POSTE ITALIANE CONDANNATA ALL’ADOZIONE DEGLI ACCOMODAMENTI RAGIONEVOLI PER IL DISABILE AFFETTO DA FIBROMIALGIA: IL TRIBUNALE DI ROMA, IN FASE DI RECLAMO, CONFERMA L’ORDINANZA CHE OBBLIGA ALL’ADOZIONE DELLO SMART WORKING

  Il Tribunale di Roma, in composizione collegiale, con la recente ordinanza del 30 aprile 2024, ha confermato, anche in fase di reclamo, le domande della lavoratrice, difesa dallo Studio Legale Salvagni, volte al riconoscimento delle proprie patologie quali rientranti nella nozione eurounitaria di disabilità ed incompatibili con lo svolgimento dell’attività lavorativa in presenza, rigettando il reclamo della società.

Il Collegio ha così confermato la condanna del primo giudice nei confronti del datore di lavoro ad attuare ogni “accomodamento ragionevole” per consentire alla lavoratrice, considerata disabile secondo la nozione eurounitaria in quanto affetta da una patologia che non le permette di recarsi ogni giorno a lavoro come gli altri dipendenti, di espletare la propria attività lavorativa in condizioni di uguaglianza con gli altri lavoratori.

I Giudici, infatti, hanno ritenuto che la fibromialgia, di cui è affetta la ricorrente, sia una patologia invalidante che non consente alla medesima di svolgere le proprie mansioni in presenza, al pari degli altri lavoratori. Patologia peraltro riconosciuta anche a seguito di CTU medico legale disposta dal Tribunale stesso nel corso del giudizio.

Conseguentemente il Collegio adito, in base alla nozione di disabilità eurounitaria, ha dichiarato che il rifiuto della società di consentire alla lavoratrice di svolgere la prestazione in modalità di telelavoro e/o lavoro agile configuri una discriminazione indiretta ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. 216/2003. Ciò anche in considerazione del fatto che il perdurare della modalità di svolgimento della prestazione, prevalentemente in presenza, fosse idonea ad aggravare le condizioni di salute della lavoratrice.

In particolare, il Collegio ha affermato che “dal complesso delle suddette disposizioni emerge, dunque, che il datore di lavoro debba tenere in considerazione la situazione di svantaggio del lavoratore, adottando "soluzioni ragionevoli", idonee ad evitare una discriminazione indiretta che produca l'effetto di estromettere il dipendente disabile dal lavoro proprio a causa della sua disabilità”.

Peraltro, sempre a parere del Tribunale di Roma, la società “non è riuscita né a dedurre né a dare prova della sussistenza di ragioni aziendali ostative in merito alla adibizione della reclamata alla prestazione di lavoro agile, così come dalla stessa richiesto”.

I Giudici hanno conseguentemente confermato, anche in fase di reclamo, l’ordinanza impugnata dalla società, affermando che, proprio in ragione delle gravi menomazioni fisiche da cui risulta affetta la lavoratrice, la medesima “versi in una condizione di disabilità c.d. eurounitaria, che dunque determina una condizione di svantaggio sociale e lavorativo tale da renderla meritevole di un intervento da parte del proprio datore di lavoro finalizzato a realizzare accomodamenti ragionevoli per ristabilire una parità di trattamento fra i dipendenti”, condannando Poste Italiane ad adibire la lavoratrice al lavoro agile, con massimo quattro rientri mensili.

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CONFERMATA IN APPELLO LA SUBORDINAZIONE DI UN MEDICO DEL S. CAMILLO FORLANINI: L’OSPEDALE CONDANNATO AL PAGAMENTO DI € 90 MILA PER DIFFERENZE RETRIBUTIVE, OLTRE A 7 MENSILITÀ QUALI RISARCIMENTO DEL DANNO DA PRECARIZZAZiONE.

Errata corrige 17 SET 2024

Causa patrocinata dallo Studio Legale Salvagni

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 29 dicembre 2023, ha confermato la sentenza di primo grado, con la quale era stato accolto il ricorso proposto nei confronti dell’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini, da un medico assistito dallo Studio legale Salvagni, con riconoscimento della natura subordinata del rapporto di formale collaborazione professionale intercorso tra le parti e con condanna dell’ospedale al versamento in favore della ricorrente dei contributi previdenziali e assistenziali, nonché della somma complessiva di € 90.000,00 a titolo di differenze retributive.

In particolare, la Corte adita, condividendo il ragionamento del Tribunale, ha affermato che era risultata dimostrata, sia dai testi escussi, sia dalla produzione documentale, la subordinazione della lavoratrice.

Infatti, la Corte ha confermato che i contratti di collaborazione professionale e/o di lavoro occasionale sottoscritti con l’azienda ospedaliera nel periodo ricompreso tra il 2011 e il 2016, mascheravano, in realtà, un rapporto di lavoro subordinato, in quanto era stato dimostrato che la lavoratrice aveva svolto in favore dell'azienda prestazioni tipiche di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato; e infatti: all’esito dell’istruttoria testimoniale, era emerso che la dottoressa, nell’osservare un orario fisso e garantendo la propria disponibilità finanche nel fine settimana, aveva svolto le mansioni proprie dei dirigenti medici strutturati, avendo contribuito altresì alla gestione in prima persona del reparto, sotto la direzione del primario.

Pertanto, il Collegio adito ha confermato il ragionamento del Tribunale accertando la subordinazione e dichiarando la nullità dei fittizi contratti di collaborazione professionale, con conseguente condanna dell’ospedale al pagamento alla lavoratrice delle differenze retributive pari ad € 90.000,00, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali, nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti in ragione della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti.

Inoltre, la Corte d’Appello ha accolto anche l’appello incidentale presentato dalla lavoratrice, stabilendo che la stessa avesse diritto al pagamento dell’ulteriore somma, pari a 7 mensilità della retribuzione globale di fatto, a titolo di risarcimento del danno da c.d. precarizzazione (o danno comunitario), in ragione della illegittima reiterazione di contratti di collaborazione autonoma fittizi per tutto il periodo di sei anni, dal 07/02/2011 al 30/06/2016.

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TELECOM CONDANNATA DALLA CORTE DI APPELLO A PAGARE ALTRI € 250.MILA PER AVER DEMANSIONATO UN LAVORATORE INQUADRATO NEL LIVELLO 7° QUADRO E A PAGARE IL VALORE BENEFIT AUTO QUALE RETRIBUZIONE IN NATURA PER REVOCA AUTO AZIENDALE AD SUO PROMISCUO.

Causa patrocinata dallo Studio Legale Salvagni

La Corte di appello di Roma, con sentenza del 20.05.2024, rigettando l’appello proposto dalla società, ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma che aveva accertato l'illegittimo demansionamento subito da un lavoratore inquadrato nel livello 7° Quadro e statuito che le mansioni  svolte in distacco presso altra società (la Loquendo) erano da ricondursi a quelle di Venditore e, come tali, riferibili all’inferiore 5° livello del CCNL Telecomunicazioni, mentre quelle di Store Fix Specialist, svolte successivamente, erano addirittura riferibili all’inferiore di 4° livello del CCNL applicato.

La Corte di appello, inoltre, in accoglimento dell’appello incidentale proposto dal lavoratore, ha condannato la società alla corresponsione di ulteriori (rispetto ai 170.000 liquidati dal giudice di primo grado) 250.000 euro a titolo di danno alla professionalità (in considerazione della notevole durata della dequalificazione professionale - dal 2017 - e della gravità del demansionamento). In tal modo, il danno professionale liquidato corrisponde all’80% della retribuzione per ciascun mese per tutto il periodo dell’accertato demansionamento.

I giudici del secondo grado, infine, sempre in accoglimento dell’appello incidentale proposto dal lavoratore, hanno riconosciuto l’assegnazione di un’auto aziendale concessa ad uso promiscuo quale retribuzione in natura corrisposta mediante il conferimento in favore del lavoratore di beni e/o servizi, comunemente denominati "fringe benefit”.   

Ed infatti, a seguito della revoca dell’auto aziendale, il lavoratore aveva adito il Tribunale di Roma per richiedere il riconoscimento della natura retributiva della stessa e il conseguente pagamento delle retribuzioni per equivalente in ragione della mancata fruizione del benefit, trattandosi di retribuzione irriducibile ex art. 2103 e 2099 c.c., ormai entrata a far parte del patrimonio del lavoratore.          

La Corte di appello di Roma, per quanto attiene all’attribuzione dell’auto aziendale per “uso promiscuo” con inserimento in busta paga dell’elemento figurativo del valore convenzionale dell’auto, ha ritenuto che tale concessione, trattandosi di “fringe benefits”, assume valore di retribuzione in natura, cui si applica il principio di irriducibilità della retribuzione.

Pertanto, secondo il giudice, il datore può revocare l’utilizzo dell’auto, ma solo a condizione di mantenere lo stesso livello retributivo del dipendente, trattandosi di retribuzione irriducibile, connessa all’uso promiscuo dell’auto.

La società, pertanto, è stata condannata al pagamento di una somma avente natura retributiva, quale controvalore economico del benefit revocato, nonché del controvalore del costo carburante.  

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COMDATA PERDE TUTTE LE CAUSE DI LICENZIAMENTO PER CAMBIO APPALTO: NON SUSSISTE L'OBBLIGO DI ACCETTARE L'ASSUNZIONE PRESSO IL NUOVO APPALTATORE E IL LAVORATORE PUO’ SEMPRE IMPUGNARE IL RECESSO

Causa patrocinata dallo Studio Legale Salvagni


Lo studio legale Salvagni ha recentemente vinto in Cassazione un’importante controversia relativa a 6 lavoratori licenziati dalla società Comdata S.p.a. per i quali è stata definitivamente confermata la reintegrazione nel posto di lavoro, reintegra invero immediatamente ottenuta sin dalla prima sentenza del Tribunale di Roma e poi confermata dalla Corte di Appello di Roma.

Il caso riguarda società Comdata S.p.A., nota azienda che si occupa di servizi di call center, che, con un’operazione del tutto illegittima, utilizzando peraltro in modo anomalo la cd clausola sociale in materia di cambio appalto nel contatto telecomunicazioni, ha ceduto i propri dipendenti, addetti alla commessa di altra società ALD Motive (ben 56), ad una società subentrante, neocostituita ed avente un capitale sociale di appena 10 mila euro. ...

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