 2009 – in funzione della tutela della persona disabile. Ne consegue che il trasferimento del lavoratore è vietato anche quando la disabilità del familiare, che egli assiste, non si configuri come grave, a meno che il datore di lavoro, a fronte della natura e del grado di infermità psico-fisica del familiare, provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive ed urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte” (in LG, n. 5, 2013, pp. 503 – 514, con nota critica di Mesiti, 506).
Conseguentemente, secondo i giudici di Cassazione, in virtù di tali fonti legislative nazionali e internazionali (queste ultime ratificate dal nostro legislatore), la decisione della Corte di Appello non appare corretta poiché ha posto alla base del ragionamento decisorio esclusivamente la mancanza di documentazione proveniente dalle USL sull’invalidità grave della madre della ricorrente. La Corte territoriale, invece, avrebbe dovuto procedere ad una effettiva e concreta valutazione della serietà e rilevanza (sotto lo specifico profilo della necessità di assistenza) dell’handicap da questa sofferta (eventualmente sulla base della documentazione disponibile) a fronte delle esigenze produttive sottese al trasferimento. In sostanza, a parere della Cassazione, la sentenza di merito risulta errata laddove si è limitata ad interpretazione letterale della norma che, invece, risulta superata dall’orientamento statuito dalla giurisprudenza di legittimità.
- Il principio espresso dalla Suprema Corte che si annota appare di particolare rilevanza in quanto conferma un’interpretazione costituzionalmente orientata con riferimento alla tutela del disabile e ciò a prescindere dalla “accertata” gravità delle condizioni del soggetto interessato. In base al ragionamento decisorio che qui si esamina, il punto nodale su cui si incentra la soluzione adottata dalla Cassazione riguarda la particolare attenzione e valutazione che il magistrato è chiamato ad effettuare affinché si possa realizzare, per il portatore di handicap, quell’effettiva tutela delle prerogative assistenziali riconosciute dall’impianto normativo di riferimento. A tal proposito, si evidenzia che l’assunto stabilito dai giudici di legittimità è l’unico conforme alla ratio della norma speciale di cui alla L. n. 104/1992, art. 33, comma 5, la quale è finalizzata a limitare lo spostamento della sede di lavoro del lavoratore che assiste il disabile. Ciò per evitare le ovvie ricadute pregiudizievoli in termini di interruzione dei rapporti di assistenza e cura quotidiana del soggetto bisognevole. Risulta quindi apprezzabile la tesi della Cassazione che, ispirandosi a valori costituzionali e norme sovra nazionali (tra cui la Carta di Nizza e la Convenzione delle Nazioni Unite), ricomprende nella tutela “garantista” della summenzionata disposizione ex art. 33, comma 5, anche i soggetti portatori di handicap non grave o il cui grado di gravità sia in corso di accertamento.
La sentenza in commento va altresì esaminata anche in termini di rispetto, da parte del datore di lavoro, dei doveri di correttezza e buona fede ex art. 1175 e 1375 c.c. che, proprio in ragione dello stravolgimento personale che comporta lo spostamento del luogo ove si lavora abitualmente, deve tenere in considerazione la situazione personale del prestatore. Ciò a maggior ragione se il lavoratore assiste un soggetto portatore di handicap. In merito, si è espressa recentemente la Suprema Corte, affermando che “ferma restando l'insindacabilità dell'opportunità del trasferimento, salvo che risulti diversamente disposto dalla contrattazione collettiva, il datore di lavoro, in applicazione dei principi generali di correttezza e buona fede (art. 1375 cod. civ.), qualora possa far fronte a dette ragioni avvalendosi di differenti soluzioni organizzative, per lui paritarie, è tenuto a preferire quella meno gravosa per il dipendente, soprattutto nel caso in cui questi deduca e dimostri la sussistenza di serie ragioni familiari ostative al trasferimento” (in tal senso, Cass. 28.01.2016, n. 1608, q. Riv., 2016, 3, II, 371, con nota di Tufo).
Va inoltre considerato che essendo la norma di cui all’art. 2103 cod. civ. teleologicamente orientata alla protezione delle relazioni interpersonali che legano il prestatore di lavoro ad un determinato complesso produttivo e alla sede di residenza, le garanzie previste per il lavoratore trasferito devono ritenersi ancor più rafforzate nel caso del lavoratore che assiste un parente disabile.
Ad ulteriore supporto delle considerazioni si qui svolte, si veda quanto stabilito sul punto dalla Suprema Corte, con la citata sentenza n. 9201 del 2012, ove si afferma che “il diritto del lavoratore a non essere trasferito ad altra sede lavorativa senza il suo consenso non può subire limitazioni anche allorquando la disabilità del familiare non si configuri come grave risultando la sua inamovibilità – nei termini in cui si configuri come espressione del diritto all’assistenza del familiare comunque disabile – giustificata dalla cura e dall’assistenza da parte del lavoratore al familiare, sempre che non risultino provate da parte del datore di lavoro – a fronte della natura e del grado di infermità (psico-fisica) del familiare – specifiche esigenze datoriali che, in un equilibrato bilanciamento di interessi, risultino effettive, urgenti e comunque insuscettibili di essere diversamente soddisfatte”. Al riguardo, si segnala anche la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite del 9 luglio 2009, n. 16102, secondo cui il diritto del lavoratore che assista un familiare portatore di handicap a non essere trasferito senza il suo consenso non può subire limitazioni in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico produttive aziendali a meno che sia accertata “in base ad una verifica rigorosa anche in sede giurisdizionale, l’incompatibilità della permanenza del lavoratore nella sede di lavoro” (in LG, 2009, 1243, con nota di Limena, nonché in MGL, 2009, 918 ss, con nota di D’Andrea. Per completezza, sul trasferimento del disabile per incompatibilità ambientale, si veda anche Cass. 5.11.2013, n. 24775, q. Riv., 2014, 2, II, 278, con nota di Sessa). Secondo una parte delle dottrina, sebbene la legge 104 del 92 rientri in quelle ipotesi speciali in cui la considerazione dei principi costituzionali coinvolti determina un limite al trasferimento, essa però non sancisce un diritto assoluto del disabile o di chi lo assiste a non essere trasferito senza consenso (Sessa, 282). A parere di altro autore poi, il grado di handicap necessario al riconoscimento delle tutele riconosciute dalla legge è solo quello del soggetto disabile in situazione di gravità e, pertanto, configurare un divieto di trasferimento anche in ipotesi di handicap non grave “comporterebbe un tale allargamento della platea di beneficiari del diritto che potrebbe mettere in seria discussione l’organizzazione produttiva di molti imprenditori e violerebbe palesemente i principi di libertà della iniziativa economica” (Mesiti, 514).
Tuttavia, ogni situazione che abbia ad oggetto la tutela di un disabile, stante anche la specialità della legge che lo protegge, deve essere valutata con particolare “rigore”. Infatti se, da una parte, è vero che la soluzione da applicare al caso concreto deve essere trovata nel rispetto del bilanciamento di interessi costituzionali espressi sia dall’art. 3 sia dall’art. 41 della Cost., dall’altra, le esigenze aziendali che determinano il trasferimento del soggetto che assiste il portatore di handicap non potranno essere solo “comprovate”, come impone l’art. 2103 c.c., ma dovranno risultare “effettive ed urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte”, come condivisibilmente stabilisce sia la sentenza di Cassazione n. 9201 del 2012 sia quella oggetto di nota.
In altre parole, il lavoratore che assiste il disabile gode di una tutela “rafforzata” che trova le proprie fondamenta sia nella Carta Costituzionale sia nella legge speciale n. 104 del 1992, nonché nelle fonti sovranazionali. Il datore di lavoro, quindi, dovrà dimostrare non solo le “comprovate ragioni” di cui all’art. 2103 c.c. poste alla base del trasferimento, ma anche di aver adottato un bilanciamento degli interessi coinvolti nella decisione attuata nei confronti del prestatore trasferito che assiste il disabile. L’azienda dovrà pertanto provare che tale scelta sia l’unica percorribile, dando conto del rispetto dei doveri di correttezza e buona fede ex art. 1175 e 1375 c.c. nella determinazione della stessa che, necessariamente, deve aver considerato le esigenze soggettive del dipendente, ossia le sue condizioni familiari (cfr. in tal senso Cass. 28.01.2016, n. 1608, op.cit.).
- Tornando al caso di specie e facendo corretta applicazione dei principi espressi dalla Suprema Corte nella decisione in commento, la mancata valutazione da parte del datore di lavoro delle condizioni di salute della madre della lavoratrice trasferita comporta quindi l’illegittimità del trasferimento e, a parere di chi scrive, anche per violazione degli obblighi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. visto che, come giustamente osservato dalla sentenza che si annota, nei precedenti gradi di merito non era stata effettuato un accertamento “rigoroso” della situazione familiare complessiva della dipendente trasferita.
Alla luce dei precedenti giurisprudenziali sopra richiamati, l’inamovibilità del lavoratore che assiste il disabile appare ispirata ad una “complessiva” considerazione di valori e principi costituzionali, comunitari e internazionali che tutelano non tanto il lavoratore trasferito ma il soggetto debole portatore di handicap. E’ scontato che lo spostamento del dipendente che assiste il disabile comporta inevitabili conseguenze negative su quest’ultimo. Il pregiudizio che si realizza, che la disabilità sia grave o meno, deriva appunto da una mancata o minore assistenza conseguente a tale cambiamento di sede di lavoro. In tal caso, si configura un’inevitabile compressione del diritto del soggetto debole a poter vivere un’esistenza piena e dignitosa che, invece, come sin qui chiarito (anche alla luce dell’orientamento della giurisprudenza costituzionale, da ultimo del 2013), costituisce la precipua finalità della legge 104 del 1992.
Pertanto, la decisione in commento valorizza, in maniera condivisibile, il prevalente interesse, costituzionalmente garantito, alla tutela piena ed effettiva del soggetto che assiste il portatore di handicap, a prescindere dal grado di gravità della disabilità posseduta. Ciò costituisce un limite al potere, altrimenti discrezionale, del datore di lavoro di trasferire il lavoratore che può essere compresso di fronte a interessi soggettivi di rango costituzionale.
Avvocato in Roma
Riferimenti bibliografici
Borla F. (2005), Estensione della tutela giuridico-economica per i fratelli/sorelle conviventi portatori di handicap, q. Riv., 4, II, p. 792; Bonardi O. (2011), I diritti dimenticati dei disabili e dei loro familiari in seguito alle recenti riforme, Riv., 4, II, p. 785; Cimaglia M. C. (2016), Il sistema di protezione rafforzato delle persone con disabilità, Riv., 3, II, 366-367 D’Andrea A. (2009), Trasferimento per incompatibilità ambientale del familiare del disabile: non occorre il consenso in caso di incompatibilità ambientale del disabile o soppressione del posto, MGL, 918 ss; Mesiti D. (2013), Handicap, cecità e sordità, Milano, Giuffrè, 5; Mesiti D. (2013), L’handicap e il divieto di trasferimento del lavoratore, LG, 5, 514; Limena F. (2009), Trasferimento per incompatibilità ambientale del familiare che assiste un disabile, LG, n. 12, pp. 1244-1252 Sessa E. (2014), Il trasferimento del disabile per incompatibilità ambientale, q. Riv., 2, II, 278; Tufo M. (2016), Trasferimento del lavoratore, correttezza e buona fede, in Riv., 3, II, 371.