Il diritto del lavoratore titolare dei benefici ex art. 33. comma 5, L. n. 104/92 a scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio del disabile

Articolo di Michelangelo Salvagni

Pubblicato in Lavoro e Previdenza Oggi, n. 11/12 2017

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Rapporto di lavoro – Assistenza a familiare affetto da handicap grave – Benefici della legge 104/92 – Richiesta del lavoratore di trasferimento alla sede più vicina al familiare disabile – Diritto del lavoratore ad essere trasferito ex art. 33, comma 5, L. n. 104/92 – Ius variandi in base al nuovo art. 2103 c.c. – Onere della prova ai sensi dell’art. 2103 c.c. – Analogia con la fattispecie del repêchage – Principio della vicinanza della prova – Ampliamento dell’onere del datore di lavoro nella ricerca di posizioni per il lavoratore nella sede di destinazione – Mancata dimostrazione della impossibilità di adibire il lavoratore nella sede di destinazione.

 

Tribunale di Roma, ordinanza 28 febbraio 2017 – Giud. Casari*

 Nel caso in cui il dipendente titolare dei benefici previsti dall’art. 33, comma 5, della L. n. 104/1992, per l’assistenza al familiare convivente disabile grave, chieda di essere trasferito alla sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, il datore di lavoro ha l’onere di provare che nella sede (o nelle sedi) dove il trasferimento è stato richiesto non sia possibile collocare il lavoratore, dovendo dimostrare l’impossibilità dell’adibizione del prestatore a mansioni riconducibili a livello e categoria di appartenenza, tendendo conto del riformato art. 2103 c.c. che non richiede più il rispetto del principio di equivalenza e del mantenimento del bagaglio professionale acquisito dal lavoratore.

Il concetto di livello e categoria si pone quale limite entro il quale il potere di modificare l’assegnazione delle mansioni deve essere contenuto e quindi deve essere utilizzato anche con riferimento all’istituto del trasferimento del lavoratore. (Massima a cura dell’Autore)

(Omissis) Nella fattispecie all’esame risulta incontestato che: la ricorrente, assunta il 1.12.2004, alla chiusura delle sedi su Roma dell’allora datrice di lavoro Alenia Aermacchi s.p.a. veniva formalmente trasferita a Venegono Superiore con effetto dal 1.1.2013 pur continuando in fatto a lavorare come in precedenza in regime di distacco presso la Camera dei Deputati; che in data 13.1.2014 la madre della ricorrente, già riconosciuta invalida al 100% dal marzo 2013, trasferiva la propria residenza presso la figlia; alla medesima genitrice era riconosciuto diritto all’accompagno a far data dal maggio 2014; terminato il distacco in data 31.10.2014, la ricorrente chiedeva in ragione dei gravi e comprovati motivi familiari di poter essere trasferita alla sede di Pomigliano d’Arco e la datrice di lavoro vi acconsentiva con effetto dal 29.5.2015, avendo già concesso altresì alla dipendente i benefici di cui all’art.33 L.104/92; di fatto l’istante non prese mai servizio a Pomigliano d’Arco avendo chiesto di poter usufruire di congedo straordinario ai sensi della L.151/2001 concedibile per il termine massimo di gg.730 dal gennaio 2015; che in data 1.1.2016 Alenia Aermacchi s.p.a. veniva incorporata da Finmeccanica s.p.a. poi denominata Leonardo s.p.a., la quale ultima società ha numerose sedi su Roma ove sono occupati oltre 3000 dipendenti; che la ricorrente sempre in regime di congedo, chiedeva nel maggio e nell’ottobre 2016 e nel gennaio 2017 di essere trasferita presso una sede di Roma, domanda che non veniva accolta.

La convenuta (omissis) ha chiesto il rigetto del ricorso sostenendo l’insussistenza di posizioni lavorative su Roma a cui la ricorrente potrebbe essere adibita essendosi verificata con la fusione una duplicazione delle figure organizzative preesistenti.

Con riferimento al periculum in mora si rileva che l’esaurimento dei giorni di congedo straordinario nel prossimo semestre profila l’effettivo pericolo, nell’attesa della trattazione di un giudizio ordinario dai tempi di definizione mediamente più lunghi, di necessaria interruzione dell’assistenza offerta alla madre convivente onde poter prendere servizio alla sede di Pomigliano. Non può infatti essere ritenuto realistico quanto sostenuto al riguardo alla difesa della convenuta secondo cui la lontananza del posto di lavoro dalla residenza consentirebbe comunque all’istante di offrire adeguata assistenza alla madre in ragione dei tempi ragionevoli di percorrenza del tragitto Roma-Napoli e della flessibilità in entrata ed in uscita dell’orario di lavoro. Rileva l’Ufficio che un orario di lavoro per come dedotto in comparsa dalle 8,30 alle 17,00 non toglie che l’istante sarebbe comunque quotidianamente chiamata a rispettare un orario a tempo pieno a questo aggiungendosi non solo i tempi di percorrenza del tratto ferroviario Roma-Napoli (50 minuti di treno) ma anche i tempi di attesa della navetta e di trasbordo Napoli-Pomigliano  di circa 17km. Considerata quindi la distanza tra via di Quarto Miglio (vedi certificato di residenza doc.8 fascicolo attoreo) e la Stazione Termini nonché i tempi di percorrenza medi del percorso con i mezzi pubblici, si deve ritenere che l’istante mediamente dovrebbe occupare quanto meno 4 ore della giornata in spostamenti da e per il lavoro, dato che non può essere ragionevolmente ritenuto irrilevante ai fini dell’assistenza alla madre handicappata.

Riguardo all’eccezione che l’approssimarsi del termine dei giorni di congedo sia dipeso da inerzia dell’istante la quale ben avrebbe potuto in precedenza agire in giudizio, si osserva che dalla documentazione agli atti risulta che la ricorrente, dall’insorta possibilità di trasferimento su Roma (gennaio 2016) non solo ha avanzato più volte a far data da maggio 2016 istanza di trasferimento alla società ma che tra la medesima e la datrice di lavoro erano in corso ancora verso fine ottobre 2016 tentativi onde addivenire ad un accordo bonario in tale senso (vedi mail doc.5 fascicolo di parte convenuta). Dal che, tenuto conto di un ragionevole lasso di tempo in attesa di una risposta definitiva, mai pervenuta neppure a seguito di sollecito nella prima metà di gennaio 2017, non può ritenersi tardivo il ricorso cautelare depositato il 31 gennaio 2017.

Ritiene quindi l’Ufficio, conclusivamente, sussistere nella fattispecie l’elemento del periculum in mora.

In merito al fumus, ricorda l’Ufficio come il giudice di legittimità si sia più volte espresso chiarendo come in materia di assistenza ai portatori di handicap,  ex art. 33, comma 5 L.104/1992, il familiare lavoratore, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap, può esercitare il diritto di scegliere la sede di lavoro sia al momento dell'assunzione che in costanza di rapporto, sempreché il posto risulti esistente e vacante (Cass. sent nn°16298/2015, 3896/2009 e Sezioni Unite n°7945/ 2008).

Nel caso in esame, come sopra ricordato, è incontestato sia il requisito legale della “assistenza continuativa” resa possibile prima da svolgimento di attività lavorativa in regime di distacco su Roma e quindi di godimento di congedo straordinario, sia lo stato di “portatore di handicap” in capo alla madre della ricorrente dal gennaio 2014.

(Omissis)

 Accertata quindi la piena invocabilità del disposto di cui al comma 5 dell’art.33 cit. da parte della ricorrente, occorre per altro ricordare che l’indicato diritto al trasferimento non si configura come incondizionato, giacché esso, come dimostrato anche dalla presenza dell'inciso "ove possibile", può essere fatto valere allorquando, alla stregua di un equo bilanciamento tra tutti gli interessi implicati, il suo esercizio non finisca per ledere in maniera consistente le esigenze economiche, produttive od organizzative dell'impresa, gravando sulla parte datoriale l'onere della prova di siffatte circostanze ostative all'esercizio stesso dell'anzidetto diritto. (Cass. n°7945/2008).

In merito alla distribuzione dell’onere probatorio ha sostenuto la convenuta che dovrebbe essere controparte a dimostrare la sussistenza di una posizione disponibile e vacante presso la sede oggetto di domanda.

L’eccezione, al di la’ della smentita offerta dall’indicato pronunciamento giurisprudenziale, non può essere condivisa atteso che il regime dell’onere della prova segue da sempre il principio della vicinanza nel senso che appare più logico richiedere la prova a chi la prova può fornire più agilmente. Chiaro quindi che nel caso in cui la prova verta sull’esistenza o meno di posizioni in organico, tanto più evidente in ipotesi di organici estremamente articolati e complessi come quelli della convenuta, la parte che più facilmente accede agli elementi necessari a sostenere la propria tesi è sicuramente quella datoriale.

Venendo al caso di specie, certamente non sussistono esigenze organizzative ostative presso la sede di provenienza di Pomigliano d’Arco non avendo in fatto mai la ricorrente prestato servizio presso tale unità ed essendosi quindi necessariamente ivi organizzata l’attività a prescindere dal suo apporto.

Con riferimento viceversa alla sede richiesta, ricordiamo che la società datrice di lavoro ha sostenuto l’insussistenza di posizioni lavorative su Roma a cui la ricorrente potrebbe essere adibita essendosi verificata con la fusione una duplicazione delle figure organizzative preesistenti. A corroborare la propria tesi ha prodotto ordine di servizio n°39 di presentazione del nuovo assetto organizzativo aziendale articolato in 4 settori e 7 divisioni business adottato dal gennaio 2016 ed ha sostenuto che non è stato possibile affidare alla Cozzari alcuna posizione su Roma poiché non vacanti ruoli da assistente/segretaria di direzione.

Orbene, il nuovo art.2103 c.c., così come modificato dal D.Lgs.81/2015 entrato in vigore il 25.6.2015 non consente di ritenere provata l’impossibilità al trasferimento su Roma in ragione dell’insussistenza nelle sedi di tale città di identiche mansioni rispetto a quelle precedentemente svolte dal lavoratore.

Dispone il nuovo testo della norma che “il lavoratore deve essere adibito a mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a quelle mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”. Eliminato dunque il riferimento contenuto nella precedente formulazione alle mansioni c.d. “equivalenti”, lo spazio di utilizzo del dipendente ad oggi è divenuto più ampio e flessibile, ragione per cui ciò che il datore di lavoro avrebbe dovuto dimostrare in questa sede non era l’impossibilità di adibire l’istante alle precedenti mansioni di assistente/segretaria di direzione ma l’insussistenza su Roma di qual si voglia posizione inerente il profilo di appartenenza, circostanza neppure dedotta.

Quanto sopra è sufficiente all’accoglimento della domanda.

I compensi di lite seguono la soccombenza.

P.Q.M.

in accoglimento del ricorso, dichiara il diritto della ricorrente al trasferimento in una delle sedi della convenute site nel Comune di Roma; (omissis).

 

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Tribunale di Roma, ordinanza 5 maggio 2017, n. 8853 – Pres. Leone, Rel. Emili

 

 

Il diritto ad essere trasferiti nella sede più vicina al domicilio della persona che ha bisogno di assistenza deve essere riconosciuto ogni qualvolta il datore di lavoro non dimostri in giudizio l’impossibilità di ottemperare a tale richiesta in base a oggettive ragioni ostative al trasferimento. (Massima a cura dell’Autore)

 

(Omissis)

Relativamente al buon diritto, la ordinanza ha chiarito, sussistenti il requisito legale della assistenza continuativa (resa possibile prima da svolgimento di attività lavorativa in regime di distacco su Roma e quindi di (dal) godimento di congedo straordinario…”), sia lo stato di “portatore di handicap” in capo alla madre della ricorrente dal gennaio 2014, come, secondo la accezione meno restrittiva, doveva tendersi a mantenere la situazione di assistenza già in atto da tempo e, quindi, la piena applicazione della norma di cui al comma 5, dell’art. 33, L. 104/92.

Non si rileva, quindi, il difetto motivazionale denunziato in quanto secondo il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte: “Il diritto del genitore o del familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato con lui convivente, di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio deve essere inteso – secondo il tenore letterale dell’art. 33, quinto comma L. 104/92 e in via comparativa con il sesto comma del medesimo articolo – nel senso della possibilità di suo esercizio tanto al momento dell’assunzione, quanto in costanza di rapporto: ben s’intende, ove possibile, in ragione del suo bilanciamento con la valutazione datoriale di compatibilità con le esigenze economiche ed organizzative dell’impresa, sul presupposto dell’esistenza e della vacanza del posto”([1]).

La valutazione relativa alla disponibilità nella sede di assegnazione ed in quella anelata, di Roma, parimenti in via del tutto condivisa, è stata condotta comparando la posizione soggettiva della istante in relazione alle esigenze aziendali, tenuto presente l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, quanto al relativo onere probatorio, ma anche il principio della vicinanza della prova, in relazione al nuovo testo dell’art. 2103 C.c..

L’ampliamento dello jus variandi avrebbe richiesto, invero, come affermato dal giudice di prime cure, la dimostrazione impossibilità di adibire la Cozzari alla sede di Roma, con riferimento a posizione inerente il livello e la categoria di appartenenza, circostanza tuttavia neppure dedotta dalla società [“Si ricorderà, infatti, che la disciplina previgente consentiva il mutamento solo a condizione che le mansioni precedenti e quelle nuove fossero equivalenti sia dal punto di vista oggettivo (parità di contenuto professionale) e sia soggettivo (coerenza con il bagaglio professionale acquisito e con la possibilità di un suo futuro sviluppo). Con le modifiche introdotte dal D.Lgs. n.81/2015 al datore di lavoro è attribuita, invece, la facoltà di modificare unilateralmente le mansioni a condizione che le nuove siano riconducibili allo stesso livello di inquadramento e categoria legale (operai, impiegati, quadri, dirigenti)” così nell’ordinanza].

Rileva il Collegio, in proposito, che, nel quadro della nuova disciplina dello ius variandi([2]) e quindi del potere conformativo della prestazione lavorativa (che costituisce riflesso del potere direttivo della parte datoriale), le mansioni, costituenti l’oggetto principale dell’obbligazione del lavoratore, debbono essere quelle della assunzione ovvero quelle riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

Evidente quindi che– per quanto interessa in questa sede – risulta modificato anche il parametro legale in base al quale deve essere verificata la legittimità dell’esercizio di tale potere datoriale: la possibilità di assegnare il lavoratore “a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte” ha, infatti, sostituito il potere di adibizione “a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”.

Ai sensi della novella legislativa, pertanto, per stimare la legittimità dell’esercizio di tale potere unilaterale, deve essere utilizzato un criterio determinato per relationem (appunto, il livello di inquadramento, come individuato dalla contrattazione collettiva) parametro che deve essere ritenuto, di per sé, sufficiente, non potendo il Giudice operare un sindacato sulla c.d. equivalenza professionale([3]).

In altre parole, il concetto di “livello” e “categoria”, si pone quale limite entro il quale il potere di modificare l’assegnazione delle mansioni deve essere contenuto e, quindi, non può non essere utilizzato anche con riferimento all’istituto del trasferimento da un’unità produttiva ad un’altra, atteso che, anche in tale fattispecie, permane il divieto delle variazioni in pejus.

Così come il criterio dell’equivalenza in tema di assegnazioni del lavoratore a mansioni diverse, costituiva il paradigma per valutare la legittimità della nuova assegnazione a seguito degli spostamenti disposti da parte datoriale, la nuova regola introdotta dal D.Lgs. 81/2015, sicuramente più ampia([4]), condiziona, quale effetto riflesso, anche l’istituto del trasferimento, pur nella invarianza del relativo precetto (così come in tema di repechage, quanto alla dimostrazione della impossibilità del reimpiego del lavoratore in altra posizione, di demansionamento ed, in generale, relativamente agli istituti che suppongono l’utilizzo del medesimo concetto).

Si tratta, in definitiva, nella specifica fattispecie, della opposta faccia della medesima medaglia e, se non può revocarsi in dubbio che la parte datoriale possa esercitare lo ius variandi nei più ampi confini recentemente ridisegnati non può, del pari, non ammettersi che alla stessa nozione presupposta debba farsi riferimento anche quanto debba dimostrarsi l’esistenza delle ragioni di carattere tecnico, organizzativo e produttivo, ostative al trasferimento richiesto.

Nessuna delle censure proposte dalla Società reclamante, pertanto, risulta dirimente nel senso di indebolire il ragionamento operato dal giudice della prima fase (quella relativa alla decadenza non è stata neppure riproposta) dovendosi ribadire la inesistenza di un ritardo incompatibile con le ragioni di urgenza, proprio in ragione del fatto che la Cozzari aveva, nelle more dell’azione, più volte avanzato istanza di trasferimento, sperando in una risposta positiva ovvero in una soluzione bonaria, ed anche avanzato formale diffida, comportamento del tutto incompatibile con un atteggiamento “di attesa” (inerte o acquiescente), mentre l’esaurimento del periodo di congedo, in correlazione alla esigenza di assistenza della madre, ben avrebbe potuto rendere inefficace la relativa tutela, nell’attesa dell’esito del giudizio ordinario.    

Né, ancora, può accedersi alla ricostruzione della reclamante quanto al fumus in quanto il giudice di prime cure ha correttamente applicato alla fattispecie concreta quel contemperamento di interessi sotteso alla norma richiamata e la “possibilità” concreta di adibizione della lavoratrice ad una determinata sede e, quindi, sicuramente rispettando il limite costituito dalla compromissione delle esigenze aziendali, non avendo la reclamante fornito la prova relativa alla insussistenza su Roma di posizioni di livello e categoria corrispondenti a quella posseduta dalla Cozzari.

In definitiva il reclamo va sicuramente respinto, con regolazione delle spese, liquidate in calce, secondo l’ordinaria regola della soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il reclamo e condanna la società Leonardo S.p.a. al pagamento delle spese processuali

 

Nota a Tribunale di Roma, ordinanze 28 febbraio e 5 maggio 2017

 

di Michelangelo Salvagni*

 

Sommario: 1. Le finalità della Legge n. 104 del 1992. - 2. Il caso di specie - 3. La scelta della sede di lavoro: il bilanciamento tra le esigenze del prestatore che assiste la persona disabile e le esigenze economiche ed organizzative dell’impresa - 4. Il principio della vicinanza della prova e il relativo onere posto a carico del datore di lavoro - 5. Diritto al trasferimento nella sede più vicina al domicilio del disabile e l’obbligo di ricerca di posizioni alternative alla luce del nuovo ius variandi ex art. 2103 c.c..

 

Le finalità della Legge n. 104 del 1992

 

I due provvedimenti in commento presentano importanti profili d’interesse in merito all’interpretazione della disposizione contenuta nell’art. 33, comma 5, della L. n. 104 del 1992, che consente al lavoratore, il quale presta assistenza al disabile con lui convivente, il diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina a quella del proprio domicilio. La norma citata prevede espressamente che “il lavoratore di cui al comma 3 ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.” La tematica sottoposta al vaglio del Tribunale di Roma rappresenta, in un certo senso, il completamento di un’altra statuizione contenuta nel summenzionato articolo in cui si prevede anche il divieto di trasferire, senza consenso, il lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente. Entrambe le fattispecie quindi, a prescindere dal caso concreto che coinvolge il lavoratore, sia esso trasferito (norma sicuramente di maggiore cogenza e garanzia per il prestatore che, infatti, presuppone il consenso del medesimo) o chieda invece il trasferimento, sono collegate funzionalmente nell’ambito di un disegno unitario voluto dal legislatore, ossia la tutela del disabile e di coloro i quali prestano assistenza al medesimo.

Il diritto all’assistenza familiare del dipendente, privato o pubblico, trova poi la propria specificazione nelle prescrizioni dell’art. 33, comma 3, legge n. 104 del 1992, in cui sono indicati i requisiti che legittimano l’assistenza alla persona portatrice di handicap, nonché i diritti riconosciuti ai lavoratori che possono usufruire di tali prerogative.

Ai fini del presente commento è necessario comprendere fino a che punto il diritto del prestatore a scegliere, “ove possibile”, la sede di lavoro possa incidere sull’organizzazione del datore di lavoro e quali tipi di obblighi scaturiscano per quest’ultimo per soddisfare tale richiesta. Al riguardo, occorre tener conto di quel necessario bilanciamento che il nostro ordinamento richiede tra diversi valori di rango costituzionale: da una parte, la protezione della persona portatrice di handicap, dall’altra, la libertà di iniziativa economica dell’imprenditore. Non può sottacersi, tuttavia, che le garanzie stabilite per il disabile sono connesse eziologicamente con un apposita tutela prevista anche a favore del lavoratore che lo assiste. L’obiettivo perseguito dal legislatore è appunto quello di consentire al portatore di handicap di ricevere un effettivo sostegno nel caso in cui il familiare che lo assiste sia un prestatore di lavoro. Il valore tutelato, infatti, sia dalla Costituzione sia dalle norme sovranazionali[5], nonché dalla normativa di riferimento (L. n. 104/92), non è solo l’assistenza e la cura familiare del soggetto handicappato ma anche, “sia pure indirettamente, il diritto del lavoratore di prendersi cura del disabile e dunque di poter organizzare la sua vita lavorativa in modo compatibile con i suoi impegni familiari, subiti o scelti”[6].

Infatti, la legge n. 104 del 5 febbraio 1992, per l’assistenza, l’integrazione sociale ed i diritti delle persone handicappate, prevede una serie di agevolazioni e diritti per i lavoratori, pubblici e privati, i quali assistono tali soggetti. Secondo la Corte Costituzionale del 16 giugno 2005, n. 233[7], la finalità della legge n. 104 del 1992 è quella di predisporre tutte le azioni necessarie allo scopo di garantire il “pieno rispetto della dignità umana e dei diritti di libertà e autonomia della persona handicappata”; tale obiettivo deve essere necessariamente perseguito anche mediante il riconoscimento di appositi diritti ai lavoratori che assistono parenti affetti da disabilità e ciò “all’evidente fine di assicurare continuità nelle cure e nell’assistenza ed evitare vuoti pregiudizievoli alla salute psico-fisica del soggetto diversamente abile”[8].

Sempre con riguardo all’intento della legge 104 del 1992, in dottrina è stato sostenuto che la giurisprudenza costituzionale chiarisce come lo scopo di tale legge consiste non solo nella tutela della salute delle persone portatrici di handicap, ma anche delle condizioni per poter condurre una vita normale[9]. Altro autore ha affermato che l’intento perseguito da tale normativa speciale è proprio quello di agevolare lo sviluppo della condizione umana dei soggetti che si trovano in situazione di difficoltà a causa di disabilità.[10] Va evidenziato sul punto che il lavoratore, prima della riforma cosiddetta “collegato lavoro”, per accedere alle agevolazioni per l’assistenza delle persone handicappate doveva dimostrare i requisiti della convivenza, della continuità e dell’esclusività dell’assistenza al disabile.[11] Tali requisiti, tuttavia, ormai sono stati abrogati con la modifica operata dall’art 24 della legge 183 del 2010 e, quindi, non sono più necessari.

 

 

Il caso di specie

 

Fatta tale premessa di ordine sistematico e normativo, si può esaminare il caso di specie. La questione è meritevole di approfondimento in ragione anche delle nuove disposizioni, di cui al novellato art. 2103 c.c., che consentono al datore di lavoro di adibire il lavoratore a compiti anche diversi da quelli espletati in precedenza, purché riferibili alla categoria e al livello di appartenenza essendo ormai venuta meno la regola dell’equivalenza delle mansioni.

La vicenda tratta il caso di una lavoratrice titolare dei benefici ex art. 33, comma 5, legge 104 del 1992, in quanto convivente con la madre affetta da grave disabilità, che aveva ricevuto il diniego alla domanda di trasferimento alla sede più vicina al proprio domicilio.

In breve, la fattispecie affrontata dal Tribunale di Roma è la seguente: la ricorrente alla chiusura delle sedi su Roma veniva formalmente trasferita ad altra località, ma continuando di fatto a lavorare, come in precedenza, in regime di distacco presso il medesimo Comune di Roma; una volta terminato il distacco la prestatrice chiedeva, in ragione di gravi e comprovati motivi familiari conseguenti alla disabilità della madre convivente, di poter essere trasferita alla sede aziendale più vicina a quella del proprio domicilio (Roma) che, in quel momento, era solo quella di Pomigliano d’Arco; la società acconsentiva a tale spostamento. Tuttavia, di fatto, la ricorrente non prendeva mai servizio presso la sede campana poiché nel frattempo, proprio per poter assistere la madre disabile, aveva chiesto di poter usufruire di un periodo di congedo straordinario. Nelle more del congedo straordinario la società datrice veniva però incorporata in altra società che su Roma aveva numerose sedi ove, peraltro, erano occupati oltre tremila dipendenti. La ricorrente proprio in virtù di tale nuova situazione societaria, sempre durante il regime di congedo, in ragione dell’approssimarsi della scadenza del periodo giuridicamente previsto per usufruire della sospensione del rapporto di lavoro, chiedeva nel maggio e nell’ottobre 2016, nonché nel gennaio 2017, di essere trasferita presso una delle sedi di Roma. A tale fine la ricorrente invocava la disposizione prevista dall’art. 33, comma 5, della L. n. 104/92, secondo cui il lavoratore che assiste un familiare disabile ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina alla persona da assistere; tale domanda non veniva accolta dalla società. La dipendente proponeva pertanto ricorso d’urgenza presso il Tribunale di Roma che veniva accolto nella prima fase e confermato nel giudizio di reclamo.

 

 

La scelta della sede di lavoro: il bilanciamento tra le esigenze del prestatore che assiste la persona disabile e le esigenze economiche ed organizzative dell’impresa

 

Ricostruite brevemente le circostanze di causa, occorre analizzare le argomentazioni addotte dai giudici ai fini dell’accertamento del diritto invocato dalla lavoratrice per quanto riguarda sia il periculum sia il fumus boni iuris. Con riferimento al periculum in mora è stata ritenuta più che probabile, sia dal giudice della prima fase che da quelli del reclamo, il verificarsi dell’interruzione dell’assistenza da parte della lavoratrice alla madre convivente sulla base del presupposto per cui, se la lavoratrice avesse effettivamente preso servizio alla sede di Pomigliano d’Arco, si sarebbe verificato un effettivo impedimento dell’assistenza giornaliera. Il Tribunale di Roma ha ritenuto infatti non ragionevoli i tempi di percorrenza del tragitto tra Roma e Pomigliano d’Arco al fine di garantire le tutele assistenziali previste dalla legge, come aveva invece sostenuto la società datrice. Afferma, sul punto, il giudice dell’ordinanza del 28 febbraio 2017, in maniera condivisibile, che “un orario di lavoro per come dedotto in comparsa dalle 8,30 alle 17,00 non toglie che l’istante sarebbe comunque quotidianamente chiamata a rispettare un orario a tempo pieno a questo aggiungendosi non solo i tempi di percorrenza del tratto ferroviario Roma-Napoli (50 minuti di treno) ma anche i tempi di attesa della navetta e di trasbordo Napoli-Pomigliano di circa 17km. Considerata quindi la distanza tra via di Quarto Miglio (vedi certificato di residenza doc.8 fascicolo attoreo) e la Stazione Termini nonché i tempi di percorrenza medi del percorso con i mezzi pubblici, si deve ritenere che l’istante mediamente dovrebbe occupare quanto meno 4 ore della giornata in spostamenti da e per il lavoro, dato che non può essere ragionevolmente ritenuto irrilevante ai fini dell’assistenza alla madre handicappata”. Appare ovvio che uno spostamento giornaliero tra Roma e Pomigliano d’Arco, accompagnato dalle notorie criticità di traffico e trasporto pubblico di una città come Roma, non consentano al lavoratore di realizzare effettivamente, in maniera quotidiana, quella tutela del disabile che in sostanza verrebbe vanificata dal pendolarismo giornaliero.

Per quanto riguarda invece il cosiddetto fumus boni iuris, occorre evidenziare che ogni situazione che abbia ad oggetto la tutela di un disabile, stante anche la specialità della legge che lo protegge, deve essere valutata con particolare rigore. La soluzione da applicare al caso concreto deve confrontarsi con il necessario bilanciamento di interessi costituzionali espressi sia dall’art. 3 sia dall’art. 41 della Cost.. Sul punto, il giudice della prima fase afferma che il “diritto al trasferimento non si configura come incondizionato, giacché esso, come dimostrato anche dalla presenza dell'inciso "ove possibile", può essere fatto valere allorquando, alla stregua di un equo bilanciamento tra tutti gli interessi implicati, il suo esercizio non finisca per ledere in maniera consistente le esigenze economiche, produttive od organizzative dell'impresa, gravando sulla parte datoriale l'onere della prova di siffatte circostanze ostative all'esercizio stesso dell'anzidetto diritto (Cass. n. 7945/2008)”[12].

Al riguardo i giudici del reclamo richiamano, a sostegno delle proprie argomentazioni, il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte secondo cui “il diritto del genitore o del familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato con lui conviventi, di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio deve essere inteso – secondo il tenore letterale dell’art. 33, quinto comma L. n. 104/92 e in via comparativa con il sesto comma del medesimo articolo – nel senso della possibilità di suo esercizio tanto al momento dell’assunzione, quanto in costanza di rapporto: ben s’intende, ove possibile, in ragione del suo bilanciamento con la valutazione datoriale di compatibilità con le esigenze economiche ed organizzative dell’impresa, sul presupposto dell’esistenza e della vacanza del posto” (Cass. n. 16298/15)[13].

Posto il bilanciamento di tali contrapposti interessi, tuttavia le esigenze aziendali che determinano il diniego del trasferimento devono essere effettive. In altre parole, la tutela del disabile o del lavoratore che lo assiste, gode di una tutela “rafforzata” che trova le proprie fondamenta sia nella Carta Costituzionale sia nella legge speciale n. 104 del 92. Peraltro, occorre evidenziare che la salvaguardia della persona handicappata trova ulteriori fonti, di tipo internazionale, nell’articolo 26 della Carta di Nizza e nella Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 sui diritti dei disabili, ratificata con L. n. 18 del 2009.[14]

Tornando al caso di specie, secondo i magistrati capitolini della seconda ordinanza del 5 maggio 2017 (che aderiscono alla tesi della Cassazione n. 16298/15), i termini di cui al comma 5 “ove possibile” stanno ad indicare che il diritto del lavoratore ad essere adibito nella sede più vicina al disabile assistito può essere disatteso solo nel caso in cui il datore di lavoro sia nell’impossibilità oggettiva (organizzativa e/o economica) di ottemperare a tale istanza. Ciò implica che l’eventuale diniego alla richiesta di trasferimento debba essere motivato da ragioni serie e oggettive e, soprattutto, non pretestuose. In tal caso, risulta evidente che la scelta datoriale di non soddisfare l’esigenza del prestatore dovrà essere adottata anche nel rispetto dei doveri di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. a cui ogni rapporto di lavoro deve necessariamente ispirarsi. Tali obblighi codicistici poi dovrebbero acquisire una maggiore cogenza quando vi sono in gioco interessi meritevoli di protezione come quelli del disabile e della persona che lo assiste che godono, come sopra già evidenziato, di una tutela in un certo senso “rafforzata” in ragione delle finalità della legge 104 del 1992.

 

Il principio della vicinanza della prova e il relativo onere posto a carico del datore di lavoro

 

Una delle enunciazioni più significative delle due ordinanze in esame riguarda anche la soluzione fornita con riferimento all’onere della prova. Uno dei punti nodali della vicenda è infatti comprendere a chi spetti provare l’esistenza di posizioni disponibili nella sede scelta dal lavoratore. In merito alla distribuzione dell’onere probatorio la società aveva dedotto che sarebbe stato onere della lavoratrice dimostrare la sussistenza di un posto vacante presso la sede oggetto di domanda.

A parere del giudice di prime cure tale eccezione tuttavia “non può essere condivisa atteso che il regime dell’onere della prova segue da sempre il principio della vicinanza nel senso che appare più logico richiedere la prova a chi la prova può fornire più agilmente”. Sulla base di tale assunto il giudice afferma che “nel caso in cui la prova verta sull’esistenza o meno di posizioni in organico, tanto più evidente in ipotesi di organici estremamente articolati e complessi come quelli della convenuta, la parte che più facilmente accede agli elementi necessari a sostenere la propria tesi è sicuramente quella datoriale”.

Con riferimento alla tematica della “vicinanza della prova” pare opportuno segnalare il recente orientamento della Cassazione del 2016[15] che, dettando nuovi principi in tema di ripartizione dell’onere della prova in materia di repêchage, ha ormai consolidato la regola per cui tale onere è completamente a carico della parte datoriale senza alcun dovere di cooperazione del lavoratore proprio in ragione del “principio di riferibilità o vicinanza della prova conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore a reagire all’inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore, in quanto nella miglior disponibilità degli elementi per dimostrare le ragioni del proprio comportamento”[16].

Sempre secondo tale arresto della Cassazione è il datore di lavoro che, in ragione della “maggiore vicinanza di allegazione e prova dell’impossibilità di repêchage”, si deve onerare di ricercare posizioni alternative, “non disponendo il lavoratore al contrario del primo, della completezza di informazione delle condizioni dell’impresa, tanto più in una condizione di crisi in cui esse mutano continuamente”[17]. Tale assunto si attaglia in maniera analogica anche alla presente vicenda.

Nel caso di specie, il Tribunale di Roma osserva che non è stata data prova in giudizio da parte della società dell’impossibilità oggettiva di adibire la lavoratrice alla sede di lavoro più vicina alla residenza propria (e quindi del disabile con la medesima convivente), in quanto, in base al livello e alla categoria posseduta dalla dipendente, la convenuta avrebbe dovuto dimostrare sia che non vi erano posti vacanti nella sede di Roma sia le esigenze organizzative che giustificavano la scelta aziendale di mantenere quest’ultima nella sede di Pomigliano d’Arco. Sostanzialmente, secondo i giudici capitolini, il datore di lavoro non ha provato, come era suo onere, l’impossibilità di adibire la lavoratrice alla sede di Roma in cui la medesima aveva invece diritto ad essere trasferita anche in ragione della circostanza, pacifica tra le parti, che la società in tale Comune ha varie sedi di lavoro e varie posizioni in cui poterla adibire. Sul punto osservano infine i giudici del reclamo “che la nuova regola introdotta dal D.Lgs. n. 81/2015, sicuramente più ampia, condiziona, quale effetto riflesso, anche l’istituto del trasferimento, pur nella invarianza del relativo precetto (così come in tema di repêchage, quanto alla dimostrazione della impossibilità del reimpiego del lavoratore in altra posizione, di demansionamento ed, in generale, relativamente agli istituti che suppongono l’utilizzo del medesimo concetto)”.

 

Diritto al trasferimento nella sede più vicina al domicilio del disabile e l’obbligo di ricerca di posizioni alternative alla luce del nuovo ius variandi ex art. 2103 c.c.

 

Il datore di lavoro, quindi, secondo la prospettazione delle due ordinanze in esame, avrebbe ben potuto impiegare la dipendente in una mansione riferibile al livello posseduto, ciò in virtù del modificato art. 2103 c.c. che non pone più il limite dell’equivalenza delle mansioni al fine della ricerca di una posizione alternativa del lavoratore all’interno dell’organizzazione aziendale. Il nuovo testo della norma prevede infatti che “il lavoratore deve essere adibito a mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a quelle mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”. Come correttamente rilevato dall’ordinanza del 28 febbraio 2017, una volta eliminato il riferimento normativo contenuto nella precedente formulazione alle mansioni c.d. equivalenti “lo spazio di utilizzo del dipendente ad oggi è divenuto più ampio e flessibile, ragione per cui ciò che il datore di lavoro avrebbe dovuto dimostrare in questa sede non era l’impossibilità di adibire l’istante alle precedenti mansioni di assistente/segretaria di direzione ma l’insussistenza su Roma di qual si voglia posizione inerente il profilo di appartenenza”.

Osservano ancora sul punto i giudici dell’ordinanza del 5 maggio 2017 che il concetto di “livello” e “categoria” rappresenta “il limite entro il quale il potere di modificare l’assegnazione delle mansioni deve essere contenuto e, quindi, deve valere anche con riferimento all’istituto del trasferimento da un’unità produttiva all’altra, atteso che, anche in tale fattispecie, permane il divieto delle variazioni in pejus”. Infatti, sempre in base a quanto disposto dai magistrati del reclamo, se il criterio dell’equivalenza in tema di assegnazioni del lavoratore a mansioni diverse “costituiva il paradigma per valutare la legittimità della nuova assegnazione a seguito degli spostamenti disposti da parte datoriale”, allora il nuovo art. 2103 c.c., come riformato dal D.Lgs. n. 81 del 2015, consente un’interpretazione più estensiva sulla possibilità di adibire il prestatore a mansioni diverse da quelle espletate in precedenza. La nuova regola condiziona, inevitabilmente, anche l’istituto del trasferimento sulla possibilità di assegnare compiti nuovi o diversi dal precedente bagaglio professionale posseduto dal lavoratore. Rileva, ancora, il Tribunale di Roma nella seconda ordinanza che se non può dubitarsi dell’ampiamento del potere datoriale di esercizio dello “ius variandi nei più ampi confini recentemente ridisegnati non può, del pari, non ammettersi che alla stessa nozione presupposta possa farsi riferimento anche quando debba dimostrarsi l’esistenza delle ragioni di carattere tecnico, organizzativo e produttivo, ostative al trasferimento richiesto”.

Quanto stabilito in entrambe le ordinanze in commento costituisce una importante innovazione interpretativa in tema di onere della prova a cui è obbligato il datore di lavoro con riferimento al diritto del lavoratore a scegliere la sede di lavoro quando assiste una persona affetta da handicap. E’ infatti ormai pacifico che il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. consenta al datore di lavoro di adibire i lavoratori a mansioni diverse da quelle precedentemente svolte purché le stesse siano riconducibili allo stesso livello di inquadramento ed alla stessa categoria legale. Ciò determina un allargamento dello ius variandi che incide inevitabilmente anche sull’onere probatorio posto a carico del datore di lavoro. In tal caso, secondo i due provvedimenti in analisi, è applicabile in via analogica la fattispecie del repêchage in mansioni riferibili al livello di appartenenza del lavoratore. Conseguentemente, per il datore di lavoro risulta dilatata, in senso orizzontale, la ricerca di posizioni differenti a cui poter adibire il lavoratore al fine di poter soddisfare l’esigenza del medesimo a prendersi cura concretamente del soggetto disabile.

* Segue nota di Michelangelo Salvagni.

[1] Sez. L., Sentenza n. 16298 del 03/08/2015

[2] decreto legislativo n. 81 del 15 giugno 2015, entrato in vigore il 25 giugno 2015 ed applicabile immediatamente, anche ai rapporti di lavoro in corso

[3] Con riferimento alla disciplina previgente v. Cass. Sez. Un., n. 25033 del 24 novembre 2006 secondo cui l’equivalenza legittimante lo ius variandi dell’imprenditore “deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività, ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o anche l’arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto”

 

[4] Nei precedenti di merito che si sono occupati dell’argomento non è posto in dubbio che l’art. 2103 c.c., nel testo sostituito dall’art. 3 del d.lgs. n.81 del 2015, consenta ormai, al comma 1, ai datori di lavoro, differentemente da quanto ritenuto dal diritto vivente affermatosi nella vigenza del testo dell’art. 2103 c.c. quale introdotto dall’art. 13 della l. 20 maggio 1970, n. 300, di adibire i lavoratori a mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, anche quando le nuove mansioni, per il loro diverso contenuto professionale, non consentano l’utilizzazione e l’arricchimento delle conoscenze e delle abilità acquisite nella precedente fase del rapporto, bastando che le nuove mansioni siano riconducibili, secondo il sistema di classificazione previsto dal contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro, allo stesso livello di inquadramento ed alla stessa categoria legale. Ciò determina un ampliamento dello ius variandi, posto che la generalità dei livelli previsti dai contratti collettivi accomuna mansioni anche sensibilmente differenti tra loro, sotto il profilo del contenuto professionale. TRIBUNALE DI ROMA - 30 settembre 2015 - Est. Sordi¸ TRIBUNALE DI RAVENNA - 30 settembre 2015 - Est. Riverso

 

* Avvocato in Roma.

[5] In giurisprudenza, si segnala sul punto una recente decisione della Cassazione, la n. 22421 del 3 novembre 2015, in Riv. giur.lav, 2016, 3, II, 366, con nota di M. Cimaglia, Il sistema di protezione rafforzato delle persone con disabilità, che ha rafforzato le disposizioni in materia di protezione del soggetto disabile ancorandole a principi costituzionali e a norme sovranazionali al fine di individuare, secondo la definizione fornita dalla Suprema Corte, “un sistema unitario di protezione”.

[6] G. De Simone, I confini giuslavoristici dell’assistenza familiare alla persona gravemente disabile, in Riv. it. dir. lav., 2009, 4, 842,

[7] Sul punto, si segnala anche C. Cost., 18 luglio 2013, n. 2013.

[8] In tal senso, si veda C. Cost., 16 giugno 2005, n. 233, in Riv. giur. lav., 4, 2005, II, 787, con nota di F. Borla, Estensione della tutela giuridico-economica per i fratelli/sorelle conviventi portatori di handicap,il quale richiama la precedente giurisprudenza costituzionale incentrata sul principio di tutela del portatore di handicap quale soggetto debole al fine di realizzare il suo inserimento nel lavoro e nella società in generale, anche attraverso il ruolo insostituibile della famiglia.

[9] O. Bonardi, I diritti dimenticati dei disabili e dei loro familiari in seguito alle recenti riforme in Riv. giur. lav., 2011, 4, II, 785.

[10] D. Mesiti, Handicap, cecità e sordità, Milano, 2013, 5.

[11] In merito, si veda la Circolare INPS n. 133 del 2000 che definiva i concetti di “continuità” ed “esclusività”; in dottrina, sulla “sopravvivenza” di tali prerogative nell’interpretazione giurisprudenziale al fine del riconoscimento dei benefici di cui alla Legge n. 104 del 1992, si segnala V. Lamonaca, Le agevolazioni ed i limiti al trasferimento dei lavoratori che prestano servizio ai disabili gravi, in Lav. giur., 2014, 12, 1053.

 

[12] In merito si veda Cass., Sez. Un., 7 marzo 2008, n. 7945, in Riv. giur. lav., 2008, 4, II, 886, con nota di L. Calafà, Disabilità e lavoro: il diritto di scelta della sede del lavoratore (non solo) pubblico.

[13] Cass., 3 agosto 2015, n. 16298, consultabile su ilgiuslavorista.it, con nota del 28 gennaio 2016 di R. Spagnuolo, Diritto del familiare di persona affetta grave di scegliere la sede di lavoro in costanza di rapporto

[14] In senso analogo, anche se sulla diversa questione del diritto del lavoratore titolare dei benefici dell’art. 33, comma 5, L. n. 104 del 1992 a non essere trasferito senza il proprio consenso, si segnala Cass., n. 9201 del 2012 secondo cui “la disposizione della L. n. 104 del 1992, articolo 33, comma 5, laddove vieta di trasferire, senza consenso, il lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati – alla luce dell’articolo 3 Cost., comma 2, dell’articolo 26 della Carta di Nizza e della Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 sui diritti dei disabili, ratificata con L. n. 18 del 2009 – in funzione della tutela della persona disabile. Ne consegue che il trasferimento del lavoratore è vietato anche quando la disabilità del familiare, che egli assiste, non si configuri come grave, a meno che il datore di lavoro, a fronte della natura e del grado di infermità psico-fisica del familiare, provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive ed urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte”, in Lav. giur., 2013, 5, 503 – 514, con nota critica di D. Mesiti, L’handicap e il divieto di trasferimento del lavoratore.

 

[15] Cfr. Cass., 22 marzo 2016, n. 5592 e Cass., 13 giugno 2013, n. 12101, pubblicate entrambe in Riv. giur. lav,, 2016, II, 302, con nota di L. Monterossi, Licenziamento per giustificato motivo e repêchage: nessun onere di allegazione. Sul punto si veda anche G. Santoro-Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo e l’ambito della tutela risarcitoria, in Arg. dir. lav., 2013, 2, 236 e ss.. Cfr. altresì M. Persiani, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage, in Giur. it, 2016, 5, 1164 e ss.

[16] Cfr. Cass., 22 marzo 2016, n. 5592, che richiama in merito i precedenti di legittimità: Cass., 29 gennaio 2016, n. 1665; Cass., 14 gennaio 2013, n. 2016; Cass., 2 settembre 2013, n 20110; Cass., 17 aprile 2012, n. 6008; Cass., 6 giugno 2012, n. 9099.

[17] Cfr. in tale senso sempre Cass., 22 marzo 2016, n. 5592.